Non ho fratelli maggiori (non che io sappia perlomeno) né parenti o amici già edotti, nessuna collezione di dischi scovata in soffitta da cui attingere o altro, a Henry Rollins ci sono arrivato da solo. È uno dei motivi per cui sono grato di essere stato giovane negli anni novanta: per qualche ragione che continua a sfuggirmi c’è stato un periodo in cui Henry Rollins era effettivamente famoso, di quel tipo di fama dove chiunque sa chi sei a prescindere da cosa tu faccia. La breccia si è aperta nel 1992, The End Of Silence l’ariete di sfondamento, ed è durata almeno fino a tutto il 1995. Io c’ero dentro. Sapevo chi fosse Henry Rollins prima ancora di avere ascoltato una nota dei suoi dischi, letto una riga dei suoi libri o visto un solo fotogramma dei film o dei videoclip in cui compariva; erano le interviste, probabilmente. Rollins rilasciava un sacco di interviste. Ne ricordo una in particolare su Rockstar dove spiegava come l’ammazzarsi di esercizi in palestra fino e oltre la soglia del dolore fisico fosse l’unico modo per dimenticare anche solo per qualche attimo il senso di inadeguatezza che provava nei confronti del resto della razza umana. Il concetto era questo, però lui lo diceva molto meglio e senza sembrare un dissociato semiautistico con seri problemi comportamentali (non ai miei occhi, almeno). E le foto, anche. Rollins non sorrideva mai. Ti scrutava attraverso l’obiettivo con quello sguardo che avrebbe perforato il titanio e una smorfia di sdegno come un marine che non cagava bene da una settimana. Ma non era sgradevole, lo sentivi che non c’era nulla di artefatto nel suo modo di porsi: era solo un energumeno che faceva molta fatica a vivere in questo casino del cazzo. Come dargli torto? I dischi della Rollins Band arrivarono poco più in là, tempo intercettare il video di Liar un pomeriggio su Videomusic e restarne folgorato all’istante. Non capivo molto dei testi, ma quel poco mi bastava. Ecco finalmente qualcuno che riesce a spiegare quello che sento ma non so dire. A un tratto mi pareva di conoscerlo da sempre. Avrei voluto essere suo amico, giocarci insieme a basket e poi dividere una cocacola, portarlo a scuola a massacrare di legnate i bulletti che mi davano il tormento. Non ero più solo.
Ai Black Flag ci sono arrivato in un secondo momento; non ricordo l’istante preciso, di sicuro a fare da tramite una copertina di Raymond Pettibon che spicca come un urlo nel buio tra il marasma di vinili appesi alle pareti di Underground e mi colpisce come uno schiaffo a mano aperta in piena faccia. Qualcosa come il fumetto più divertente e pericoloso del mondo, del tipo che al confronto Robert Crumb è un pavido cazzone; comunque una calamita. Volevo quella roba, sapevo che mi sarebbe piaciuta. Ma i dischi della SST costavano caro, nuovi o usati nessuna differenza, e per portare a casa Damaged, My War, e poi Slip It In, Family Man, Who’s Got the 10/2? e via via tutto il resto c’è voluto molto tempo, con snervanti intervalli tra un’acquisizione e l’altra. E comunque quella era un’altra storia, lo capivi dopo mezzo secondo che il vero motore lì dentro era Greg Ginn con la sua chitarra fuori da ogni costrutto che suonava come un alieno intrappolato in uno scantinato, Rollins poco più di un ospite neanche troppo a suo agio, spesso in disparte, schiacciato dalla forza ultraterrena di riff più grandi della vita stessa. E però My War è a tutti gli effetti un disco di Henry Rollins, anche se nello specifico ha scritto quattro testi e nemmeno una nota, quei pezzi li incarna, sono le sue viscere e il suo sangue e le sue corde vocali portate al punto di rottura, impossibile immaginare un altro uomo al comando, che se quelle parole le avesse urlate qualcun altro non farebbero l’effetto che fanno, non entrerebbero nella carne come coltellate (perlomeno nella carne degli afflitti, dei