
Lei stava aspettando un autobus in via Lame, noi eravamo chiusi in cantina e lui impataccava come al solito il quartiere con la sua pubblicità fatta di fogli di carta scritti a penna: SGOMBERO CANTINE SOLAI.
(Emidio Clementi, 2001)
Io quelle pubblicità me le ricordo bene. Erano dappertutto, cartellini bianchi della grandezza di poco più di un Post-It incollati malamente alle colonne sotto i portici, ai pali dei lampioni e dei divieti di sosta, alle pensiline e alle fermate degli autobus, spesso anche ai muri: ovunque. Me ne accorgevo soprattutto la mattina quando uscivo per andare a scuola, se ce n’erano di nuovi; con gli occhi ancora gonfi di sonno, ovunque mi girassi trovavo di volta in volta ulteriori foglietti fotocopiati con su scritto a mano “SGOMBERO CANTINE-SOLAI-APPARTAMENTI”, le lettere grosse e storte rifinite passandoci sopra decine di volte con la biro o il pennarello, il tratto tremolante e incerto di un bambino particolarmente duro di comprendonio o di un anziano che ormai ha dimenticato anche come si fa a pisciare in un cesso. “ANCHE SABATO E DOMENICA”, proseguivano gli annunci, poi sotto qualche altra frase nella stessa calligrafia da semianalfabeta e un numero di telefono che non mi è mai rimasto impresso nella memoria (a differenza del resto). Per anni la città ne era invasa, poi di colpo nessuno tornò più ad attaccarli nottetempo e così come erano apparsi scomparvero senza lasciare traccia. Mi sono sempre chiesto chi ci fosse dietro a quegli annunci così sgangherati, primitivi e inquietanti come un quadro naïf; l’ho imparato per caso, una quindicina di anni più tardi, quando ho letto La notte del Pratello, romanzo che sta al facchinaggio come Post Office sta ai postini. Il grafomane attacchino compulsivo era tale Pietro Zaccardi, un vecchio avarissimo che al confronto lo Scrooge di Dickens era un espansivo filantropo, e i facchini alle sue dipendenze erano Leo Mantovani ed Emidio Clementi. Io stavo finendo le elementari, e se ripenso oggi a quegli anni le prime cose che mi tornano in mente sono il grigio e il freddo nell’aria del mattino e le pubblicità SGOMBERO CANTINE-SOLAI-APPARTAMENTI dappertutto.

La settimana scorsa mi ha telefonato mia madre
Mi ha detto
‘Senti Mimì, non è ora che torni a casa e ti trovi un lavoro serio,
dico io’
Lei non lo sa che nel portafogli
porto ancora un vecchio calendario
Sopra c’é segnata una data
26 dicembre 1986
Quel giorno ho fatto un patto
un giuramento con me stesso
Non sarei mai più tornato a casa
Tutto qui
(Emidio Clementi, 1993)
All’inizio non mi piacevano i Massimo Volume. Anzi mi stavano abbastanza sul cazzo, così come concetto proprio. Ero entrato in contatto con i loro dischi solo superficialmente, controvoglia, quasi fosse un atto dovuto da adempiere obbligatoriamente (del resto vivere a Bologna e non conoscere i Massimo Volume era qualcosa di inconcepibile, peggio che stare a Seattle e non sapere chi fosse quel biondino un po’ dissociato che vestiva come un taglialegna), e quanto avevo ricavato era un’immagine respingente e sfocata di grandi intelligentoni algidi, distaccati e troppo intellettuali per esistere. In quegli anni mi sfondavo le orecchie col grindcore e con qualsiasi disco Earache su cui riuscissi a mettere le mani, avevo da poco scoperto i Godflesh e dei turbamenti del letterato sensibile di stocazzo non sapevo proprio che farmene; inoltre, il modo di cantare era copiato dagli Starfuckers. C’era però qualcosa, nelle pieghe di quei dischi, che continuava a sfuggirmi, che mi impediva di staccarmene del tutto e lasciarli a prendere polvere da qualche parte nella stanza (anche perchè non è che ne avessi poi tanti, di dischi da ascoltare), come se non riuscissi ad afferrarne il totale ma solo alcune parti. C’erano le chitarre, taglienti come lamiere accartocciate dopo un incidente stradale oppure limacciose e opprimenti come una palude piena di melma, e una sezione ritmica implacabile anche nei momenti più letargici, una sinergia tra basso e batteria impressionante e totale, sicuramente mutuata dal noise newyorkese da cui ero già stato irrimediabilmente folgorato. Poi i testi (non tutti, e non subito) hanno cominciato a entrarmi dentro. Le città viste dall’alto/ mi ricordano i viaggi nello spazio/ È lì che vorrei essere; merda, mi ci identificavo. Oppure Pizza Express, quadretto di un’essenzialità e una banalità disarmanti, da togliere il fiato; eppure, merda, mi ci identificavo. E a un certo momento, lentamente, sono arrivato al punto in cui ero convinto che quei dischi e quei pezzi parlassero esclusivamente a me, solo a me. È il momento in cui capisci di avere trovato un gruppo che ti accompagnerà per il resto della vita (o comunque per una buona parte di essa).

