Autechre @ laboratorio Crash (Bologna, 27/3/2010)

ecco un gruppo che dal vivo non suda mai.

Di Rob Hall, annunciato in cartellone come guest principale, non v’è traccia; in compenso tocca sorbirsi quasi due ore di dj set di tale Didjt che con sadica perseveranza infligge un’interminabile serie di numeri UK garage, hip hop inglese (che già di per sé è come dire “yodel africano”), quella roba oscura e presa male con qualche negro strafatto che ci latra sopra cose incomprensibili che quelli che ne sanno chiamano grime, ritmi bradicardici che ti fanno salire la fattanza mentre smezzi una canna di marocchino coi ragazzi, beats asfittici e perfino un lunghissimo quarto d’ora di dancehall per giamaicani rincoglioniti dal troppo fumo che poi tornati a casa picchiano la moglie. Veramente allucinante. Il pubblico però (almeno nelle prime file) pare gradire.
Il set di Russell Haswell invece dura un quarto d’ora. Come dire: la legge dei grandi numeri, però al contrario. Presente i primi dieci secondi di Turning point, il pezzo che apre Sheer Hellish Miasma di Kevin Drumm? Prendeteli, metteteli in loop, centuplicate il volume e avrete una vaga idea di quel che ha commesso. Haswell è sempre stato un fan accanito dei Whitehouse, e si sente: le sventagliate di sfrigolii digitali prodotte questa notte farebbero invidia a William Bennett per cattiveria, ignoranza e capacità di ottundimento (ma senza le stronzate da pedofilo di contorno). Peccato solo per i volumi decisamente sopportabili.
Probabilmente è la prima volta che gli Autechre a Bologna possono usufruire di un impianto audio adeguato alle loro esigenze; ricordo tutte le loro precedenti date a cui io abbia presenziato come lunghissimi calvari di roba pazzesca irreparabilmente rovinata e numeri assurdi tristemente vanificati da sistemi di amplificazione non all’altezza e/o locali dall’acustica peggiore di un’autostrada all’ora di punta, coi fonici che disperatamente tentavano di salvare il salvabile con le stesse probabilità di successo di un chirurgo alle prese con un triplo bypass da operare con posate da pic-nic. Sentire la loro musica così come è stata progettata è già di per sè un piccolo miracolo; il problema è che è sabato sera, siamo in un centro sociale e farsi vedere a un live degli Autechre evidentemente è trés-trés chic, c’è chiunque ti aspetti che ci sia e chi non è occupato a fare pubbliche relazioni e/o a ciarlare di stronzate probabilmente vuole soltanto che la scimmia gli salga in fretta. Non esattamente l’audience ideale per il live di un gruppo per il quale è stata inventata la stronzissima definizione Intelligent Dance Music. Manca inoltre un ingrediente fondamentale per le loro esibizioni: il buio. Oltre ai lampioni del circondario la cui luce arancione filtra dagli enormi finestroni alle pareti, la stanza è in parte illuminata da un faretto blu lasciato scriteriatamente acceso per tutta la durata del concerto. La micidiale combinazione pubblico di merda+chiacchiericcio+luminosità (la molestia del quadro generale incrementata da decine di teste di cazzo armate di digitale o telefonino che ciclicamente cercano di fotografare il palco, nonostante la notoria ritrosia del duo agli scatti e nonostante la presenza di un gigantesco e inequivocabile cartello NO CAMERA – NO FLASH all’entrata) rischia di compromettere irrimediabilmente l’esito della serata. E invece no. Gli Autechre sono in botta. Freschi reduci da un live webcast di 12 ore per promuovere l’uscita del recentissimo Oversteps, nonostante la luce e il rumore di fondo e le battaglie da lasergame inscenate tra i coglioni col flash e due tizi della security armati di torcia e puntatore a infrarossi loro se ne fregano, e legnano, e tirano fuori un catalogo di suoni come sempre indescrivibili per fantasia e toni del tutto sconosciuti a orecchio umano; frequenze aliene, passaggi liquidi da incubi drexciyani, beats ultraterreni e bassi da rivoltare le budella e far schizzare i timpani su Plutone, un insieme che non può essere definito altrimenti che mentale e che per questa volta privilegia il lato aggressivo e pestone dei marziani di Rochdale. È il suono dei videogame che si giocheranno nel 3025 su Saturno, dei rave parties tenuti negli slums di District 9, ed è entusiasmante e in un certo modo perfino liberatorio assistere a un live degli Autechre che non sia un’altra seduta psicanalitica brutale e triturante, comunque sempre imprendibile e sempre con suoni – letteralmente – mai uditi prima d’ora. Terminato il set in uno scroscio di applausi increduli, sentire il dj che viene dopo, chiunque sia, significa sporcarsi le orecchie.

2 thoughts on “Autechre @ laboratorio Crash (Bologna, 27/3/2010)”

  1. …..non vorrei deluderti ma Rob Hall(aldilà del fatto che mi devi spiegare cosa vuol dire guest principale in una data del tour degli Autechre….!?!) ha suonato subito dopo di loro…..
    Poi spero che un paio di quei giamaicani che fumando troppo hanno voglia di picchiare la moglie(ma dove l’hai presa questa..!?!) incontrino prima te per la strada, almeno si sfogano, e magari alla moglie gli danno due colpi, ma di quelli buoni….!!!
    Gente che scrive recensioni come le tue non è ne più ne meno al livello di quelli che critichi tu perchè chiacchiericciano durante il live, o che criticano certa musica elettronica solo perchè non fa tunz-tunz…..
    Un pò più di cultura e apertura da parte di questi ultimi e un bagno di umiltà da parte di quelli come te non guasterebbe…..
    Ripigliati….!!!!!

  2. Mi cospargo il capo di merda e vergogna per non aver notato Rob Hall (“guest principale” nel senso che nel manifesto stampato per pubblicizzare la serata era il primo in ordine di importanza dopo gli Autechre); ho fatto affidamento sulla scaletta appesa dietro il banco dell’esosissimo merchandising la quale segnava, nell’ordine, Didjt, Russell Haswell, gli Autechre e a seguire tale Draft che non ho la minima idea di chi sia. A questo somma il fatto che, dopo gli Autechre, personalmente non avevo voglia di ritornare alla realtà sentendo qualche dj scadente (e dopo il set degli Autechre chiunque sarebbe stato un dj scadente, ci fosse pure stato Gesù Cristo con le cuffie al collo) e quindi me ne sono andato affanculo altrove. Per quel che riguarda i giamaicani ero ironico e pensavo che quella colorita similitudine descrivesse bene l’umore generale della musica che il dj ha messo su durante quei (per me lunghissimi) minuti; ma non ho alcun problema con la categoria e se ci vediamo alle prossime dancehall te lo dimostro…!

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