La mia collezione di dischi è una storia lontana. Nel senso che solo a citarne il nome mi viene in mente la mia camera da adolescente alla Pieve, quella che ho lasciato per trasferirmi a Milano. In quella camera che la mia ragazza chiama “il piccolo hard rock cafè” e quasi tutti i miei cd sono disposti in pile che partono dal pavimento e arrivano alla porta, mentre nelle camere in cui ho vissuto dopo la collezione di dischi è un moncherino, una piccola montagnuccia di demo, promo da recensire o album presi ai concerti, che conterà una trentina di robe. Questo perché da adolescente non dovevo guadagnarmi da vivere e i dischi me li comprava mia madre quindi abbondavo nelle spese senza farmi troppi problemi, e poi erano altri anni e non c’erano troppi problemi a spendere ventimila lire in un cd. Se la guardo con occhio critico la collezione di dischi della Pieve è come una sorta di corso di formazione comprato in blocco. Va per monografie, per nomi sboroni e sparati lì e c’è quello che trovavo nei negozi di Montecatini, ovvero sugli scaffali del supermercato. La mia visione del rock di quegli anni penso rispecchiasse la visione che gli Albanesi avevano negli stessi anni dell’Italia. Volevo avere tutti i grandi nomi e tenerli uno accanto all’altro su una mensola. Come negozio a Montecatini c’era solo il Superdisco di Enzino, noto dj del Full Stop specializzato in funky anni 70, un ex speaker radiofonico (credo) che ti accoglieva con un saluto simile al “Gooooooood morning Vientnam” e ti prendeva i soldi alla cassa sempre esclamando: “Ooooottima scelta!”. Fu lui in un pomeriggio dei miei sedici anni a rispondere alla domanda “Mi piace il rock, cosa devo ascoltare?” vendendomi i primi tre mattoncini di quella collezione: Pablo Honey, Led Zeppelin IV e Dark side of the Moon comprati con cinquantamila lire di mia nonna. Tre titoli che ancora oggi mi chiedo se avesse messo assieme alla cazzo o con un’intelligenza critica lucidissima e ragionata, solo per me, mentre a tutti dava a intendere che Giorgia era un’ooooottima scelta e anche Elton John e i Red Hot e così via. Quella collezione comprende discografie intere di band come Nirvana, Oasis, Soundgarden, Metallica, Green Day, Pearl Jam e di tutte le band che c’erano in copertina di Tutto Musica o Rockstar. Tra quei gruppi ci sono capitoli totalmente astratti che mai hanno penetrato il mio percorso culturale, come che ne so gli Eagles i Black Crowes o Ben Harper, dischi che era necessario avere a Montecatini per entrare nella cerchia di quelli che andavano a lezione di chitarra da Walter Davi, una sorta di Brian May elfo con i capelli tutti bianchi e ricci ugali, una peorina (piccola pecora), minuto, coi sandali e le unghie dei piedi gialle e calcaree, di Faenza forse, che suonava il tapping e lo sweep al limite di velocità ipertecniche come se le dita fossero gonfiate da farfalle leggerissime e precise e ti insegnava l’armonia su Sweet Home Alabama. Dschi che ora mi danno disagio o che mi fanno sentire fuoriluogo e ingenuo. Oppure una serie di dischi di jazz astrattissimo della ECM tra cui Miles Davis, Coltrane e robe arabe che non so cosa mi saltasse in mente. Frank Zappa e tutti i cantautori italiani, il diavolo e l’acqua santa, Grignani comprato a sedici anni e i Placebo. Cristo, gente che non sa in che lingua comunicare e che io costringo a convivere tra la polvere. Ho imbevuto la mia adolescenza di un surplus suoni corposi da classifica americana che a ripensarci erano inutili e dannosi come le merendine, ma sono ancora qua… eh già. Poi ci sono i dischi finti, quelli con le cover brutte, pubblicati da L’Espresso, Repubblica, le compilation da Dylan ai Kraftwerk e i primi cd masterizzati a cui si fotocopiavano le copertine a colori, che sono stati comunque utili perché sopperivano al mio odio per le radio. E quella è una storia di dischi rigati, che saltano nel lettore della macchina. C’è un nesso forte, un vero segno del cambio dei tempi tra i dischi comprati prima del 2001 e quelli comprati dopo.
I dischi di quegli anni mi rappresentano molto. Tornavo a casa da scuola e li trovavo lì. Li tenevo tutti aperti sul letto, leggevo i testi, li ascoltavo in uno stereo. Li toccavo, li annusavo, ci giocavo e mettevo il naso nel buco mentre fissavo il soffitto e ascoltavo. La prima volta che ho messo Kid A nel lettore me la sogno ancora la notte come un’epifania. É stata una delle prime volte in cui mi sono sentito parte del mio tempo. Poi è arrivato il periodo di Napster, delle nottate passate a scaricare a 56k. Un periodo bellissimo di cover gialle fosferescenti e scritte di una Bic blu in cui ho accumulato dei tesori. Penso siano un gran documento storico, una sorta di albore della pirateria, un periodo di scoperta e fantasia in cui bastava andare sulla barra di ricerca di un programma di download e digitare nomi segreti e impossibili da conciliare, come Dylan e Cash per trovare un live in cui suonavano assieme e scaricarne una versione di bassissima qualità.