deboli e degli umiliati). Se c’è un senso nell’ingombrante, esponenziale growing up in public di Rollins fino ad allora (Washington DC, gli State Of Alert, l’amicizia con Ian MacKaye, i turni da gelataio e le notti in bianco ai concerti punk, le esplorazioni tossiche assieme a Greg Ginn, le prime maldestre ricognizioni poetiche con Lydia Lunch ad aprire la strada, il tutto mosso e motivato da un bisogno devastante, ancora difficile da incanalare), quel senso è da ricercare tra le pieghe di My War: la pasta è quella di chi è emerso dall’abisso il tempo necessario e con sufficiente lucidità per poter dirne. Probabilmente i Black Flag hanno inciso di meglio, se si resta all’interno di rassicuranti parametri quali canzoni, singoli o album (in questo senso lo zenit sta in un ipotetico punto d’incontro tra The First Four Years e The Process Of Weeding Out, il primo la raccolta delle vecchie cose con gli altri cantanti, il secondo interamente strumentale, a dimostrazione che Rollins e i Black Flag sono sempre stati due entità separate). My War è diverso. È un test attitudinale, una prova di vita: chi ha saputo è dentro, chi è fuori era fuori e resta fuori. I dischi della Rollins Band fino al 1997 sono tutti così.
Se non ti sei mai sentito in stato di guerra totale contro il mondo, se non hai conosciuto a più riprese e approfonditamente il rifiuto, l’umiliazione e il silenzio, se non sai come sono fatte le ore di un pomeriggio solitario (per non parlare delle notti) e non hai mai avuto nemmeno per un istante la certezza di essere rimasto l’unico essere umano vivo al mondo è difficile – quando non proprio impossibile – che questa roba ti dica qualcosa della tua vita. Puoi ascoltarla, certo, ma non puoi sentirla incendiarti il sangue nelle vene e attorcigliarti le budella. Viceversa, chiunque sia rimasto solo, tra le quattro pareti di una stanza spoglia o per le strade di una città ostile, probabilmente questa roba la conosce fin troppo bene; sono quelli che per anni hanno affollato le prime file dei suoi concerti, a urlare di rimando ogni singola parola di pezzi che erano e sono qualcosa di più di un semplice sottofondo. Come per My War, anche con Hot Animal Machine il primo pugno in bocca arriva dalla copertina: pare la locandina deformata di un film di Frank Capra però demente, infinitamente più cattivo e senza il finale, come se James Stewart fosse condannato a vagare per l’eternità in un inferno perfino peggiore di quello terreno. Titolo e immagine ghignante e fondale rosa shocking lo rendono un oggetto minaccioso, anomalo e sottilmente inquietante, come un vecchio giornale porno rinvenuto per caso nella soffitta di casa dei nonni, di quei dischi che ti vergogni di mostrare alla cassiera per il pagamento. Il contenuto è all’altezza delle premesse: la musica il vero significato del termine ‘Blues’, i testi un racconto di Bukowski senza l’ironia. Nessuna speranza, nessuna redenzione, nessuno sconto, solo rospi in gola e pugni nella pancia e assorbire tutta l’ostilità dell’universo senza poter scappare. Il concetto di omeopatia spinto alle estreme conseguenze, e senza dover ingurgitare pillole zuccherine dai nulli effetti. Il successivo Life Time ancora più virulento e inesorabile, indescrivibile nella sua sistematica demolizione di ogni possibile appiglio consolatorio, un urlo primordiale che niente e nessuno può mettere a tacere. I titoli parlano chiaro: Ustionato oltre ogni riconoscimento, Che cosa ci faccio qui?, Mille volte cieco, Isolato, Se sei vivo, oltre all’irraggiungibile Pistola in bocca blues, e la furia nell’esecuzione e la forza di parole che riescono a dare forma a concetti universali come sgomento, abbandono, incomunicabilità e schiacciante bisogno di calore e amore lo rendono ancora oggi e per sempre il Vangelo di chiunque stia soffrendo come un cane da solo nel mondo.
