Chi abbia visto in questi giorni C’era una volta… la città dei matti, romanzato biopic su Franco Basaglia trasmesso su Raiuno domenica 7 e lunedì 8 febbraio (e graziato di un titolo che rivaleggia in appeal con prodìgi della nostra lingua tipo Ai cessi in tassì o Fatti, strafatti e strafighe), potrà aver intercettato, nel mare magnum dell’azzeccatissimo cast di facce da galera e/o TSO immediato, un viso familiare. È il nazo acrimonioso ma perspicace Nanut, interpretato da Vitaliano Trevisan. Costui è un personaggio che gli intellettuali conoscono bene: dalla fine degli anni novanta scrive libri amarissimi, tetrissimi e intrisi di cinismo ben oltre la soglia del tollerabile, pesantemente debitori di conclamati professionisti dell’allegria come Cioran, Canetti e soprattutto Bernhard (lui dice che no, ma tanto per non alimentare questo tipo di paragoni poi chiama i protagonisti di tutti i suoi romanzi Thomas); più o meno dalla metà del decennio successivo, all’attività narrativa affianca quella teatrale, curando alternativamente o contemporaneamente testo, regia e drammaturgia di opere portate in scena, tra gli altri, da Toni Servillo, Anna Bonaiuto e egli stesso; ha all’attivo anche un monologo scritto appositamente per Roberto Herlitzka, uno con una faccia capace di spaventare il Diavolo in persona. Questione di affinità: anche Trevisan infatti, in questo frangente, non scherza manco per il cazzo. Con quel cranio adunco da folletto malevolo, con quello sguardo gretto e malvagio da usuraio dickensiano e quel ghigno perenne da depravato lobotomizzato, se il povero Steven Jesse Bernstein l’avesse incontrato per strada o a scuola probabilmente non avrebbe mai scritto Face (e neppure avrebbe coltivato psicosi maniaco-depressive sfociate infine nel suicidio). L’impatto è notevole. A prima botta pare un folle mash-up tra Emidio Clementi, Hobgoblin e Ulrich Mühe versione Le vite degli altri però crudele; roba che sembra uscita dagli agghiaccianti incubi urbani di Ulrich Seidl quanto dalla penna di un Moebius in acido, che avrebbe mandato in estasi Fellini e ispirato Giacometti, comunque vada, una faccia che se la vedi non la dimentichi. Una faccia da cinema come ce ne sono poche. Se ne accorge lo scaltrissimo Matteo Garrone, già allora in aria di santificazione (che diverrà definitiva dopo l’exploit di Gomorra), specializzato in dark movies fastidiosi e artatamente perturbanti, evidentemente preoccupato di spingere ancora più giù il pedale del proibito e dell’urticante dopo il nebbioso e frocesco L’imbalsamatore (dove imperversava l’inquietante caratterista Ernesto Mahieux, un nano storpio con tre dita nella mano sinistra): scrittura Trevisan, all’esordio davanti alla macchina da presa, come protagonista dell’abominevole Primo amore, lontanamente ispirato alla figura di Marco Mariolini “il killer delle anoressiche”. È un’epifania: tanto il film è rivoltante, presuntuoso, normativo e programmaticamente sgradevole fino all’autoparodia, quanto Trevisan è spaventosamente inappuntabile nell’incarnare fino alla più invereconda delle atrocità psicologiche una lucidissima follia senza causa né scopo. Sarà per quella faccia che si ritrova, sarà per il fascino magnetico da non-attore à-la Bruno S. paradossalmente conferitogli dall’inesperienza, sarà infine perché il film è ambientato praticamente a casa sua, ma raramente come in questo caso la fusione tra persona e personaggio diventa inscindibile, totale. Ho sentito storie fantascientifiche sulla lavorazione, del tipo che, iniziata da poco la pre-produzione, Trevisan chiama Garrone nel cuore della notte per discutere di persona a proposito di variazioni importantissime sulla sceneggiatura, Garrone la mattina dopo prende su e – da Roma – raggiunge in macchina, in un’unica tirata, in piena estate, quel paesino sperduto nell’hinterland vicentino più bieco dove Trevisan vive, il tutto solo per sentirsi dire qualcosa come “Secondo me in questa scena devo indossare una camicia bianca“. Che l’uomo sia pazzo, a questo punto, diventa ben più di un’eventualità. Stupisce piuttosto che riesca a disciplinarsi (o a trovare registi che lo sopportino, non so dire) al punto da ripetere per altre due occasioni l’esperienza cinematografica, comunque sempre in luoghi e dimensioni a lui ben famigliari – crf. Riparo (2007), dramma saffico e multietnico (c’è anche Maria De Medeiros, la fidanzata di “Butch” in Pulp fiction) nuovamente ambientato nel nordest più estremo; il recente Dall’altra parte del mare (2009) non l’ho visto, ma ho letto che è in parte ambientato a Trieste.
