
Sottotitolo: perché uno dei dischi più brutti e tristi della storia dell’heavy metal continua ancor oggi a godere di una certa qual reputazione artistica?
Il ’98, musicalmente parlando, è una bestia strana. Se lo mettiamo a confronto con la sbornia dei ventennali con cui abbiamo riempito i fogli negli ultimi 5 anni, è un anno relativamente scarico. Ci sono dischi con cui abbiamo molto a che fare anche oggi, ad esempio il disco dei Neutral Milk Hotel, ma tutto sommato è roba che fa la sua figura più oggi che allora. In quell’anno sono usciti tanti dei miei dischi preferiti, specie di estrazione rock: End Hits, Up, Philophobia e roba simile, ma se andiamo a guardare di fino sono più passioni personali che opinioni condivise. Il fatto è che il ’98 forse è il primo anno musicale in cui abbiamo davvero a che fare con la morte dell’immaginazione: il grunge è finito, il punk melodico è finito, il britpop è finito, la dance di orientamento pop-rock è praticamente finita. Non è che non ci siano movimenti musicali importanti, ma per la prima volta sembra che nessuno di questi sia destinato a diventare il nuovo mainstream. La principale cosa musicale che sta succedendo a livello di immaginario è che dopo anni di tentativi in provetta, quasi tutti di successo commerciale, tutti si sono convinti che la strada per il futuropassi per l’incrocio tra generi. Il metal è totalmente allo sbando, ma ancora non ce ne stiamo rendendo conto. I gruppi grossi della prima spremitura anni ’90 (Pantera, Type O Negative e simili) hanno ceduto il passo alla generazione immediatamente successiva, quella dei vari Korn/Deftones/Machine Head: per la prima volta nella storia del genere, la generazione successiva suona meno duro della generazione precedente. Il metal estremo registra la cosa e decide di asserragliarsi sulle proprie posizioni; dal punto di vista del sangue blu il gruppo-guida del periodo sarebbero i Sepultura, ma i Sepultura si sono sciolti l’anno precedente.
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La storia delle origini dei Sepultura non è molto diversa da quella delle altre band: ascolti qualche disco heavy metal, ne rimani folgorato, metti su un gruppo. Poi ascolti qualche disco heavy metal più violento di quelli che avevi ascoltato, la testa ti esplode e decidi di iniziare anche tu a fare a gara a chi suona più duro. La prima particolarità dei Sepultura è che questo succede a Belo Horizonte, nel sud del Brasile, in un periodo nel quale il Brasile è ancora identificabile come terzo mondo. In questo la biografia dei Sepultura ha qualche parentela con le storie raccontate in documentari come Heavy Metal in Baghdad, i film che raccontano il bisogno di essere metal in realtà che dal punto di vista politico sociale ed economico sono ai margini del mercato mondiale (cioè di essere metal in un posto dove essere metal è inconcepibile, o magari esplicitamente vietato). La seconda particolarità dei Sepultura è che a dispetto dell’ambiente ostile da cui prendono le mosse (tipo registrare con ingegneri del suono che non hanno mai ascoltato un disco metal), sono considerati sin dagli esordi uno dei gruppi metal più interessanti sul mercato: adottati fin da subito dalla critica, esplodono soprattutto con l’arrivo di Scott Burns a produrre, all’epoca di Beneath The Remains e Arise (ancora oggi listati a merito tra i classici assoluti del thrash/death). Da qui in poi è solo questione di sapersi amministrare: si trasferiscono a Phoenix, ingaggiano Gloria Bujnowski come manager e continuano a inanellare successi: Chaos AD li trasforma in un gruppo groove metal di classe mondiale. Su Roots scrissi questa cosa qui e non voglio ripetermi. Socialmente i Sepultura sono la classica gateway drug del metal, un gruppo violento ed estremo che potevamo ascoltare senza diventare per forza di cose degli esegeti del grindgore –ma qualcuno li ha ascoltati e lo è diventato. Certe caratteristiche del gruppo hanno a che fare con l’idea della big band squassata da conflitti e segnata dalla personalità dei suoi membri, altre caratteristiche puntano a fare il piedino a tutti i discorsi sulle radici e LA SCENA ed essere sempre fedeli alla linea, qualunque essa sia.