I live dell’epoca – più simili a riti sacrificali in cui la vittima manco a dirlo è Rollins stesso, un fascio di nervi doloranti e muscoli in perenne torsione nella febbrile ricerca dello spasmo fatale – riuscivano magicamente a ricreare notte dopo notte, con intensità invariata, la spaventosa potenza di quei pezzi; a testimoniarlo Turned On, tra i più grandi album dal vivo di sempre. Punitivo nella versione CD (un’unica traccia di settantadue minuti che rende impossibile il passaggio da un brano all’altro se non col dito fisso sull’avanti veloce) è il resoconto più o meno integrale – alcuni pezzi sfumano in corrispondenza della fine di ogni lato del vinile, identico il trattamento su CD; il discorsetto iniziale di Rollins è tronco, a finire registrata soltanto la conclusione, comunque più che esauriente: Anyway thanks for comin’ on down, and… well… good luck. – di una data a Vienna del 1989, era il tour di Hard Volume (che di Life Time è l’appendice giusto un pelo più meditata). Quel tour è passato anche da Bologna, all’Isola nel Kantiere, i racconti mitologici di chi c’era dicono di un Theo Van Rock completamente ubriaco che si piazza al mixer, alza tutti i canali al massimo e a parte finire una bottiglia di whisky da solo per tutto il concerto non farà nient’altro; c’è chi sostiene che anche Rollins quella sera fosse ubriaco. Se il concerto è stato anche solo lontanamente paragonabile a quel che si sente in Turned On non mi stupirei se qualcuno sostenesse pure di avere visto la madonna. Alla fine l’unico vero peccato di questa fase della Rollins Band è che non esista una versione in studio di Out There, il pezzo più drammatico, dilatato e prostrante, al cui confronto viene da ridimensionare perfino Gun In Mouth Blues; la versione contenuta in Turned On, per quanto mastodontica, è soltanto una parte di un irraccontabile totale che non conosceremo mai, che avrebbe rischiato di essere superiore alla somma di tutte le esecuzioni messe insieme, oltre il nero, oltre ogni pretesa di equilibrio psicofisico, oltre il dolore, oltre tutto.
Il primo film in cui ho visto Henry Rollins è stato Sesso & fuga con l’ostaggio. Era il 1994, un grande anno per i fan di Charlie Sheen, l’ultimo, da lì in poi la serie Z più bieca; mi ero appena pappato Terminal Velocity e già non vedevo l’ora che arrivasse l’estate anche per l’anteprima di Major League 2 (il primo un pilastro inscalfibile della mia formazione umana), in tutto questo Sesso & fuga con l’ostaggio era una specie di ciliegina su una specie di squinternata torta. Dei tre è l’unico film che tuttora rivedo sempre volentieri, e non solo perché Rollins è praticamente il co-protagonista; una specie di precognizione dell’inseguimento di OJ Simpson imbottita di gas esilarante e con un sacco di volti noti (se sei cresciuto di fronte a un videonoleggio negli anni novanta) e una colonna sonora che come poche altre ti faceva sentire figlio del tuo tempo (meglio di così giusto Empire Records e pochissimo altro). Per me era assolutamente scontato che Henry Rollins ci recitasse; voglio dire, in quel periodo era ovunque, e comunque avevo da poco letto l’intervista su Rockstar in cui parlava del sollevamento pesi. Quel che ignoravo era perché in quel periodo Rollins fosse ovunque, e quanto fosse tragicamente ironico che l’inizio della sua ascesa abbia preso le mosse da uno dei momenti più problematici della sua vita. Nel dicembre 1991 sopravvive a una rapina dove finisce ucciso il suo migliore amico, coinquilino e roadie Joe Cole; sull’orlo dell’esaurimento nervoso, la depressione che torna ad attanagliarlo come e più che ai tempi della scuola, delle punizioni corporali e del Ritalin somministrato a tradimento, si butta nel superlavoro per evitare di impazzire. Costantemente sulla strada, con la band in posti via via sempre più grandi (a culminare in una tournée di spalla ai Red Hot Chili Peppers, era l’anno di Blood Sugar Sex Magik), da