Perché il freddo, quello vero, sa essere qui, in fondo al mio cuore di sbarbo.

un'istantanea di Justin Broadrick il giorno in cui ha appreso di aver vinto al Bingo

 
Nei mesi più freddi dell’anno è Justin Broadrick overload. In forma come non succedeva da anni (che per uno iperprolifico come lui sono l’equivalente di ere geologiche per gli esseri umani normali), come se il connubio autunno-inverno, e il buio, e il ghiaccio, e la luce gialla dei lampioni la notte, e il clima sempre più rigido e le giornate sempre più corte avessero riacceso un’ispirazione che da sempre si nutre di climi aspri e zone inospitali della mente, e cresce e prolifera in tunnel abbandonati e stanze piene solo di silenzio.
Contemporaneamente al fenomenale Christmas di cui abbiamo già parlato è uscito, sempre in digitale e sempre acquistabile sul sito della Avalanche Inc. alle solite tre sterle, un nuovo EP di Final; My Body Is a Dying Machine (si parte bene già dal titolo) contiene alcune delle cose migliori incise dal proteiforme Broadrick sotto la denominazione più longeva della sua intera carriera (appena tredicenne titolò così i suoi primi demo) dopo quell’abissale viaggio al termine della notte che era (è) il doppio 3 del 2006; probabilmente conscio dell’irripetibilità dell’atto, Broadrick/Final si era poi perso dietro troppi album di improvvisazione per sola chitarra, a volte chitarra e basso, pubblicati in tirature ultralimitate e venduti esclusivamente ai concerti, cui sarebbe seguita una serie di dischi anche piacevoli (se tra le vostre idee di ‘piacevole’ è contemplata un’ambient asfissiante, ultraminimale, da tecnici del suono malvagi e semiautistici presi male) per quanto in eccessiva contemplazione del proprio ombelico (molto bello comunque Fade Away del 2008). In mezzora scarsa Broadrick torna alla guerra: Gravity irrompe immediatamente e di diritto ai piani alti della graduatoria dei pezzi più belli mai incisi dall’uomo, sei minuti di estatiche rifrazioni e angeliche stratificazioni di drones ipersaturi sospesi nel niente che ridefiniscono fin dentro le ossa concetti come ‘nostalgia’, ‘perdita’, e ‘rimpianto’, una morsa di dolore puro che spreme il cuore come un limone troppo maturo e che è l’unico punto d’incontro ipotizzabile tra la 4AD dei tempi belli e il noise più fiero, con un’intensità che basterebbe ad alimentare legioni di centrali nucleari per l’eternità. La title-track (riproposta anche in chiusura in versione ‘live’) procede implacabile come un boia narcolettico per accumulo di pulviscoli di suono (una chitarra e uno stuolo di pedali da rendere irriconoscibile qualsiasi sorgente) pungenti e carezzevoli come cristalli di neve sulla pelle fresca; Black Dollars è una distesa di pece dove la paranoia è annegata da secchiate di sedativi da mandare all’altro mondo uno stegosauro, A Slight Return introduce repentine sciabolate di luce in un’oscurità liquida e ipnotica da trip senza ritorno, un pezzo che come ho letto da qualche parte* è la colonna sonora ideale per una love story tra giovani eroinomani.
My Body Is a Dying Machine raccoglie materiale composto tra il 2005 e il 2010, ma è questo il periodo adatto per fargli spazio nelle vostre vene.

 

