Il primo pezzo di cui conservo memoria People From Ibiza di Sandy Marton, seguito a breve giro da Midnight Radio di Taffy e Self Control di Raf; l’occasione un Vota La Voce visto di straforo dai nonni (a casa non avevamo il televisore), come a dire benvenuto negli anni ottanta. E che benvenuto: alle mie orecchie quella era pura fantascienza, meglio che finire sparati su Saturno dentro l’uovo di Mork. Poi la prima doppietta di dischi, il 45 giri con la sigla di “Vola Mio Minipony” cantata da Cristina D’Avena (meno di tre minuti, versione strumentale sul lato B, la certezza che dentro quei solchi ci fosse imprigionata la festa più divertente del mondo), e la colonna sonora de “La Storia Infinita” – il film l’avrei visto svariati anni più tardi – nel lato A il mastodontico hit-single di Limahl e il futuristico e plasticoso score di Giorgio Moroder, mentre il lato B era occupato dal reboante e teutonico score di Klaus Doldinger. Avrò suonato quel 33 giri qualche miliardo di volte, guardando le figure sul retrocopertina e inventandomi storie fantasiose sui personaggi. Poi il buio, anni normativi in cui il massimo contatto con la musica si risolveva nell’acquisto dell’LP con le canzoni dello Zecchino D’Oro al termine di ogni edizione poi più nulla per i successivi 11 mesi e 28 giorni. Nel 1990 una radio vinta da mio padre coi punti della benzina il portale definitivo; smanettando a caso con la manopola della sintonia finisco su Radio Deejay, Albertino ai controlli, è sabato pomeriggio e c’è la “Deejay Parade”, è il biglietto di sola andata. Quella roba era pura magia, il combustibile per visioni dalla potenza inaudita, l’unica controindicazione era che una volta spenta la radio tutto tornava come prima. Nel 1991 le prime cassette per Natale: Una Tribù Che Balla di Jovanotti e un best of di Umberto Tozzi da mia nonna; il primo lo ascolto fino a mandare a memoria quasi tutti i testi, il secondo mi fermo prima perché mi trasmette una tristezza indicibile. Non avevo che un mangianastri orrendo ai tempi, recuperato chissà dove e risalente probabilmente alla seconda carica di Teddy Roosevelt; infilare una cassetta lì dentro era un puro atto di fede, oltre a fottersi il nastro nove volte su dieci distorceva il suono fino a rendere qualsiasi cosa uscisse di lì un incubo melmoso e catramoso tipo disco sludge registrato in una catacomba. Nel 1992 arriva in casa un ghettoblaster infimo preso con la raccolta punti al supermercato; ai miei occhi è meglio della plancia di comando dell’Enterprise. Per circa quindici secondi. Tempo di scoprire che la ricezione dei canali radio è quantomeno “complicata” e il bastardo diventerà la croce e delizia dei miei giorni successivi: sintonizzarsi su Radio Deejay una questione di precisione millimetrica da mandare in paranoia il più scafato dei chirurghi esperti in operazioni a cuore aperto, ma quando mai una cosa buona è anche facile da ottenere? Iniziano i primi mixtape, registro qualsiasi cosa mi possa anche solo lontanamente interessare, non solo canzoni ma anche stralci di notizie, telefonate, pubblicità, plunderphonics totalmente inconsapevole che a farla ascoltare adesso a John Oswald o ai Negativland prenderebbe un coccolone. Il Deejay Time rimaneva comunque la mia principale risorsa nonché fonte inesauribile di devastanti epifanie nella scoperta di nuova musica; la cosa migliore era che mandava in onda di tutto, con una particolare predilezione all’epoca per la techno incarognita e cattivissima, roba di produzione crucca/olandese sempre a un passo dall’hardcore, pezzi tipo Dominator, Who Is Elvis?, o la micidiale Poing!, mindfuck totale ora come allora. Ma non solo: in quei magici, bellissimi pomeriggi ho scoperto anche Robert Owens, Johnny Dangerous (Problem #13 è ancora oggi il pezzo più minaccioso, alieno e malvagio che ho ascoltato in tutta la mia vita), Green Velvet, i Public Enemy (Shut ‘Em Down la passavano almeno una volta al giorno, per settimane), oltre a qualunque produzione italo possa venirvi in mente – e in quegli anni era un gran bel sentire, almeno nella mia stanza. Guardando indietro penso di avere ascoltato Albertino molto più spesso e infinitamente più volentieri di quanto abbia visto o sentito la maggior parte dei miei parenti. Di sicuro mi ha fatto meglio. Nell’estate 1992 l’ennesimo dei suoi infiniti regali: Fight Da Faida di Frankie Hi-NRG, si spalanca un altro tunnel senza ritorno questa volta verso l’hip hop italiano e non, erano gli anni delle posse in Italia, ma anche del gangsta rap al suo apice di arroganza e livore, soltanto varcare la soglia del Disco D’Oro ti catapultava dritto a Compton nel bel mezzo di un drive-by shooting all’uscita di un liceo pieno di negri problematici. Ed è sempre dell’estate 1992 l’incontro con il disco che forse più di ogni altro mi avrebbe cambiato irreversibilmente la vita: Fear of the Dark degli Iron Maiden. Da allora una vertigine continua.