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Lo scioglimento dei Sepultura è un fulmine a ciel sereno, in parte perché è la fine di un gruppo strategico e in parte perché si tratta di una delle storie di gossip più fastidiose della storia del metal. Le cose vanno così: i restanti membri del gruppo stanno pensando di cambiare diversi membri del loro staff e sollevare Gloria Cavalera dal suo incarico, per via del fatto che –a detta loro- le priorità della manager in questione sono sempre meno legate alla band e sempre più alla figura del marito. La notizia viene comunicata a Max Cavalera alla fine del tour di Roots: Gloria ha perso da poco un figlio ventenne in un incidente stradale. Vengono fuori rivalità e scazzi, e Max Cavalera esce dal gruppo. Da qui in poi inizia una nuova fase, segnata da un fuoco incrociato di dichiarazioni, soprattutto da parte del cantante. Le tempistiche sono curiose, perché tutto l’impianto ideologico del loro ultimo disco si fonda sull’idea di Sepultura come tribù indissolubile legata nel sangue e a cui i membri pagheranno eterno rispetto.
Roots era un disco di metal contaminato, o comunque vogliate chiamare questo genere. L’elemento crossover è farina del sacco di Max Cavalera, a detta sua: è lui ad avvicinare il produttore dei Korn, spingere per l’inserimento di certi elementi di musica tradizionale e collaboratori più o meno extragenere (Carlinhos Brown, Mike Patton, Jonathan Davis). All’atto pratico, Roots allenta di parecchio le cinghie anche rispetto al comunque monolitico Chaos AD. Ne guadagna in dinamica e in personalità: a 20 anni di distanza è ancora un disco con un senso. Ho letto un’intervista a Cavalera, ai tempi, in cui diceva di aver già programmato i due dischi successivi della band: uno che proseguisse la via delle contaminazioni, e subito dopo un disco violentissimo. Questa cosa di avere un futuro scritto cozzava un po’ con l’idea di istinto e unanimità alla base dei Sepultura, ma non si può dire che il gruppo non avesse gestito oculatamente il proprio progresso fino a quel momento.
Se aveste chiesto ai Sepultura chi fosse il genio del gruppo mentre il gruppo era in vita, probabilmente avrebbero iniziato a menarla con la storia della magica alchimia. Effettivamente i Sepultura erano una macchina da spettacolo piuttosto eterogenea. Le cose più particolari nella musica del gruppo le mettono Kisser e Igor Cavalera: la chitarra solista di stampo quasi psichedelico, le batterie tribal-industriali che poi verranno copiate da migliaia di epigoni. Max Cavalera era un frontman di razza: la sua capacità di entrare in contatto con il pubblico, per giunta in una lingua di cui conosceva sì e no i rudimenti, era quasi sovrumana. Nel momento di separare i letti i tre membri superstiti hanno conservato il nome e cercato un cantante. L’altro ha cercato un nome e dei musicisti.
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Max Cavalera non se la sentiva di fare un disco solista, e così fondò un gruppo. Aveva un certo ascendente sulla scena crossover, in fondo ne era il fratello maggiore: parlava bene dei gruppi, frequentava i musicisti. Ne chiamò svariati per aiutarlo a mettere insieme il disco: Fred Durst dei Limp Bizkit (prima che diventasse Fred Durst e basta), Chino Moreno, Benji dei Dub War. Anche il gruppo era stato fondato dentro al giro; lui aveva scritto un pugno di canzoni. Per essere esatti più che scrivere aveva provato a riscrivere le canzoni di Roots, ricicciando la stessa idea terzomondista e lo stesso pantheon di personaggi del folklore amazzonico, con l’aggiunta degli stessi strumenti (berimbau, percussioni tribali) e poco altro. Impossibilitato a tagliare tutto con la personalità organica della chitarra di Kisser e della batteria di suo fratello, aveva deciso di spingere sul pedale delle ibridazioni: dentro al calderone dei pezzi c’erano andati a finire anche due strumentali di orribile ispirazione prog rock e una inqualificabile cover di Jorge Ben. Per la produzione Cavalera aveva deciso a ri-affidarsi a Ross Robinson, che nel ’98 era ancora il produttore più richiesto nei quartieri alti del metal (e in quell’anno avrebbe fatto uscire il manifesto ideologico del RobinsonSound, l’omonimo degli Slipknot). Al centro dei testi: le autocelebrazioni, la disputa coi Sepultura, la morte del figlioccio e tutte le cose che già stavano dentro a Roots. Il disco, il gruppo e la più brutta canzone contenuta nel disco si sarebbero chiamati Soulfly.
