MATIRE
Matire è italiano ammattire o insomma impazzire. Però non vuol dire impazzire. Matire, anche questo usato quasi sempre al negativo, significa più o meno abbassarsi a fare una cosa. Quando ti dicono non matire a fare questa cosa vuol dire che ci si aspetta che tu compia un’azione ma non ce lo si aspetta così tanto, o che tutto sommato l’azione che dovresti compiere non vale l’impazzimento. Questo naturalmente implica che per l’uso corrente della lingua romagnola l’insania mentale sia causata da un eccessivo carico di lavoro e/o ad un generale interesse per le cose, il che ci rende giustamente un popolo che si spacca il culo tutto il giorno ma ad una cert’ora si mette le gambe sotto alla tavola e si riempie il budello, espressioni mutuate dall’italiano di un cinquantacinquenne che conosco. Qualcuno deve pur godersi la vita. Non matire.
MI SCOPPIA LA FACCIA
Mi scoppia la faccia si dice quando una situazione diventa o può diventare insostenibile. Hai davanti a te una giornata di lavoro che consiste nel leccare diciottomila francobolli. A un certo punto ti annoierai molto, ma non è solo questo, nel senso che basta la prospettiva di annoiarsi a farti scoppiare la faccia. Non appena so che dovrò sorbirmi l’intera filmografia di Wes Anderson mi scoppia la faccia. Mi scoppia la faccia è la mia espressione preferita forever and ever. Per prima cosa è piuttosto evidente che viene da David Cronenberg, poi c’è la parola FACCIA che nel modo che abbiamo noi di pronunciarla diventa la FATZZIA e fa molto ridere, e terzo definisce uno stato d’animo dipingendo uno scenario concreto (per quanto inverosimile) basato su una scena cinematografica. Vorrei vivere in un mondo nel quale quattro persone sono a un tavolo, uno dei quattro sta intavolando una discussione noiosissima e ad uno degli altri tre ad un certo punto esplode la faccia, imbrattando di sangue e pezzi di cervello le altre persone e mettendo chi aveva intavolato la discussione noiosa di fronte all’evidenza empirica secondo cui appunto è ora di cambiare il registro stilistico della conversazione o iniziare a parlare di figa. La figa in Romagna è un passepartout, un argomento trasversale nel quale tutti -ragazzi, ragazze, gli omosessuali, padri, madri, ministri del culto e animali domestici- credono in maniera religiosa, nel senso che credono che quantomeno la figa esista e ci voglia bene e ci salverà nell’ultimo giorno. Ecco, quando la gente parla di figa in Romagna non scoppia mai la faccia a nessuno.
AVERE RIMASTO
Che dire ho rimasto solo due euro nel portafoglio sia scorretto in italiano, io l’ho imparato in terza liceo e faccio ancora molto fatica ad accettarlo. Dico sul serio, e chiunque sia nato o cresciuto a Cesena vi confermerebbe la cosa senza fare una piega. C’erano due modi di scoprirlo. Il primo modo era vedere i video di Edmeo Lugaresi che passavano a Mai Dire Gol per sfotterlo (ma giuro che per due anni buoni non capivo perché mettevano video in cui diceva ho rimasto), il secondo era avere a che fare per la prima volta con una professoressa che fosse nata e cresciuta in una città più esotica di, boh, Forlimpopoli. Da noi c’era una tizia che si chiamava (ma che vi frega di come si chiamava) ed insegnava inglese pur venendo da Caserta o posti simili, e ci disse questa cosa delle espressioni romagnole scorrette in culo tipo ho rimasto. Nella mia classe eravamo in ventisette e siamo sbiancati tutti. Naturalmente ai tempi dell’università e anche dopo ho messo su una gran sborrata da accademico e ho iniziato a smettere di dire ho rimasto, ma non è durata poi molto e qua nessuno corregge nessun altro. E non pensate che sia uno sfizio o il frutto di uno stolido ossessivo perseverare su di un noto errore grammaticale. La verità più oscura e tagliente e per voi scomoda è che nonostante ciò che i vostri parenti e libri hanno cercato di ingozzarvi, rimanere è un verbo transitivo. Se non siete d’accordo non agitatevi, che tanto avete rimasto da leggere solo tre paragrafi.