Che in C’era una volta… la città dei matti Trevisan impersoni un matto del nordest è in un certo senso la chiusura di un ciclo; meno ovvio rilevare l’assoluta efficacia di un’interpretazione straordinaria per ispirazione e rigore, dimostrando di aver compreso i meccanismi che governano la produzione cinematografica con una velocità impensabile per un profano, imprevedibile perfino alla luce di una rivelatoria dichiarazione rilasciata al Mucchio Selvaggio nel 2007, in cui affermava che Ciò che più mi piace [del mestiere di attore] sono il vuoto dell’attesa, il non essere e l’abbandono. Mantenendo il controllo. Aveva già capito tutto.
Che articolo meraviglioso. Assolutamente meraviglioso. Pensa che l’ho letto a Vitaliano in macchina, mentre lui guidava, e stavamo per schiantarci dalle risate. Ti giro i complimenti anche da parte sua.
VITALIANO TREVISAN: IL CALVARIO DI UN DISSIDENTE
(Gianni Sartori)
All’età di 61 anni è morto lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan. Attore, drammaturgo e uomo dai mille mestieri.
Perennemente afflitto dal pericoloso sogno dell’autenticità.
Di Vitaliano Trevisan, pur conoscendolo di fama (inevitabile a Vicenza), in passato non mi ero voluto interessare più di tanto. A parlarmene erano state persone – buone, brave, colte, di sinistra e beneducate – ma, dal mio punto di vista, comunque “borghesi”.
Anche se negli ultimo tempi si era trasferito in una contrada di Alta Collina (eccessivo definirla “Montagna”, a mio parere), scherzando ma non troppo, lo definivo un “Mauro Corona di pianura”. Quella pianura del Nord-est, inflazionata di capannoni, impestata lavoro nero e inquinamento che lui aveva raccontato, descritto e smascherato nei suoi imperdibili libri.
Ossia un “personaggio” folcloristico, pittoresco e deviante quanto basta. Falsamente “autentico” e “genuino” come in genere piace appunto a certa borghesia progressista.
Solo pochi mesi fa, intervistando un vecchio compagno, impegnato da una vita non solamente nel “sociale”, ma nella lotta di classe (Luciano Orio), mi era stato citato in relazione agli incidenti (omicidi) sul lavoro. Nel suo “Works” (Einaudi editore) Trevisan denunciava apertamente quello che magari conoscono in molti, ma su cui in genere si preferisce stendere un velo pietoso. Ossia sul fatto che dai macchinari di lavorazione (laminatoi, presse, macchine utensili…) – per aumentarne la produzione ovviamente – spesso viene disinnescato il sistema di sicurezza. Con le ovvie conseguenze: arti amputati quando va bene, corpi maciullati nell’altro caso. In quantità – e qui ci sta – industriale.
Lessi il libro e verificai quanto mi aveva segnalato Luciano.
Ma scoprii anche altro.
Intanto il fatto che – come il sottoscritto anche se in anni diversi – Vitaliano Trevisan aveva lavorato come facchino alla Domenichelli di viale Torino nei turni di notte.
Anzi, avevo anche colto una variante. Da parte sua non considerava quel lavoro, (notturno e in nero, tanto per la cronaca) particolarmente gravoso e parlava di turni di otto ore.
Personalmente, confrontandolo con altre mie esperienze simili (nelle celle frigorifere della Ederle, alla Veneta- Piombo, i traslochi…), lo ricordavo comunque abbastanza pesante. Anche perché all’epoca di giorno cercavo di frequentare l’università, al punto che ricordo di essermi appisolato più di qualche volta in piedi, appoggiato al carrello nella ripetitiva spola tra i camion e il deposito.
E poi, mi sembra proprio di ricordare, nella prima metà degli anni settanta i turni erano di dieci ore, non di otto. Con una “pausa- pranzo” (un panino portato da casa) di venti minuti, mezz’ora.
E’ possibile naturalmente che in seguito (seconda metà degli anni settanta, quando toccò a Trevisan scaricare e stivare) le cose fossero cambiate. Come avvenne – questo lo avevo verificato di persona – nel settore traslochi (grazie anche all’impiego di elevatori che permettevano, per esempio, di non dover portare sulle spalle, da soli, pesanti frigoriferi per diversi piani di scale).
