tema: “La mia collezione di dischi”. Svolgimento:

Ho sempre avuto un rapporto un po’ nevrotico con la mia collezione di dischi. C’è che il piccolo e insignificante Ep dei Phobia d’esordio per Relapse lo abbia recuperato dopo anni di nonscialanza per rimpiangerne i solchi (quelli arrecati al packaging, non al dischetto in sé). E quindi viene facile prendere buste bustine bustarelle (specie quelle della Feltrinelli formato paperback) per avvolgere tutti quei dischi che ti farebbe tristezza rivedere anni dopo ridotti ad un lavoretto di graffi e spaccature varie.

Altre volte viene normale abbandonare qualche disco privo ormai di una qualche rilevanza nella propria “formazione” musicale. Un dischetto inutile comprato dieci anni fa giusto per sentirsi aggiornato sulle ultime tendenze e frutto magari di una divagazione estemporanea di un gruppo alla canna del gas da qualche tempo. Dischi così ne ho tutto sommato pochi e tutti giustamente ridotti quasi a sottobicchiere. Enemies of Reality dei Nevermore (la prima edizione, quella prodotta a cazzo di cane con  canzoni alla cazzo di cane as well). Supercharger dei Machine Head, autentica scoreggia liquida nel culo di Oakland. Un vecchio dischetto di Alice Cooper. Same Difference degli Entombed, forse il disco più brutto di sempre nella mia collezione.

E poi ci sono i dischetti collezionati nel tempo, non imbustati ma maneggiati quasi coi guanti di gomma. Di solito sono pacchi di dischi rigorosamente raccolti più per dovere di fan che per interesse. Molti, moltissimi dischi dei Kiss (incluse alcune orrende produzioni ottantiane). Tutti quelli di Smiths e Maiden (escluse le ultime due-tre uscite). La colonnina dei disconi dei Napalm Death, e qui il medio-collezionismo di fan oblato si contamina di nerdismo variopinto: è tutto un caleidoscopio di edizioni limitate, di Dvd, vinili, sette pollici, adesivi, musicassette, Ep e singoli per i mercato estero, tutti rinvenuti in maniera impressionistica e assolutamente non premeditata.

Poi ci sono le follie momentanee, alcune delle quali destinate ad ampliare il canone di ascolti secondo la pretesa della “mente aperta”. In realtà sono dischi che vanno e vengono, molti restano per sempre ma sono esclusivamente frutto di scelte obiettive anche se magari imprevedibili e per lo più legate a fasi brevi-brevissime della mia vita di metallaro in crisi. Ci sono le colonnine dei dischi 4AD, alcune scioglievoli troiate indiepop, pezzi di cantautorato italiano e non scelti con criterio quasi nickhornbyiano (mai letto Hornby, non ce la faccio, ma credo di averne colto lo spirito). Qualche divertita escursione nell’hip hop, tanto grunge. Grindcore torrenziale, e qui non mi dilungo perché sarebbe una spossante elegia del nerdismo medio-collezionista o medio-nerdismo collezionista, fate voi. Cioè, tutta una vita spesa a rintracciare irrintracciabili dischi dei Cripple Bastards (e dopo un po’ uno si stufa pure) e poi uno si ritrova gli Unseen Terror per pochi spiccioli (Garfield for President!).

Poi ci sono i vinili e le cassettine.

Molti dei primi me li ha lasciati il babbo. Sono fondamentalmente freakettonagini apripiste: vecchioni inglesi e americani, rock-blues datatissimo, psichedelia democristiana, cose così. Alcuni bei pezzi di storia, certo, ma le vere chicche sono quasi tutte appartenenti a mondi e generi diversi da quelli che poi sarebbero stati influenti nella mia formazione metallara, diciamo. Il Nostro Caro Angelo di Battisti (un gradino sotto Anima Latina ma sempre bellissimo), il Lucio Dalla dei tardi anni Settanta, quello migliore, e poco altro.