solo in teatri, librerie, bar e qualunque altro cimiciaio fosse disposto a ospitare un armadio col microfono in mano armato soltanto delle sue paranoie e di una parlantina inarrestabile, pubblica a getto continuo libri e spoken word album su quanto cazzo sta messo alla canna del gas (See a Grown Man Cry e Now Watch Him Die il meglio tra i primi, Live at McCabe’s per i secondi), un flusso di parole che è l’equivalente di anni di psicoterapia in pubblico se la psicoterapia funzionasse davvero, un fuoco di fila di uscite che metterebbe a dura prova il più incallito degli archivisti; nel mezzo The End Of Silence, l’allora ultimo album della Rollins Band, inizia a vendere come il pane. Musicalmente è la cosa migliore a cui Rollins abbia preso parte, ma ad aver contribuito alla sua fortuna commerciale è soprattutto un tempismo perfetto ancorché del tutto inconsapevole: The End Of Silence arriva in un momento in cui se stai male e non te ne frega un cazzo dei Nirvana sei fottuto. La risposta di pubblico è immediata: mezzo milione di disperati fanno schizzare il disco nelle zone alte delle classifiche, dove rimarrà per mesi. Rollins diventa l’intellettuale della generazione X, si improvvisa editore e, assieme a Rick Rubin, discografico, pubblica libri e dischi di Alan Vega, Hubert Selby Jr., Iceberg Slim, ristampa James Chance, Mississippi Fred McDowell, i Gang Of Four, i Devo, c’è effettivamente un momento in cui qualsiasi cosa tocchi si trasforma in cibo per la mente. Con un nuovo album in uscita (Weight, che venderà altre camionate di copie), presenza fissa su MTV come su qualsiasi altro canale TV, radio, rivista e rotocalco, il cinema è l’ultimo step in ordine di tempo nella sua inarrestabile opera di colonizzazione dell’immaginario negli anni novanta; parallelamente a Sesso & fuga con l’ostaggio partecipa alle riprese di Johnny Mnemonic, ai controlli il pittore Robert Longo (presente la copertina di The Ascension di Glenn Branca? Quella è la sua roba), un cast incredibile, praticamente un frullato degli ultimi cinque anni di cultura audiovisiva americana e non (da Keanu Reeves a Dolph Lundgren, da Udo Kier a Ice-T, da Dina Meyer direttamente da Beverly Hills 90210 fino a Takeshi Kitano), sulla carta il film cyberpunk definitivo. Qualcosa non va come dovrebbe, il film esce quasi un anno e mezzo più tardi, visivamente è un capolavoro ma la storia non gira, e comunque è troppo strano per piacere e troppo poco scadente o improbabile o brutto per generare un culto sommerso di qualsiasi tipo, inoltre a fine 1995 il cyberpunk non interessa più a nessuno. Tempo un frettoloso e imbarazzato passaggio nei peggiori cinema del circondario e Johnny Mnemonic viene immediatamente dimenticato, e siamo al secondo flop su due per Rollins attore (anche Sesso & fuga con l’ostaggio aveva incassato quasi un cazzo e fatto schifo a quei pochi che l’avevano visto, tra le rarissime eccezioni Roger Ebert che lo definì ‘decoroso’). Ma nel 1995 esce anche il miglior film della sua carriera: Heat di Michael Mann, e Henry è ancora ben saldo sulla vetta a duettare con i grandi, tant’è che le prende di santa ragione da Al Pacino. Poco più tardi David Lynch annuncerà di averlo scritturato per il suo ultimo film, Lost Highway (dove Rollins recita una, dicasi una, battuta: Quell’uxoricida sta dando di matto), e anche se da allora continueranno le frequentazioni (in film sempre più improbabili e produzioni di livello sempre più infimo, dal caramelloso Jack Frost a robaccia indegna della peggiore tv via cavo tipo Scene da un crimine e Morgan’s ferry con Billy Zane, ultimamente horroracci ‘divertenti’ tipo Feast o Wrong Turn 2, nel mezzo un solo fulmineo rientro nel mainstream con un’apparizione-lampo in Bad Boys II) il percorso cinematografico di Rollins potrebbe ben dirsi concluso, così come quello musicale. Nel 1997, dopo due anni di lavorazione, esce l’ultimo disco della Rollins Band, Come In and Burn.