Le audizioni per trovare il nuovo cantante dei Sepultura, per un certo periodo, furono leggendarie. Per certi versi ricordano quelle che qualche anno dopo i Metallica avrebbero fatto per sostituire Jason Newsted, solo un po’ meno glamour: nomi che continuavano a saltar fuori, si dice/si dice/si dice, poca ciccia. Il problema è questo: Max Cavalera era insostituibile. Era sostituibilissimo dal punto di vista musicale: anche in tre erano talmente compatti e rodati che avrebbero potuto prendere uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica, e tirar su uno spettacolo sonoro degno dei Sepultura. Ma tutta la dimensione carismatica e di culto attorno al gruppo era andata a farsi benedire, e il gruppo l’avrebbe pagata chiunque fosse il cantante.
Paradossalmente per Cavalera era più facile farla franca: avrebbe provato a ricreare dei nuovi Sepultura in vitro, con altri musicisti, continuando a fare dichiarazioni sulla tribù e lo spirito, blastando gli ex-compagni con quel fare ascetico di chi è sempre superiore a tutti, nella speranza che il bagaglio ideologico da fricchettone fosse così insolito in quel contesto da giustificare qualunque musica si fosse poi degnato di fare uscire. Successe esattamente questo.
La differenza musicale tra Soulfly del 1998 e Roots del 1996 è la stessa che passa tra metal e nu-metal. Roots è un disco metal in ogni suo aspetto: è realizzato con l’idea di essere brutale, cattivissimo; le due variazioni sul tema servono più a far parlare della musica di quanto servano oggettivamente a cambiarla. Le pose tradizionaliste dei Sepultura dell’epoca sono pagliaccesche ed esagerate come lo può essere il metal. Soulfly invece è realizzato con la precisa idea di fare un disco contemporaneo. Le variazioni sul tema sono più numerose ma meno incisive. In Roots c’era un produttore rampante a girar manopole per conto di un gruppo con cinque dischi in saccoccia, in Soulfly lo stesso produttore è ormai affermato e s’è trovato a lavorare quasi da zero -si pensa a un suono, si fa il gruppo, si fa il disco. C’era perfino un simbolo tribale stampato da qualche parte, sai mai che qualcuno volesse tatuarselo. Entrare a far parte della Soulfly Tribe era relativamente facile, tant’è che molti ci si trovarono dentro a loro insaputa -compri il disco e diventi quella cosa lì. Rimanerci dentro, da musicisti, era più complicato: al momento di entrare in studio per registrare il secondo disco, manco due anni dopo, Max Cavalera aveva già licenziato tre membri (nelle interviste li accusò di essere dei poseur poco interessati al lati spirituali della faccenda).
Funzionò tutto a meraviglia. Soulfly vendette benissimo e venne accolto con entusiasmo: la visione musicale e il respiro etnico-tribale del disco vennero promossi a pieni voti. Il disco era bruttissimo: il poco di buono che aveva era copiato da un disco che già possiedevamo e suonato da musicisti non all’altezza. Umbabarauma, una cover metal di Jorge Ben che manco in quinta elementare, spopolò. Il Brasile perse i mondiali con la Francia in finale, la famosa storia della crisi di Ronaldo. Dei Soulfly scrisse una bella cosa Teo Segale: erano soffocati tra il bisogno di suonare quei riffoni nu-metal, e i continui richiami a una tribù i cui membri, se esistessero, si odierebbero apertamente.
I Sepultura alla fine presero uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica. Against uscì qualche mese dopo, venne sostanzialmente stroncato, vendette poco. Bastava ed avanzava a dare una visione del futuro che sarebbe toccato ai Sepultura: mestiere, testa bassa, dischi scialbi. Riascoltato oggi è un disco onesto, sicuramente non all’altezza dei dischi da Schizophrenia a Roots, ma molto più gradevole e massiccio di qualsiasi cosa a cui abbiano messo mano i Soulfly. Il tempo non è stato clemente col gruppo: i dischi successivi (che scopro oggi, con orrore, essere dieci) sono uno più brutto dell’altro. Per un disco si poteva anche far finta, poi insomma.
“If 17 different things hadn’t conspired in the exact right order, we wouldn’t be sitting here.”
(The Newsroom)
Il metal funziona finché qualcuno è disposto a menare più forte di quello che era arrivato prima di lui. I miei ricordi del ’98 sono complicati: volevo ancora ascoltare il metal, ma qualcosa non andava. Lo scioglimento dei Sepultura fu la vangata finale sul corpo esanime di un genere che stava morendo. Fossero andati avanti assieme, forse l’agonia sarebbe stata rimandata di qualche anno. Nessuno ha preso il loro posto: i gruppi che seguirono non avevano la gavetta, né tantomeno la scorza, per prendere in mano le redini del genere. Può succedere. Il fatto è che riascoltare il primo disco dei Soulfly a vent’anni esatti dalla sua uscita è veramente imbarazzante.