Dopo c’è il vuoto. I dischi hanno cominciato a sparire a non essere più materiali e la mia collezione di dischi è diventata uno spirito senza corpo che si reincarnava in varie sembianze da computer a computer. Visto che il primo Mac ce l’ho avuto solo nel 2010, dopo un viaggio di lavoro lungo un mese su una moto elettrica, con quello che posso definire “furto”, la mia collezione digitale si è reincarnata in vari ciottoli informatici fino al 2010. Prima non usavo iTunes ma altri programmi scrausi di Windows di cui non ricordo bene il nome e i pochi dischi originali che compravo li tenevo tutti in macchina, ormai non ascoltavo più la musica in camera. Con l’avvento del Mac nella mia vita ho ricominciato a pensare alla musica che scaricavo illegalmente come una collezione vera e propria. Questo perché la grafica era un po’ più elegante e mi faceva sentire un po’ meno povero, allora ho ricominciato a collezionare perché non costava niente e mi dava profonda gioia. È stato come passare dai vestiti dell’Oviesse a quelli di H&M. Dalla Pieve a Milano appunto. Tutto perché su un iPod si possono far scorrere le copertine in formato grande su uno sfondo neutro e a quel punto il disco sembra veramente di avercelo. Da un certo punto di vista il mio scarso potere di acquisto mi ha arricchito perché ho cominciato ad avere fame di tutto, o di tutto quello che non potevo comprare, e finalmente me lo trovavo lì davanti e ne prendevo a sbafo, anche quando non be avevo bisogno solo perché era gratis. Il download ha cambiato la mia vita, compravo Blow Up che leggevo poco e con difficoltà ma andavo alle recensioni, segnavo i nomi e poi scaricavo ed era fantastico. Negli ultimi anni ho potuto ascoltare cose che di sicuro non avrei mai comprato e di questo sono contento o che ho usato solo come sottofondo a un tragitto e anche di questo sono contento. Adesso tengo ancora sincronizzato iTunes sul vecchio pc dove ho Emule e proprio in questi giorni sto affrontando il dilemma se passarlo da pc a mac. E mi accorgo di avere una collezione di dischi perché so che in questo passaggio qualcosa scarterei e non voglio cancellare alcune cartelle, alcuni album, anche se non li ascolto mai. Comunque sia la mia collezione di dischi adesso sta in un iPod Classic da 120 Giga che mi porto quasi sempre dietro e l’unico problema è che gli auricolari non mi stanno negli orecchi e mi escono. Comprati una cuffia direte voi e io l’ho fatto. AKG della Madonna, ma dopo un anno si sono rotte e ora non ho 90 euro da spendere.
Solo adesso realizzo che nella collezione dell’iPod ci sono una decina di dischi che ho importato nella libreria direttamente dai dischi della Pieve, in una simbiosi che stona, una sorta di Frankestein epifanico con l’audio, una metamorfosi da reale a digitale, che mette i Pearl Jam in ordine alfabetico tra Peaking Lights e A place to bury strangers (sbagliando la prima lettera), accostando suoni e tempi fuori sincrono, che comunque raccontano me, le mie scelte, i miei abbandoni, le abiure, i vecchi amori, le mie due Clio, i cambiamenti. La vita, altresì.
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Altre cose sparse per la rete:
“Perché io ho questa cosa, che non so se è normale, secondo me no, ma io ogni tanto faccio delle purghe staliniane, e i dischi che non mi piacciono, che non ascolto più, o quelli che mi piacciono ma a dire in giro che ti piace un disco del genere c’è da vergognarsi, niente, io li prendo e li regalo, li porto dai frati, li chiudo in una scatola in soffitta, in cantina, nel garage dei miei, in un armadio, dove capita. Ma soprattutto li tolgo dal mio file .doc, e se mi chiedi se ho mai avuto uno di quei dischi là, io ti dico no, anzi, forse non l’ho mai neanche ascoltato”
(il Many)
Quando è arrivato lui, la prima cosa che ha detto è “cazzo se li tieni male i CD” perché come ho già detto le copertine dei dischi che mi piacevano erano le prime a rompersi, le prime a sporcarsi (che il CD stava spesso dentro e quindi sulla copertina appoggiavo di tutto). Però suonano ancora tutti bene eh, gli ho risposto. Poi ha portato i suoi. Sembravano nuovi. I doppioni li riconosciamo perchè quello con la costa rovinata o ingiallita è il mio (ah, già, spesso e volentieri le copertine interne le appendevo ai muri).
(Grushenka)
E un giorno, non molto tempo fa, ho visto passare sull’iphone delle playlist stagionali di un mio amico virtuale di twitter che mi diverte molto perché è fuori di testa più di me. Ho scaricato. Mi è piaciuta un sacco e, contrariamente al modus operandi amoroso, mi sono servita in tutta impunità. Devo dire è stata una sorta di epifania musicale parassitaria. Adesso siamo amici. Mi fido ad occhi chiusi di ogni mega che mi ha travasato sull’hard disk. Ogni mega che lui ha scelto, ascoltato e messo in una determinata playlist per un motivo preciso e che capisci al volo un pezzo dopo l’altro. Eoni di lavoro.
(Spora)
Frankenstein epifanico: #win!