Un amico che ora non c’è più (nel senso che non sta più in Italia, non che è morto) aveva fatto incetta di libri di Rollins durante un viaggio negli States; al suo ritorno me li aveva prestati. Get in the van, Black coffee blues, Eye scream, See a grown man cry, ma soprattutto Now watch him die: quei tascabili dalle copertine oscure e respingenti, già usurate come un giallaccio di quarta mano, le pagine che odoravano di gas di scarico e sedili rancidi dei bus Greyhound, sono stati la mia personale Recherche, il mio Signore degli anelli, il mio (inserite qui il titolo di un libro che vi ha cambiato la vita). Ancora una volta l’effetto era lo stesso dei dischi, spesso pure superiore: una vicinanza che andava oltre il semplice concetto di identificazione, ritrovarsi rispecchiati con aderenza perfino inquietante nello sguardo di un perfetto estraneo in cui si riconosce all’istante uno spirito affine, quali che siano le differenze di vissuto, geografiche o temporali. Lo scarto vero stava nel linguaggio: Rollins era riuscito a trovare le parole, quelle parole che a me continuavano a sfuggire, per dare una forma a quel che sentivo dentro (o almeno provarci). Era roba di una semplicità brutale, egocentrica oltre ogni possibilità di speranza, certamente materiale che non sarebbe mai finito nelle antologie della Grande Letteratura Americana, ma era quel che avevo bisogno di sentirmi dire e che nessuno mi aveva detto mai. Ancora una volta, nel buio non ero più solo; da qualche parte nel mondo c’era qualcuno che quel buio lo aveva già attraversato e chissà come ce l’aveva fatta a metterlo per iscritto. Una guida Lonely Planet del subconscio, ecco cosa. Da quando ho dovuto restituirli quei libri non li ho mai ricomprati; mi sarei dovuto accontentare di ristampe, di terze o quarte edizioni ordinate via Internet mentre volevo quelle copie là, il che è impossibile; ma il contenuto ce l’ho ancora ben impresso in testa come il marchio a fuoco sulle chiappe dei vitelli. Mi ha salvato la vita un numero incalcolabile di volte.
Nel 2012 fanno diciotto anni da quando Henry Rollins mi tiene compagnia. A lui devo una buona parte del mio fragile equilibrio, e non penso di essere il solo. Vorrei poter dire che siamo cresciuti insieme; ovviamente non è così: io lui non l’ho mai conosciuto, se non attraverso i solchi dei suoi dischi e le pagine dei suoi libri (e gli spoken word, e i film eccetera). Eppure nella mia vita è stato una presenza costante, soprattutto nei momenti più impegnativi; lui c’era anche quando accanto a me non era rimasto nessun altro, le sue parole tra le poche che abbia avuto la forza di ascoltare quando lo schifo e il disprezzo per me stesso tracimavano fino ad assumere nuovi e mirabolanti significati e mi ritrovavo messo peggio di un cane rognoso, nudo e inerme di fronte all’infinita crudeltà dell’universo. È stato il mio personale Tom Joad della sofferenza, del dolore e della frustrazione: ogni volta che stavo male, lui c’era. E c’è ancora. Basta far girare Life Time un’altra volta, o aprire Now Watch Him Die a una pagina a caso. Io non sono cambiato.
Tra qualche giorno passa per la prima volta dall’Italia uno spoken word di Henry Rollins. Ieri era il suo compleanno. Un pretesto come un altro per parlare di qualcuno di cui abbiamo voglia di parlare. Tanti auguri, e ci vediamo sotto il palco. Il racconto è di Matteo, i disegni sono di Francesco.
io boh, non so perché henry non me lo sia cacato fino ad ora. qualche anno fa ho ascoltato distrattamente the end of silence un tot di volte, ma evidentemente ero distratto da altre cose meno rilevanti. beh insomma, mi avete ridato la vita.
http://www.youtube.com/watch?v=b4uahL_tQWc
Roba da tatuarsi addosso.
Bravi.
Splendido.