Portami dove c’è gente
Portami dove non bisogna parlare
Portami dove non si paga niente
(Emidio Clementi, 2003)
C’è un pezzo devastante alla fine di Stanza 218, primo album (e unico con Clementi) del progetto El~Muniria. Si chiama Insieme ed è la cosa migliore a cui Emidio Clementi e Vittoria Burattini abbiano mai messo mano. Nella storiografia dei Massimo Volume la parentesi El~Muniria non ha mai goduto di eccessivi favori, tutt’altro; praticamente ignorato dalla stampa ai tempi dell’uscita, Stanza 218 è comunemente considerato poco meno che un disco di merda anche dai fan di stretta osservanza (opinione probabilmente troppo influenzata dal fatto di non averlo ascoltato). Mai capito il motivo. Qualunque sia, non è un mio problema.
Insieme è una delle canzoni d’amore più belle e universali che siano mai state scritte. È anche il punto di arrivo della scrittura di Clementi, che fino ad allora era stata un unico ininterrotto tentativo di raggiungere quelle vette di lirismo e sincerità brutale e inerme, limpida concisione e potenza inaudita, riuscendoci a volte (in particolare con un’altra canzone d’amore, Dopo che). È un pezzo dall’intensità sconvolgente, totale, capace di tratteggiare con poche e secche frasi un’epifania di amore assoluto che tutto assorbe e tutto annulla, che brucia di vita e di fame di vita che è anche dolore e fatica e pianto, in un crescendo inesorabile di tensione verso l’infinito, un rilascio emotivo spossante, come dopo un parto o dopo un lutto, che gli ultimi quattro minuti di field recordings e rumori ‘trovati’ riescono soltanto in parte a mitigare.
Non mi commuovo facilmente per una canzone o un disco, a meno che non abbia i nervi a pezzi (il che fortunatamente non succede spesso). Ricordo di aver pianto a dirotto la prima volta che ho ascoltato Warehouse degli Hüsker Dü, e questo è più o meno quanto. Ma se dovessi quantificare le moli di lacrime versate ogni volta che parte quel riverbero di chitarra, e Clementi in mood catacombale attacca con Portami dove c’è gente con la voce più triste del mondo, credo che riempirei immediatamente il Rio Mavone (fiume nel romagnolo che conterrà mezzo bicchiere di H2O a stare larghi) e ne avanzerebbero pure diversi ettolitri. Se penso a un pezzo che riassuma tutto quello che sono i Massimo Volume, penso a questo; che non sia uscito a nome Massimo Volume, per come la vedo io, è soltanto un caso.

Ci sono fili che si intrecciano e alla fine si confondono uno con l’altro, pensai. Sia io che Edoardo, ognuno a modo suo, avevamo spezzato quei fili, incapaci di districarli. Ma ora sentivo che quegli stessi fili tornavano a intrecciarsi, lentamente, e nessuno di noi due, per quanto diffidente potesse essere al riguardo, poteva farci nulla. Sapevamo solo questo: che i legami portano dolore e il dolore non si rimargina. Ma rispetto ad Arturo eravamo dei privilegiati. Le ferite che ci portavamo dentro erano il segno di qualcosa che avevamo vissuto. La sofferenza di Arturo era diversa, era quella di chi vive dentro una stanza, lontano dai più elementari rapporti sociali, lontano da tutto.
(Emidio Clementi, 2000)
Cattive Abitudini, il nuovo album dei Massimo Volume, è uscito a Bologna il 12 ottobre scorso; l’ho comprato la mattina stessa. Non ne ho ancora ascoltata una nota. Ho paura che non mi piaccia, o che mi deluda, o che non mi prenda bene, o salcazzo quale altra paranoia da schizzato inerme che mi coglie ogni volta che esce il nuovo disco di un gruppo che significa qualcosa nella mia vita. Sta lì, intonso, sul tavolo, che mi guarda e mi aspetta. Forse un giorno troverò il coraggio. Chissà.
(Tutte le immagini le ho prese da Stanze, il migliore sito sui Massimo Volume del mondo)
ma la seconda citazione non è da cinque strade di faust’o?
verissimo, cospargendomi il capo di merda l’ho sostituita in corsa.
vabè dai, dopotutto avevi messo quella di qualcuno con cui sono stati “soci”, ovvìa..(comunque con questo post ho capito una cosissima, mi sa ci conosciamo pure ma credo non sia il tempo/caso -e voialtri avete ragione a smadonnare, non è roba da blogcommenting questa!!)
cacchio la prossima volta nasco a bologna
hai scritto delle parole splendide, soprattutto a proposito delle canzoni. quanta verità su el muniria, quanta paura nell’ascoltare e riascoltare certe cose. grazie!
Bellissimo articolo! sei riuscito a farmi immedesimare in quel bambino.
Mi è piaciuta molto la parte in cui descrivi la canzone Insieme.
Mi sono davvero emozionato leggendoti, grazie