James Chance è un uomo totalmente, irreversibilmente perso nella sua visione. Come il Wenner Zerzog descritto da Bukowski in Hollywood Hollywood (libro da queste parti molto amato), probabilmente: uno capace di litigare con la moglie a colpi di pistola, tirarle addosso tutto il caricatore e sbagliare tutti i colpi, oppure andare in giro in macchina senza mettere l’acqua nel radiatore, e per questo spaccare il monoblocco. È un genio, non le sa queste cose. Era un UFO incontrollabile e ingestibile trenta anni fa, e lo è tuttora. Aveva poco senso ai tempi incasellarlo nel bollirone no wave, che anche allora era comunque qualcos’altro (probabilmente il solo a rappresentare realmente il proprio Io disperato), figuriamoci oggi che di acqua sotto i ponti ne è passata troppa e James è ancora qui, sempre uguale a sé stesso, divorato da suoi tic e dalle sue manie, svolazzante nel suo completo da cameriere di tre taglie più grande. Abbiamo avuto la fortuna di assistere, circa tre anni fa, a un concerto di James Chance, il primo in Italia dal 1981 come ci dissero i ben informati, al Clandestino di Faenza; una performance EPOCALE, impossibile da rendere a parole, capace di scuotere nel profondo e rimettere in discussione le proprie scelte di esseri umani prima ancora che di ascoltatori. Rivederlo in azione non rappresenta più una sorpresa ma il carico di aspettative è ugualmente esorbitante, sapendo a cosa si va incontro e pretendendo quindi dall’uomo non meno che l’eccellenza; verremo esauditi. Rispetto alla volta scorsa James si è ritinto i capelli, che da bianchi tornano a essere di un nero innaturale, facendogli così perdere quell’aria ancora più allucinante da incrocio semovente tra David Lynch e Beethoven; è l’unico suo vezzo per contrastare lo scorrere del tempo, per il resto è esattamente uguale a sempre: frac bianco enorme con bordi neri da orchestrale di night club, camicia bianca spiegazzata, pantaloni neri giganteschi che cadono sul davanti, scarpe scalcagnate. Entra in scena che è un fascio di nervi scoperti, pronti a sussultare alla minima sollecitazione; glielo leggi negli occhi il nervosismo, non bastassero i gesti fulminei e imperiosi con i quali detta le coordinate da seguire ai suoi (bravissimi) gregari, sempre pronti ad assecondare istantaneamente ogni cambiamento di registro, ogni strabordante improvvisazione ora di sax ora di tastiera. I piedi si muovono autonomamente rispetto al resto del corpo: sono i suoi balletti scriteriati, improponibili, schizofrenici, eppure non privi di una certa sconvolgente grazia a ipnotizzare, a rendere profondamente giusto e necessario tutto quanto. Annaspante nella temperatura da forno crematorio del Locomotiv James suda, e suda abbondantemente, e si tampona di continuo la fronte e le guance con un fazzoletto bianco di stoffa che sfila dal taschino all’occorrenza, alza lo sguardo terrorizzato verso i fari e farfuglia, dopo l’ennesimo tremito, “turn off the lights, please“, ma non rinuncia alle sue deliranti coreografie o ai suoi urli lancinanti da orangutang in calore, e mai e poi mai si libererà della giacca o della camicia dentro le quali sguazza impunemente. Dopo un’ora e venti di concerto impeccabile (cover di James Brown, obbligatoria chiusura con Contort Yourself e bis di contorno compresi) James Chance lascia il palco, fulmineo e irrevocabile così come era entrato; nemmeno l’ombra di un’interazione col pubblico, non un “grazie”, neppure uno sguardo. Troppo perso nella sua visione. Ci fossero stati due o duecentomila spettatori, fossero essi uomini donne o cani o formichieri, sarebbe stata per lui esattamente la stessa cosa. Veniamo a sapere che la sera prima a Sorrento ha perso le sue scarpe da concerto, scarpe nere di vernice da ballerino di altri tempi; per tutto il giorno è stato in preda al panico, terrorizzato,non voleva suonare. Poi chissà come è riuscito a calmarsi, pochissimo prima dello show, questione di mezze ore, è arrivato e ha fatto il concerto; il tour deve continuare, quali che siano i demoni che lo divorano dall’interno. James non mollare.