
Oggi esce Land of the Free-ks, il nuovo album dei Jingo de Lunch, il primo dal 1994. Non ne ho ancora ascoltata una nota. Probabilmente sarà già finito nei peer-to-peer o in giro per i migliori Rapidshare del pianeta, ma non me ne frega un cazzo: aspetto di trovarlo nei negozi di dischi, come è giusto che sia, che sono quei posti che (a dire il vero sempre più di rado) ti capita di trovare da qualche parte per le strade. I Jingo de Lunch sono stati la più grande rock band uscita dalla Germania, e potrei dirlo a casa di Nina Hagen appoggiando gli anfibi sul suo tavolo da tè come davanti a qualsiasi cialtrone krautrock – e intendo chiunque, dal primo all’ultimo – rumorista pseudonazi o metallaro birraiolo che dir si voglia, la sostanza non cambia. Che diamine! Lo direi anche se mi trovassi di fronte i Rammstein al completo, armati di spranghe larghissime e vaselina e incazzati neri. Hanno inciso due dei più bei dischi hardcore di sempre (l’esordio Perpetuum Mobile e il mini Cursed Earth, un GRANDISSIMO album di crossover totale (Axe to Grind, curiosamente licenziato dalla berlinese Hellhound, etichetta specializzata in doom metal) e tre dischi di scintillante punk rock and roll (Underdog, B.Y.E. e il dimenticatissimo Deja Voodoo) che sostanzialmente erano poco più che variazioni sul tema di Axe to Grind ma avevano comunque dalla loro grandi pezzi, uno stile letteralmente inimitabile e un gran cuore. Soprattutto, i Jingo de Lunch hanno saputo imprimersi nella memoria di una generazione di squatters mettendo a ferro e fuoco i centri sociali di tutta Europa con concerti-fiume dalla fisicità e vitalità semplicemente disarmanti (dove oltre ai loro pezzi suonavano cover di Bad Brains, Thin Lizzy, Misfits ecc.); passarono anche da Bologna, nel 1989, per una indimenticabile “doppia” all’Isola nel Kantiere, la prima sera gremita con gente rimasta fuori, la seconda a sorpresa per pochi fortunati (o lungimiranti) spettatori. Senza di loro, probabilmente il crossover come lo abbiamo conosciuto negli anni novanta e oltre non sarebbe mai esistito, così come un’intera ondata di front-women che va da Skin a Karyn Crisis, da Linda Perry a Bif Naked. Il loro suono, imitatissimo, basato sulla metronomica sezione ritmica di Steve Hahn e del lungocrinito Henning Menke, il doppio fuoco incrociato della coppia d’asce formata da Joseph ‘Sepp’ Ehrensberger e Tom Schwoll, e gli incredibili contorcimenti vocali della canadese Yvonne Ducksworth, tuttora è rimasto insuperato. Mollano il colpo nel 1996, Yvonne si trasferisce in Arizona a lavorare come tecnico informatico, gli altri restano; a parte Yvonne, ognuno mette su una propria band, ma combineranno poco. In quel periodo e negli anni seguenti potevi trovare i vinili dei loro ultimi tre dischi praticamente ovunque per pochi spiccioli, nessuna traccia dei primi due per la più che valida ragione che chi li aveva giustamente se li teneva stretti. Nessuna celebrazione, del resto, nessun nome nuovo a ricordarli, nessun Jack White del cas(zz)o a tramandarne la memoria alle nuove generazioni; il nome Jingo de Lunch semplicemente scompare dalle mappe del rock “che conta”, a ricordarli pare soltanto il solito nugolo di irriducibili che ancora continua a farsi sfondare le orecchie nei centri sociali nonostante gli anni passino e il numero di primavere lieviti.
Tornano insieme nel 2006, il pretesto i mondiali di calcio in Germania, viene imbastito in due e due quattro un paio di spettacoli in un pub sull’onda dell’amarcord sfrenato, del sano cazzeggio/remember tra amici più che altro; manco a dirlo, entrambi i concerti sold-out con pubblico stipato di reduci sudati fradici in visibilio che ne vogliono ancora, e non solo lì in quel momento: dappertutto. L’anno successivo verranno accontentati, i Jingo de Lunch celebrano il ventennale con un tour capillare Germania-Austria-Italia che li tiene occupati per un mese e mezzo; tornano anche a Bologna, quasi sul luogo del delitto (quasi, perchè l’Isola nel Kantiere non esiste più da sedici anni), all’Estragon per uno show gratuito che ha tutto il sapore della rimpatriata tra amici che il tempo non è riuscito a cambiare. A un certo punto sale sul palco anche Lucio degli Upset Noise a cantare assieme a Yvonne Growing Pains (cover appunto degli Upset Noise che apriva Underdog nonchè presenza fissa nelle setlist post-Axe to Grind). Un altro pugno di concerti sparsi tra Germania e Spagna nel 2008 poi Sepp e Tom Schwoll lasciano amichevolmente, quindi la scelta di andare avanti senza di loro; viene reclutato tale Gary Schmalzl a sostituire entrambe le chitarre e si ricomincia, per la prima volta in formazione non originale, a novembre di nuovo sulla strada. La sfida, tutta da dimostrare, è se dal vivo e in studio i Jingo de Lunch abbiano ancora un senso; presto lo sapremo.

“Lacrime, cazzo”. Axe To Grind disco della vita.
il nuovo album è un grande disco ! quasi ai livelli di Axe to grind
si vocifera di tour in italia e spagna nel 2011 , se cosi fosse vado di corsa a rivederli x la esima volta
leggo il post con qualche anno di ritardo.
land of the free-ks a me è piaciuto molto; più di BYE, che mi sembrava annegare in un mare di assoli, e di Deja Voodoo, che mi sembrava un po’ troppo di mestiere.
questo ultimo disco – libero da contratti, senza niente da dimostrare, senza niente da perdere – suona bello tosto e sincero.
visti al bloom durante il reunion tour, purtroppo non hanno brillato: yvonne dove non arrivava più con la voce compensava con cuore e attitudine fieramente hc, gli altri apparivano un po’ scoppiati, soprattutto uno dei due chitarristi (non il biondo coi dread, l’altro), davvero un rottame umano. a volte lo scoramento di yvonne era palpabile, e si capiva chiaramente come quella line up non sarebbe sopravvissuta alla reunion.
ciao,
luca
miglior album della band since perpetum mobile