Tanto se ribeccamo: Count Raven

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Da sempre, dire Count Raven equivale a evocare un culto sotterraneo, quasi dimenticato dai più quanto, al contrario, sempre vivo e presente nei cuori degli iniziati; di quel minuscolo fuoco ardente che fu la scena doom dei primi anni novanta i Count Raven erano la fiamma che bruciava con più convinzione nelle retrovie, lontani dagli onori giustamente tributati ai colossi Saint Vitus e Obsessed quanto dalla (comunque spesso apprezzabilissima) manovalanza di meteore quali Unhorthodox, Wretched o Year Zero. Fieramente detentori di un suono ultraclassico, immediatamente catalogabile eppure allo stesso tempo personalissimo e inimitato, riuscirono a isolare la componente più ancestrale, sulfurea e perversamente esoterica dell’heavy rock sintetizzato dai Black Sabbath nei primi cinque dischi amplificandone a dismisura l’effetto straniante e la portata angosciosa, grazie anche alla voce (dal secondo disco in poi) del leader, chitarrista e compositore unico del 99% del materiale, Dan “Fodde” Fondelius, che dell’Ozzy più sguaiato, smodato e intemperante era qualcosa come il clone maligno e spietato. Quattro album emessi tra il 1990 e il 1996 sono le pietre angolari del culto, a svettare tra essi High On Infinity (1993), che porta in sé le stimmate del capolavoro: in una spirale senza fondo di angosciose visioni e fantasie malsane, il gruppo forza la mano a una serie di suggestioni morbose dell’animo rendendole realizzabili (e realizzate), ridefinendo in toto il concetto stesso di “ossianico”. Nel 1996 l’ultimo atto Messiah of Confusion, penalizzato da una copertina francamente rivoltante (una foto virata in rosso di un teschio umano intasato di vermi e sterpaglie, accanto al titolo un’immagine di Charles Manson ripetuta tre volte in diverse tonalità), comunque efficace nel riproporre una nuova galleria degli orrori con efficacia e persuasione del tutto intatte, tra invocazioni ad allucinanti divinità addormentate e deliranti profezie da fine del mondo imminente. Poi più nulla, a seguito del tracollo di Hellhound, la storica etichetta berlinese che in quegli anni fu un vero e proprio faro catalizzatore dell’intero movimento, e di cui i Count Raven erano finiti per diventare le “teste di serie” più importanti subito dopo Saint Vitus e Obsessed. Lo stesso doom sound oscuro e irrimediabilmente “fuori dal tempo” di cui quelle band erano state portabandieta per più di un lustro quasi sparisce dalla circolazione, sorpassato a destra dallo sludge di scuola americana e a sinistra dall’allora nascente ma già virulenta scena stoner; sembra siano passati secoli. Nel 2003 la macchina torna a funzionare grazie a un’inaspettata reunion per una brevissima serie di date live. Si direbbe poco meno di un estemporaneo revival, senonchè Fondelius rientra in possesso dei master originali e, tra il 2005 e il 2006, ristampa l’intera discografia (cambiando il solo artwork di Messiah of Confusion, sostituendo l’immagine di copertina con una più canonica panoramica cimiteriale), nel frattempo totalmente scomparsa dalla circolazione; iniziano a circolare voci riguardanti un nuovo album sotto la sigla Count Raven (Fondelius aveva nel frattempo formato una nuova band, Doomsday Gouvernment, di cui fisicamente esistono giusto un paio di tracce incluse su compilation letteralmente introvabili), ma il marchio scompare di nuovo a metà 2006, e il silenzio sembra questa volta definitivo. È recente la pubblicazione per I Hate Records di Mammons War, inatteso e in un certo senso imprevisto ritorno con un lavoro di inediti, il quinto, proprio quando ricorre il ventennale della band – che ormai è un’esclusiva del solo Fondelius, unico superstite della formazione originale. Il disco è BELLO, di quella bellezza che deriva dalla ripetizione di un canovaccio la cui comprovata efficacia non teme lo scorrere del tempo; nuovamente capace di trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela, onirica e misticheggiante, punteggiata delle solite farneticanti divinazioni (Seven days, The poltergeist), allucinanti visioni (la sconvolgente title-track, To kill a child, che pure torna sul luogo del delitto, dove in Children’s holocaust – da High on Infinity – si parlava di “sodomizzare i propri figli“…) e sgangherate dichiarazioni d’amore a entità non si sa quanto evanescenti (Nashira, uno dei momenti più belli dell’intero album), Mammons War nel suo incedere poderoso e meravigliosamente prevedibile perpetua in sé l’incrollabile tenacia e tutta la fiera austerità dei culti minori.

Inizia oggi una nuova rubrica di Bastonate, si chiama Tanto se ribeccamo e parla di reunion strampalate, rabberciate, inattese.

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