Evan Dando (e Chris Brokaw) @ Covo, Bologna (14/11/2009)

 

(foto di Giacomo)

Lui è storia vera; una leggenda, tra le poche leggende rimaste in vita che ogni tanto abbiano ancora voglia di portare in giro il proprio sovrumano canzoniere per graziarci di una bellezza di cui forse non siamo degni. Ma da troppi anni pareva si fosse messo d’impegno per distruggere fin dalle fondamenta quanto di buono è stato (ed è ancora) capace di creare: anni di concerti disastrosi, rovinati e resi ridicoli da un misto di genuina paranoia e assurdi capricci da rockstar glamour mezza tossica anni novanta quale l’uomo è effettivamente stato per molto meno dei proverbiali quindici minuti (a esser buoni non si arriverebbe a sette, e quasi tutti bruciati all’ombra di una cover troppo ingombrante che è stata e sarà per sempre la sua personale My Sharona, la sua Everything about you), quelle stesse tragicomiche bizze che nonostante tutto continuavano a farci dubitare se Evan Dando anni duemila ci facesse o ci fosse. Stasera abbiamo avuto la conferma definitiva: Evan Dando c’è, ma da qualche altra parte. Il suo cervello, unitamente al suo sistema nervoso, non sono (più) qui ma altrove, dove non ci è dato sapere e probabilmente ovunque si trovino stanno pure meglio, ma intanto in questo mondo ci deve pur vivere ed è un inferno. Spunta sul palco da chissà dove e fissa con sguardo allucinato la scaletta appesa alla parete, perfettamente immobile, per trenta secondi buoni. Poi prende in mano la chitarra, un bestione dal corpo enorme tappezzato di adesivi luridi e consunti che ha l’aria di essere molto più anziano e malmesso del suo padrone; non riesce ad allacciare la cinghia e per interminabili istanti, mentre continua ad armeggiare senza successo sullo strumento, la sensazione che si alzi e se ne vada via senza suonare una nota si trasforma progressivamente in certezza. In qualche modo ci riesce; passa dunque a sistemare il microfono che ha davanti. Ha i capelli lunghi e unti che gli cascano su un volto che in altri tempi faceva piangere le ragazzine, oggi scavato e irregolare come quello del suo eroe Townes Van Zandt; indossa una giacca troppo grande stile broker anni ottanta, ci sono perfino le spalline di gommapiuma gigantesche, smisurate, e l’impressione globale è quella di un barbone completamente svalvolato che chiede l’elemosina a Wall Street. Parte con All my life, da quell’indicibile, lacerante auto da fé che è Baby I’m Bored, e ora come allora la sua voce è la diretta emanazione di chi ha pagato caro il semplice fatto di essere venuto al mondo, e porta marchiata sulla pelle ogni singola parola che intona: Tutta la mia vita ho creduto di volere cose che in realtà non volevo affatto, tutta la mia vita ho creduto di desiderare cose di cui non avevo nessun bisogno. Non c’è finzione, non c’è distacco; la voce è quella di un uomo che ha visto cose terribili e ne è venuto fuori pazzo abbastanza da volerle raccontare. Finisce il pezzo e Evan non aspetta gli applausi, attacca subito quello dopo; che è My drug buddy o comunque qualcosa da It’s a Shame About Ray, ora proprio non riesco a ricordare, il set è generoso e non manca niente, ma proprio niente, da Lick a Varshons c’è tutto quel che deve esserci. Per i primi quindici/venti minuti sembra di assistere a un freak show, o a uno snuff movie: vedere Evan ciondolare costretto in quella mostruosa giacca sproporzionata, asimmetrico e cascante come se stesse in piedi per miracolo, come un burattino con qualche filo tranciato, che a metà di ogni pezzo china la testa in una posa grottesca, da marionetta presa a bastonate, perché non riesce a vedere cosa viene dopo nella scaletta che ha davanti ai piedi, ci mette nella spiazzante posizione di testimoni inconsapevoli e impreparati, quella stessa sensazione di profonda e inestirpabile inadeguatezza che provammo vedendo Daniel Johnston esibirsi dal vivo, doveva essere il 2005, un povero bastardo indifeso sparato nel mondo senza alcuna protezione. Poi ad un tratto, improvvisamente e senza un’evidente ragione, Evan la prende bene. La schiena si raddrizza, gli occhi – fino ad allora rimasti quasi costantemente chiusi – si spalancano in allucinanti e prolungati sguardi nel vuoto, stravolge i pezzi fischiettando gli assoli, punteggiandoli con strampalati gorgheggi da alcolizzato pazzo, cambiando le strofe aggiundendo parole a caso (spesso nomi di medicine tipo “Demerol”, o comunque di sostanze psicoattive in genere), addirittura azzardando sorrisi diresti sinceri e sbottando repentinamente con un “it’s a honour to be here in Balònia” assolutamente non richiesto (forse si dimentica della disgraziatissima data tenuta come Lemonheads in un Estragon deserto a novembre 2006, in assoluto tra i concerti più ributtanti e indisponenti che abbia mai visto in tutta la mia vita). Per il gran finale chiama sul palco l’amico e sodale Chris Brokaw, ormai cittadino bolognese onorario (e artefice subito prima di Dando dell’ennesima maiuscola performance, distante dalle dronate pre-concerto dei Fuck Buttons e nuovamente radicata nella tradizione cantautorale americana di cui è esponente tra i più efficaci, umili e convinti), per tre brani in jam confidenziale, un duetto struggente che culmina con una sanguinante Ride with me che è anche chiusura senza possibilità di appello di un set indimenticabile, da conservare nella memoria e ritirare fuori ogni volta che la vita diventa importante. L’ultima nota si spegne che Evan è già corso a rifugiarsi nei camerini fendendo la folla come Cristo nel Tempio. Un gigante.

 

(foto di Elena Morelli)

Pezzi che ricordo (assolutamente NON in ordine tranne il primo e l’ultimo, e comunque ne manca sicuramente qualcuno):

All my life
My drug buddy
It’s a shame about Ray
Alison’s starting to happen
Hard drive
My idea
It looks like you
Why do you do this to yourself
Rancho Santa Fe
Favorite T
Being around
Half the time
Stove
Hospital
If I could talk I’d tell you
The outdoor type
Tenderfoot
No backbone
Waitin’ around to die (Townes Van Zandt cover)
Beautiful (Christina Aguilera cover)
Mexico (Fuckemos cover)
Ride with me

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