Contemporaneamente (beh, più o meno) la rapace HydraHead del tentacolare Aaron Turner (grafico sciccoso, pittore perverso e un tempo mente dei folli Isis) ristampa senza che ce ne fosse un reale bisogno Heart Ache, esordio a nome Jesu pubblicato nel 2004 dalla minuscola Dry Run e finito fuori stampa in CD in seguito alla dissoluzione dell’etichetta (qualche tempo dopo Broadrick stesso tirerà 1000 copie in vinile che ancora si trovano in giro a prezzi accessibili); il disco era una palla al piede allora e lo è tutt’oggi, due interminabili pezzi (la title-track e Ruined, entrambi sui 20 minuti) di industrial doom metal fiacco, bolso, ripetitivo (nell’accezione deleteria del termine), estenuante e francamente noiosissimo, gli stessi quattro accordi presi di peso dagli ultimi Godflesh (quelli di Hymns, i peggiori) reiterati all’infinito con qualche tastiera reboante di tanto in tanto. Interamente eseguito in solitudine nel proprio studio casalingo, Heart Ache, a parte la gioia nel sapere l’uomo nuovamente attivo dopo uno stop forzato di oltre due anni in seguito a un brutto esaurimento nervoso (e una bellissima foto di Broadrick cimiteriale in mezzo a un campo di mimose), non offriva nient’altro; riascoltarlo ora che Broadrick sta bene, produce a ritmi indiavolati ed è tornato ai livelli di un tempo fa lo stesso effetto di una foto sfocata che ritrae un estraneo assolutamente anonimo. Per allungare il brodo hanno aggiunto un secondo CD contenente quattro demo tracks destinate a un ipotetico EP del 2003 che non verrà mai pubblicato, e a buona ragione; ventisette minuti che lasciano il tempo esattamente come l’hanno trovato, scialbissima robetta da cazzeggio pomeridiano che, fosse rimasta per sempre nei cassetti dello studio, nessuno si sarebbe strappato i capelli. Giusto Dethroned suscita una lieve fitta di nostalgia nel ricordare che, era forse il 1991, i Godflesh condivisero un tour con i Nirvana. Ma è un attimo.
Infine, l’immane progetto The Blood of Heroes, associazione a delinquere angloamericana che coinvolge Bill Laswell e Enduser tra gli altri, un disco in studio e un remix album registrati e pubblicati nell’arco di dodici mesi, dall’autunno 2009 all’autunno 2010; ma questa è roba talmente enorme che ne parleremo a parte.

 

6 thoughts on “Perché il freddo, quello vero, sa essere qui, in fondo al mio cuore di sbarbo.”

  1. Citazione di Zanardi stupenda, una delle migliori frasi della letteratura italiana. Non so se si adatta al personaggio oggi (JB è piuttosto riflessivo e articolato al momento), ma forse ai suoi primi anni sì.

    Forse sbaglio, ma gli Jesu hanno fatto un nuovo album? E’ bello come il primo o sognante-moscio come tutto ciò che hanno fatto dopo? Death to shoegaze.

  2. No, gli egiziani non mi piacciono, gli egiziani non sono proprio i romanisti del mondo antico (quelli sono gli antichi romani) ma ci vanno molto vicino in quanto a scontatezza, banalità, elitarismo di massa e forza trovata non in sé ma nel numero di sostenitori. Ar circo massimo eravamo tre miòni. Guàra sta città, è tutta giallorossa. Ahò ma ndo stanno i lazziali.
    Vuoi mettere con le maestose, immanenti, friabili ziqqurratt dei mesopotamici, i laziali del mondo antico, anzi, dei sumeri, i più laziali del Vicino Oriente Antico? Se vai in Egitto, ci sono quelle tre piramidi demmerda e dietro (il lato che non inquadrano) le orride periferie fondamentaliste del Cairo. Ci hanno pure suonato i Pink Floyd (brrrr), band egizianissima. L’Egitto ha rovinato il concept dei Trail of Dead, e ha partorito solo musica brutta, ad eccezione di qualcosa di Sun Ra (che sopperiva alle influenze nefaste dell’Egitto con la sua fede laziale. Tutti noi ricordiamo con affetto “Er Tomba” quando veniva sulle gradinate dell’Olimpico ad applaudire la lazio di Maestrelli, Chinaglia e Ra Cecconi (che se non fosse morto, col tempo si sarebbe chiamato naturalmente Aton Cecconi). Tutti ricordano la festa scudetto, quando un giovane D’Amico, pazzo di gioia, corse incontro a Sun Ra gridandogli “A faraò, jaa amo fatta!”, e giù abbracci. Bè insomma. Se invece di andare in Egitto vai in Iraq, praticamente ci sono solo delle ziqqurrat e attorno chilometri e chilometri di polvere, polvere e solo polvere. La Mesopotamia ha influenzato tutta la musica migliore: Absu, Tiamat, Marduk, Nergal dei Behemot, i Sunn (con Sin/Nanna), Pazuzu I e II, il film “L’esorcista”, pressoché tutto il black metal autenticamente elitario degli inizi. E quando il codice di Hammurabi (“Hammu” in amorreo significa “zio”, da cui il famoso saluto romanescp: “bella zì”) parla di punire qualcuno con delle bastonate, ovviamente si riferiva a queste beneamate pagine.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.