E poi in “Works” raccontava a sua esperienza in un territorio che conosco bene, il Basso Vicentino.
Quel pezzetto di Riviera Berica sdraiato ai piedi dei Colli Berici che operatori turistici e amministrazioni comunali si ostinano a descrivere come bucolico, con paesaggi (ormai è un classico, non si nega a nessuno) “mozzafiato”. Nonostante la pianura sia quasi completamente cementificata (oltre che inquinata, vedi la A31) e sui Colli proliferi di giorno in giorno la metastasi delle ville e villette di borghesi grandi, medi e piccoli che “amano la Natura” (senza peraltro esserne corrisposti). Costruzioni talvolta semiabusive (tipo sedicenti ”depositi attrezzi” provvisti di colonnato esterno – “pompeiane” – e piscina), case di 2-3 cento metri quadri dove prima c’era soltanto “el staloto del mas-cio”. A spese del paesaggio e degli ecosistemi.
Ma comunque qualcosa c’era – e c’è – a mozzare letteralmente il fiato: gli innumerevoli capannoni dove languiscono segregati a migliaia i polli da allevamento. E la puzza – come scriveva chiaramente Vitaliano – si sente, eccome. Anche da lontano.
Pur senza volersi soffermare sulla sacrosanta compassione per quelle povere creature imprigionate (rileggersi in proposito quanto scriveva Eugenio Turri sugli analoghi allevamenti nei Lessini), pensiamo soltanto a cosa sta accadendo proprio ora in Veneto con l’epidemia di aviaria e lo sterminio di milioni di volatili.
Ma quello che più mi rode è il modo in cui sembra se ne sia andato. Dopo un ricovero psichiatrico formalmente “volontario”, ma in realtà sotto il ricatto di un TSO.
Ora, mi chiedo, è mai possibile che una persona con il suo livello culturale, con un così alto grado di consapevolezza (esistenziale, sociale, politica…) derivata dall’esperienza vissuta, non certo dagli studi accademici (anche se la sua preparazione letteraria era ottimale) sia stato trattato in tal modo?
Non so se – come aveva azzardato qualche vicentino – Trevisan fosse veramente da considerarsi il maggiore tra gli scrittori attuali della Penisola. Ma sicuramente è lecito interrogarsi in proposito. E uno così, su cui ora tutti spandono lacrime e tessono lodi, è stato rinchiuso come un pericoloso demente?
Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte disperata, in molti lo hanno ricordato con commozione.
Alimentando tuttavia l’idea che comunque il Trevisan era (a scelta): depresso, fuori di testa, predisposto al suicidio….
Invece di esprimere rispetto non solo per lo scrittore, ma anche per un uomo che ha saputo esplorare il lato oscuro (o forse meglio: non del tutto colonizzato) dell’animo umano. Con estrema lucidità, andando ben oltre la propria sofferenza personale e le proprie (indiscutibili) contraddizioni. Arrivando a un alto grado di consapevolezza dei rapporti umani e – più ancora direi – dei rapporti sociali in una società capitalista (lui che tra l’altro, se non forse negli ultimi tempi, non si considerava di sinistra, “non di questa sinistra almeno”).
Un esempio, un modello per come si possa affrontare la tragicità della vita senza soccombere, rielaborandola.
A meno che – ovviamente – non intervenga qualche fattore esterno (in stile santa inquisizione) a disciplinare, omologare, addomesticare, “guarire”…
Chissà come è andata veramente. Ma rimane il dubbio che senza l’umiliazione di quel ricovero formalmente volontario, ma in realtà coatto, forse – dico forse – ne sarebbe uscito ancora per conto suo, magari con un altro libro o andando in giro per i boschi…
In questo momento mi vengono in mente altre persone (Majakóvskij Pavese, Debord, Paolo Finzi…) che hanno compiuto scelte estreme, analoghe a quella del Trevisan. Travolte forse dal disgusto per la mediocrità, la miseria spirituale di un mondo che incatena i dissidenti e imbavaglia i poeti (talvolta non solo metaforicamente) imbalsamandoli poi da morti.
Così come mi vengono in mente “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, Walter Benjamin (letteralmente braccato) e la tragedia (l’assassinio si può dire?) di Mastrogiovanni.
In fondo anche Vitaliano Trevisan era un soggetto scomodo, indigesto, non compatibile. Magari letto, apprezzato, recensito e premiato…ma comunque alla fine segregato e umiliato.
Niente di strano se uno come lui (un intellettuale, ma anche “uomo d’azione”) avesse deciso di mandare il mondo, questo mondo, a fare in culo.
Gianni Sartori