Ho comprato il primo CD un anno dopo, nell’estate 1993; era il primo numero de “I Miti del Rock”, collana di bootleg selezionati da Red Ronnie. Soltanto a maneggiarlo mi sembrava di stare dentro un romanzo di William Gibson. Da allora non ho più smesso. I cd li tengo dove capita, di solito impilati uno sull’altro a formare sghembe, mostruose torrette in spregio alla forza di gravità, tipo Jenga quando mancano già diversi mattoncini alla base; il cielo è il solo limite. Mai comprato mobili all’uopo, né all’Ikea né altrove, nessun ordine alfabetico o di acquisto o altro, mai contato quanti dischi ho, mai anche solo pensato di tentarne l’archiviazione. Non ricordo qual è l’ultimo CD che ho comprato. Ho fatto un solo acquisto via Internet, dicembre 2000, Twin Infinitives dei Royal Trux su CDNow allacciandomi a un mega-ordine cumulativo di amici “perché poi gli hacker ti manomettono la carta di credito”. Il disco è arrivato un mese dopo. Non ho sentito il bisogno di ripetere l’esperienza.
Il primo personal computer con relativo allacciamento a Internet l’ho messo in casa nel 2001, a Napster ci sono arrivato quando ormai stava chiudendo; un sacco di nomi dovevi scriverli sbagliati altrimenti non ti appariva niente, e comunque era pieno di fake: ricordo in particolar modo un fake di People = Shit degli Slipknot di gran lunga migliore dell’originale (ma di questo me ne sono accorto mesi più tardi). WinMX per me era una vera merda, complicatissimo e ansiogeno, mi pareva un software finto tipo quello usato da Matthew Broderick in War Games e col 56k del cazzo che avevo farlo girare era un autentico inferno, gli altri programmi tipo Kazaa o Gnutella amici più sgamati mi avevano detto che “erano pieni di virus”, io mi sono fidato sulla parola e non li ho mai coperti. Il primo vero p2p con cui mi sono confrontato è stato Audiogalaxy, i brani che cercavo avevano una o nessuna tacca di popolarità e scaricarli era uno stillicidio, per Absolutego dei Boris ci ha messo due giorni; ingannavo l’attesa litigando con americani a caso sui forum degli artisti ma era uno stillicidio comunque. L’ADSL per me è arrivata nell’ottobre 2002; pochi giorni più tardi avrei scoperto Soulseek.
Doveva succedere prima o poi, ed è successo: all’ultima fiera del disco poco più di un mese fa ho ricomprato un disco che già avevo (nello specifico, Churn degli Shihad, simpatico gruppo noise-metal neozelandese di cui probabilmente non si ricordano manco le loro madri). Mi sono accorto del doppio acquisto soltanto la settimana scorsa. Ho sempre pensato che se ti ricompri un disco, per come la vedo io, significa solo che sei rincoglionito. Lo penso ancora, solo che adesso anch’io sono così.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Uno Shihad è per sempre Tèun, non scherziamo.