ATTACCARE LA PEZZA
Non è punto diverso da mi scoppia la faccia, nel senso che è un’azione figurata che descrive una situazione emotiva reale. Attaccare la pezza si usa quando una persona inizia un discorso estremamente personale, nel senso diretto proprio a TE, del quale ti interessa poco o nulla o comunque non tanto da giustificare il tono confidenziale ed eccitato che la conversazione sta prendendo. Da qualche altra parte in Italia attaccare la pezza vuol dire credo attaccar bottone con una tizia o cercare una rissa, da noi si usano altre parole per queste cose. Puoi attaccare la pezza allo scopo di attaccare bottone con una tizia, ma sono due cose diverse -e se la tipa dice che le hai attaccato una gran pezza in genere significa che avrà cura di evitare una seconda conversazione con te. Esiste anche il corrispondente per definire chi attacca le pezze a getto continuo, cioè il cosiddetto attaccapezze. Nessuno vuole un attaccapezze nella compagnia perché tende a non sfangarsi e spezzare la bolgia e insomma alla fine ti scoppia la faccia.
BIRRO
Il birro, come personaggio, è il tipico figo romagnolo anni ottanta che faceva i contest al bar a chi riusciva ad avere rapporti sessuali con più donne nel giro di una estate (si torna indietro ad un periodo in cui le spiagge romagnole d’estate si popolavano di fica magra bionda e mitteleuropea, e la gente scendeva in massa da posti tipo Villa Verucchio per imbroccare le tipe e chiavare. Come già accennato alla voce mi scoppia la faccia, da queste parti chiavare è un concetto che ha qualcosa di divino e terminale che non potrebbe MAI essere ripagato dal semplice orgasmo e nemmeno dal raccontare di essersela chiavata. Quindi insomma assume toni più ideologici, di quelle cose tipo o sei con noi o sei contro di noi anche se nessuno si è mai dichiarato contro (ogni tanto a me piace comunque dirlo in posti pubblici. “No, a me la figa non piace.” Seguono sguardi imbarazzati. Accettano le battute sullo sterminio degli ebrei ma non quelle sull’impotenza. In certi posti la vita è DURA). Dicevamo il BIRRO. Il BIRRO ha una sua estetica, che è una specie di estetica del tamarro però al quadrato e con codifiche un pelo più rigide, fate conto una versione equa e solidale di Sonny Crockett (al posto della Lamborghini aveva la Ritmo truccata). Nel corso del tempo la morale cattolica, l’AIDS e la crisi del turismo hanno avuto la meglio e sterminato parte dei personaggi attivi su questi fronti, lasciando il lemma BIRRO a descrivere un certo tipo di personaggio che ama truccare l’Ape Piaggio e mettergli sopra lo spoiler ed usare tutto questo genere di accorgimenti di cattivo gusto ma volti comunque ad impreziosire il peso specifico della sua estetica generale. Il BIRRO è ancora un personaggio necessario nei piccoli paesi, manda avanti l’economia di molti meccanici specializzati nell’impianto di carburatori extralarge e insomma, tutto sommato credo sia il principale riferimento culturale romagnolo della roba tipo Club Dogo. Massimo rispetto per i birri.
