Gli Alice Donut da New York hanno sempre fatto razza a parte: nati nel 1986 con un retroterra che spaziava dall’hardcore al conservatorio, conobbero un briciolo di fama nei tetri e grungettosi anni novanta anticipando e per molti versi parodiandone gli eccessi più grotteschi e autoindulgenti. Capitanati dal bruttissimo vocalist Tom Antona e ‘ispirati’ dall’ancora più mostruoso ‘modello’ Chet Mazur (che spesso amava presentarsi vestito da donna, con tanto di orecchini e bigodini, sorta di incrocio tra Frank Zappa e una portinaia subnormale), riuscirono a inscenare una serie di gallerie degli orrori di fascino, efficacia e persuasione sempre crescenti fino all’apice Mule (1990), dopo il quale seguirono dischi a volte anche di pari livello (in particolare The Untidy Suicides of Your Degenerate Children, 1992) ma irrimediabilmente privi dell’effetto sorpresa che aveva reso assolutamente deflagranti i loro esordi. Il primo impatto con gli Alice Donut è sempre devastante, a prescindere da che disco si sia scelto come personale iniziazione (a parte, almeno personalmente, Pure Acid Park del 1995, che considero spompo e noioso per quanto non privo di quella scalcagnata dignità propria dei lavori minori delle band in disarmo); la loro musica è talmente diversa e a sé stante da rendere il primo ascolto un’esperienza di cui si potrà conservare nitido il ricordo probabilmente per tutta una vita. Riuscire a datare con esattezza e precisione cronometrica l’esatto momento in cui siamo entrati in contatto la loro arte, chi e come eravamo, cosa stavamo facendo e a cosa stavamo pensando quando la nostra percezione della musica è stata irreversibilmente cambiata da un loro pezzo: non sono molte le band capaci di questo. Il motivo per cui non sentirete mai parlare degli Alice Donut nelle enciclopedie della storia del rock (se non al massimo con qualche riga svogliata, con quel sussiego che si riserva alle band di culto ma che comunque non ci sono potute riuscire) è lo stesso per cui molta gente non ride alle barzellette sui morti: erano troppo sgradevoli, di quella sgradevolezza che ognuno di noi ha provato almeno una volta nella vita, quando si è reso conto di avere appena detto la cosa più inappropriata al momento più sbagliato. Per chiunque sia di madrelingua o comunque conosca molto bene lo slang americano, un disco degli Alice Donut è molto più che un ascolto: è una prova di forza fisica e mentale. Difficilissimo, quasi impossibile resistere all’impulso di alzarsi e andare via, scappare a gambe levate, ovunque purchè il più possibile lontano dall’eco delle deliranti liriche scandite dalla compiaciuta agghiacciante sguaiata voce da teatrante ubriaco del maestro di cerimonie Antona, un giullare sadico rivomitato direttamente dai bassifondi più sordidi, dalle pieghe più deviate della psiche umana, quella voce nel cervello che tocca le corde sbagliate, che istiga a tirar fuori il peggio di noi, a dire e fare cose irriferibili di cui poi pentirsi amaramente a misfatto già commesso. La fine di un loro disco è come la fine di un incubo: con il silenzio (come con il risveglio) arriva anche l’inaudito, inebriante sollievo nel rendersi conto che quel che abbiamo appena vissuto non è successo veramente. Si esce spossati e profondamente defatigati dall’(auto)inflizione di un album degli Alice Donut, ma anche considerevolmente più leggeri e mondati di parte della merda che abbiamo dentro, il tutto a un modico prezzo e senza dover confessarsi, pagare uno psichiatra o commettere atti irrimediabili e irreversibili, tipo un omicidio.
Scioltisi per la prima volta nel 1996, hanno poi ripreso a esibirsi dal vivo nel 2001 e a pubblicare dischi nel 2004; del nucleo originario è da tempo rimasto il solo Antona. Il 22 settembre è uscito in America il nuovo album Ten Glorious Animals, dignitosa medietà da chi può ben permettersi il mestiere, come se gli anni novanta fossero una condizione della mente. Soliti testi traboccanti cianuro e cromosomi in eccesso, e alla fine una dispensabile cover di Where is my mind? dei Pixies.