Tanto se ribeccamo: LITFIBA

Ai tempi di Pirata, e per gran parte dei primi anni novanta, Piero Pelù era Satana. Qualcosa come il frontman più animalesco, sulfureo, magnetico e inquietante a cui l’Italia avesse mai dato i natali. Un angelo caduto rivomitato dall’Inferno, ma per davvero. I suoi arditi contorcimenti gutturali evocavano baccanali orgiastici e visioni demoniache, le sue movenze serpentine veicolavano un sentire perversamente erotico che portava dentro di sè la certezza della dannazione eterna. Lunga e folta chioma corvina, occhi sbarrati da sciamano pazzo, bocca gigantesca à-la Steven Tyler perennemente spalancata e mugghiante, incorniciata dal paio di basette più improponibile che la storia della musica ricordi, torso pelosissimo e quasi sempre nudo esibito con strafottente fierezza, questo il suo identikit dell’epoca; era grazie a lui se i Litfiba allora erano quanto di più temibile il mainstream italiano avesse mai accolto, quanto di più vicino all’incarnazione dell’Inferno in terra, di incubi lovecraftiani irriferibili. LA trasgressione come corredo cromosomico ineludibile, l’unico modo di vivere conosciuto, l’unico modo di vivere possibile, comunque sempre altrove, sempre alieno, e non lo prendi. E non importa che l’altra metà compositiva della band assomigliasse più che altro a un placido e untuoso salumiere, di quelli col baffetto sbarazzino, il grembiule lordo e la fetta di salame da offrire alle massaie sempre pronta, e che il resto del gruppo fosse costituito da grigi e intercambiabili gregari: i Litfiba restavano lontani mille miglia dal fetido becerume dei loro stessi fans che a legioni adoranti riempivano gli stadi, la loro era negazione vera, il superomismo nietzschiano spinto alle estreme conseguenze.
A testimoniare il fatto che i Litfiba fossero un affare visivo forse prima ancora che musicale resta la lunga serie di videoclip realizzati a traino di singoli e album, una produzione talmente abbondante da necessitare di due VHS per essere raccolta nella sua interezza; costosissimi e ben oltre gli standard qualitativi dell’epoca, spesso e volentieri girati negli States, hanno formato l’immaginario collettivo di quegli anni alla pari di icone di comprovata pericolosità come Freddy Krueger, le locandine degli Iron Maiden disegnate da Derek Riggs o i deliri burroughsiani di Pushead. Punto di arrivo di entrambi i discorsi portati avanti, visivo e musicale, è la reinterpretazione di Bambino inclusa in Sogno Ribelle, raccolta dei classici pre-El Diablo rifatti con lo stile nuovo, dove quel placido sottofondo per spinellare che chiudeva Litfiba 3 diventa di prepotenza e incontestabilmente il pezzo italiano più terrificante di sempre; la vocalità di Pelù è ai massimi storici di istrionismo e carica evocativa, e il video è il perfetto incrocio tra “La storia infinita”, Derek Jarman, Kenneth Anger e l’incubo più agghiacciante che la mente umana possa tollerare. L’apice indiscusso della visione dei Litfiba. Da lì in poi, il baratro.
Arriveranno dunque le “prese di coscienza”, la “critica sociale” (pezzi come Dimmi il nome, Maudit, Lo spettacolo, animati da biliosa verve predicatoria che nemmeno l’ultimo Ligabue), l’odioso generalismo new age di Spirito, fino a quando Litfiba cesserà semplicemente di avere un senso anche solo come concetto, ovvero da Mondi Sommersi in poi, con Pelù ammansito dai soldoni e Renzulli in pilota automatico puro che impassibile srotola agghiaccianti figure da karaoke del villaggio vacanze. Unica alzata di testa il refrain di Il mio corpo che cambia, che per un attimo riporta la mente ai magici, sfrenati eccessi dionisiaci dell’era aurea: “È il mio corpo che cambia, nella forma e nel colore, in un bagno di sudore… è una strana sensazione“. Ma è un fulmine isolato: l’album in cui è compreso, Infinito, è probabilmente il loro peggiore di sempre.
Poi lo split, da cui entrambe le parti in causa usciranno con le ossa fracassate, finiranno malissimo e nessuno ci guadagnerà: Pelù traghettato dal bel singolo Io ci sarò verso una carriera di devastante buonismo yes-global (Il mio nome è mai più la temibilissima avvisaglia un anno prima), tamarrate etniche, esotismi da cartolina (L’amore immaginato) e strette di mano ai bimbi negri affamati (tutto il volemose bbene mediatico post-Tribù); Renzulli a tirare pateticamente la carriola al fienile con dischetti che sono poco meno che imbarazzanti sottobicchieri, con un clone subnormale di Pelù ai controlli. Gli ultimi anni sono i peggiori, i più spietati: indifferenza pura, concerti disertati in bettole da offesa alla dignità umana, da una parte Pelù che inesorabilmente sprofonda, collabora con gli zingari e lentamente inizia a perdere i capelli, dall’altra Renzulli da solo al comando che, in un lampo di follia hughesiana, mette in cantiere una nuova incarnazione dei Litfiba con un povero stronzo toscano alla voce e, con la sconsiderata incoscienza di chi ha perso tutto (anche il senso della realtà) ma non vuole rassegnarsi che è finita, getta in pasto al popolo della rete un video e un EP digitale assolutamente sconcertanti, che il più infimo e grottesco dei gruppi al primo demo si vergognerebbe. È un’ammissione di disfatta totale, di resa incondizionata talmente pura e schietta da muovere a compassione. A quel punto, due sole le possibilità: perseverare donchisciottescamente nel fallimento, o passare alla cassa con l’obbligatoria reunion accontentaidioti. Scontata la scelta della seconda. L’11 dicembre 2009 viene annunciata la reunion dei Litfiba, col ritorno di Piero Pelù alla voce e l’avvio di un tour italiano nel 2010. Grandissima la gioia dei fans, per anni in attesa della reunion del gruppo.”La voglia di salire su palco insieme e fare di concerti è inarrestabile!” (citiamo letteralmente dalla wikipedia). Effetto karaoke garantito, simulazione di orgasmo.

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