CIOU
CIOU, o CHOH, o insomma non riesco a scriverlo correttamente ma è chiaro cosa intendo quando lo dico. CIOU. Non è chiaro? In Romagna CIOU è una cosa che si usa allo scopo di sostituire fette di discorso. “Hai lasciato il termo acceso.” “Ciou.” (Ciou uguale la mia giornata è stata devastata da tutta una serie di altri cazzi a cui ho dovuto prestare attenzione, l’ultimo dei quali era di fare un’analisi costi-benefici tra l’importo di una bolletta Hera e la necessità di non morire di freddo mentre sto cacando nel mio bagno). “è tornato Berlusconi.” “Ciou.” (Ciou uguale l’agenda politico-economica nazionale deve comunque fare i conti col fatto che, un lustro fa, una discreta fetta di italiani ha espresso alle urne il desiderio di essere rappresentata da un imprenditore non particolarmente interessato a ciò che i mercati internazionali pensano di lui e del paese che guida E questa cosa non è per niente colpa mia E non mi aspettavo niente di meno che un suo ritorno di fiamma). A volte guardi una persona che ha fatto qualcosa e dici CIOU. Significa che approvi o non approvi quello che ha fatto. Fai una frenata brusca in auto e il tuo passeggero dice CIOOOOU tenendo un po’ lunga la O, sottintendendo un uso vagamente hitchcockiano del CIOU, una specie di rilancio su una situazione tesa o anche uno sfogo emotivo volto a spezzare la tensione. A volte all’ospedale di Cesena nasce un bambino e il primo vagito somiglia a un CIOU, da intendersi ovviamente come se era per me stavo altri sei mesi a bagno nel liquido amniotico. Le applicazioni concrete del CIOU sono infinite. Personalmente preferisco usarlo (o meglio non posso che usarlo) quando si mettono in moto eventi su cui non ho alcun controllo anche se sarei supposto averne, o sarebbe stato comunque carino, o insomma cose così. Non sono soddisfatto della definizione.
Finalmente ho capito che voleva dire CIOU, lo hai usato in un tweet.
D’ora in poi dirò SEMPRE “mi scoppia la faccia”, è bellissimo. E in effetti mi scoppia sul serio, spesso.
Attaccare UNA pezza però credo sia universale. O meglio, fino ad oggi pensavo fosse romano.
Genio.
Consiglierei di scrivere le parole sempre anche in dialetto.
Non ha senso parlare di parole in dialetto e non sempre scriverle e la grafia deve seguire le norme fonetiche per una chiara comprensione.
La varietà dei suoni vocali del romagnolo è di fondamentale importanza poiché le variazioni di accento costituiscono anche variazioni nel significato.
a – suono aperto
à – suono più aperto (es. sarà, càpar, farà = sarà, cappero, farà)
â – seguito da n, m, gn: suono nasale, particolarmente chiuso (es. câna, mâma, Rumâgna = canna, mamma, Romagna)
e – suono chiuso normale
ë – suono molto aperto (in certe zone tendente in a evanescente, es. bël = bello)
è – suono aperto
ê – suono chiuso allargato in a evanescente (es. magnê = mangiare)
é – suono chiuso e prolungato (es. péra, méla = pera, mela)
é – seguito da n, un suono chiuso nasale con la n muta (es. cadéna = catena)
i – vocale debole dal suono chiuso
ì – stesso suono ma l’accento indica la sillaba tonica
ì – seguito da n, un suono chiuso nasale con la n muta
o – suono chiuso normale
ò – suono aperto (es. bòta = botta)
ö – suono semiaperto con terminazione evanescente (es. öv, röda = uovo, ruota)
ô – suono chiuso terminante in u evanescente (es. fôrca, côlpa, atôrna = forca, colpa, attorno)
ô – seguito da n suono molto chiuso quasi nasale con la n pronunciata (es. casôn, sandrôn = casone, sandrone)
u – vocale normale breve (debole)
ù – come sopra l’accento indica la sillaba tonica
c – suono duro
c + a,o,u – suono duro come in italiano
c + e, i – suono dolce come in italiano
cc – suono dolce di fine parole
ch + e, i – suono duro come in italiano
g – suono duro
g + a,o,u – suono duro come in italiano
g + e, i – suono dolce come in italiano
gg – suono dolce di fine parola
gh + e, i – suono duro come in italiano
gl + i – suono dolce come in italiano
g-li – suono duro come glicine
gn – come in italiano
h – è muta e serve unicamente per rafforzare la c e la g come in italiano
m – come in italiano, eccetto che nelle terminazioni nasali è quasi sempre semimuta e si indica sottolineata
n – come in italiano, eccetto che è muta nelle terminazioni nasali
r – come in italiano, eccetto che è muta nei verbi all’infinito salvo che la parola non sia seguita da vocale
s – aspra come sonno o selva
ş – dolce come in rosa
sc – si pronuncia come in italiano, dura con a,o,u e dolce con e,i
s-c – s dura seguita da c dolce a prescindere dalla vocale seguente
z – aspra come in zavorra
ź – dolce come in zucchero
Per quanto non menzionato valgono comunque le regole dell’italiano scritto, compresa la q anche se talvolta si può trovare scritta come cv.