Le seconde sono quasi tutte mie. Non solo le tape che mi doppiavano i miei amici quando io il Cd o il Pc o il “masterizzatore” non sapevo neanche cosa fossero (e qui è un tripudio di Iron Maiden e Nirvana), ma anche pezzi vecchi di trent’anni ormai inascoltabili comprati chissà dove per poche lire. Made in Japan e Burn dei Deep Purple, quest’ultima originalissima ma priva della sua confezione, all’uopo sostituita con quella di una compilation di pezzi folk emiliani. Fear of The Dark, comprata e ascoltata sempre e solo in auto col babbo durante i tragitti lunghi. E Pluribus Funk dei Grand Funk, per me il power trio per eccellenza (secondi solo agli Husker Du e Minutemen, insomma). Alcune cassette le ho comprate di recente in concomitanza con il rilancio di certo nostalgico ed ironico fighettismo DIY. Sono quei classici ultralimitati pezzi da collezione con i quali quasi ci dormo. Gerda, ad esempio (che fine avete fatto?). Gli Altro da Pesaro. I recentissimi e devastanti emo-urloni Do Nascimiento (Dio li benedica).

E poi l’hard disk, neanche troppo pieno se non fosse che, ragazzi miei, a diciassette anni i dischi me li prendeva la mamma ed ora (a ventisei) sono evidentemente costretto a dosare gli acquisti. Robaccia che comprerò prima o poi o che finirà per non essere mai (ri)ascoltata, tipo Sufjan Stevens.

E poi ci sono i vinili, e lì, vabbè, non c’è proprio logica. Marnero, Impact, i singoli degli Smiths, qualche Miles Davis (qui ci casco anch’io anche se il jazz manco so cos’è) e – rullo di tamburi – Change Has Come di Screaming Trees (ovviamente la ristampa Glitterhouse). Molti altri, sempre senza logica. Dai Black Flag a Jannacci. Lì si gira un po’ per mercati e banchetti ai concerti (e vi ricordo che la Capitanata nordorientale non è Camden Town), si contatta un po’ di gente con le distro, artisti che ti spediscono i loro pezzi a prezzi stracciati, etichette troppo cazzute. E si finge di avere un contatto con la scena. Un cazzo, ragazzi miei. Un bel cazzo di niente. Si è sempre soli da ‘ste parti.

Doveva essere un pezzo sulla mia collezione di dischi ed è diventato poco meno di un elenco di stupidate da curio shop. Questo la dice lunga su tante cose. Una di queste è che mi piace pavoneggiarmi (evvabbè, che sarà mai). Un altra potrebbe essere che se compri il vinile di Damaged dei Black Flag poi devi ascoltartelo e non scaricartelo per fare il punk wannabe su un finto pianosequenza mentre passeggi per strada con la musica in cuffia a 128 kbps. Messa così, però, è sempre meglio la paranoia per i dischi che non quella per le foto b/n ai posaceneri. O quella per gli occhialoni alla Mondaini, certo. Ma ora vi spiego meglio.

Da qualche parte dovrei avere anche una copia piratata di un Fivelandia a caso comprata dai miei quando cingalesi-libici-algerini-senegalesi erano tutti indistintamente “marocchini” per noi bambini figli non del BOOM economico ma dello SLAM berlusconiano. Ecco, se ritrovassi quella cassetta un cerchio si chiuderebbe, ne sono certo. Ho in mente un ambiente molto piccolo borghese. Mi rivedo che con i miei finisco di addobbare un albero di Natale e ci prepariamo per sorbirci un’elegiaca serata di film in prima visione quando ancora facevano film in Tv, anzi, quando ancora vedevo la Tv. Mi rivedo a scuola pochi giorni dopo. Ci si guarda tra amichetti pieni di trepidazione e poi si muore un po’ alla volta pieni di malinconia per ogni saluto ed augurio di Natale che porgi agli altri. Arrivo a casa mentre la gente gira con enormi pacchi regalo presi alla Rinascente (ma perchè poi? Nella mia cittadina non c’era). Signorone con grosse pellicce ecologiche osservano i maritini impiegati venir fuori dalla ditta della mia città recando tra le braccia cesti di frutta, dolci e spumanti astigiani. I miei che nel frattempo hanno arrancato tutta una stagione per darmi quell’illusione piccolo borghese di cui prima, una volta a casa mi invitano a tavola con le loro solite maniere lievemente brusche ma sincere. Alla sera ascolterò Fivelandia.

Ecco la mia collezione di dischi.

(Nunzio Lamonaca)

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