In effetti non e’ ASSOLUTAMENTE romagnolo.
CIOU o CHOH … nessuno dei due e’ scritto correttamente.
ciô ciô
assolutamente d’accordo con Tiziano, l’avevo poi suggerito all’autore del pezzo, ma evidentemente avendo mollato il Cesenate per abbracciare lo stile di vita barbaro e senza stile di Ravenna lo ha reso pressapochista
ma secondo me in realtà il dialetto romagnolo va non-scritto, non nasce scritto, non si sviluppa scritto, c’è una letteratura ma non sono d’accordo. su CIOU stessa cosa, nel senso che sarebbe roba tipo C’Ộ ma insomma
Io, da ravegnano, direi che e’ un pressapochista autoctono cesenate (pur esistendo anche pressapochisti ravegnani).
p.s. – gli indigeni si auto definiscono ravegnani, solo “gli altri” ci definiscono: ravennati.
In effetti il dialetto scritto viene abbondantemente dopo il parlato, in sostanza e’ una successiva trascrizione fonetica di una lingua parlata.
La mia precedente richiesta di vedere anche i termini scritti in romagnolo era incompleta.
Per correttezza di dovrebbero riportare tutte le diverse trascrizioni fonetiche in quanto diverse da zona a zona.
Un conto e’ il “ravegnano’ un’altro il “forlivese” ed altro ancora il cesenate.. per non parlare del riminese…
Ci sarebbe solo un alternativa, non parlare di “romagnolo” ma di “cesenate”, insomma abbandonare l’etnia principale e passare alle sotto etnie.
FATZZIA ?????????? mi viene da … ridr’ in faza (ridr’ in fa^a)
Molto vero. ho scritto in gran fretta, troverai nel pezzo sotto di questo le linee guida: non sto parlando di modi di dire dialettali, ma di improprietà IN ITALIANO dette in romagna. specificatamente la romagna che va da Cesena a Cesena.
Le espressioni locali che preferisco .. Molto meglio, la realta’ e’ sempre piu’ surreale del surreale.
Buon natale e… va’ a scuze’ in te remol
(purtroppo tastiera americana ovvero senza accenti che per scrivere, a noi divoratori di atone, sarebbe indispensabile)
scurze’ in te remal (da noi si dice così..) me lo diceva sempre anche la mia bisnonna, la quale raccontava di un’usanza particolarmente strana.
Quando una donna in paese era riconosciuta come quella che oggi chiameremo “troione”, le donne del paese si organizzavano ad aspettarla fuori dalla chiesa la domenica mattina con i pugni pieni di remal, appena finita la messa le donne le avrebbero tirato addosso il contenuto dei loro pugni accompagnate da urla ed ingiurie.
L’usanza aveva un nome preciso cui naturalmente non ricordo, essendo morta la mia nonna bigia 4 anni fa nemmeno potrò chiederglielo.
Bruciano le biblioteche e noi stiamo a guardare.
“scoreggiare sulla pula” (membrana esterna del grano, del riso.. insomma la parte inutilizzabile del seme dopo la battitura).
In sostanza un atto inutile a qualsiasi cosa.. un invito (una derisione) rivolto a persone che si considerano inutili se non dannose per quel che dicono o per quel che fanno.
p.s. in effetti REMOL sarebbe con la O chiusa e afona.
Mi permetto di dire che “ho rimasto”, che amo moltissimo, si dice con orgoglio anche a Forlì e di conseguenza anche nella terra di mezzo (forlimpopoli).
ecco il solito intervento scomposto e pieno di spocchia della classica forlivese poser. Se volete essere come noi romagnoli true provate ad aprire un attimo di più le O.
Good Day!