Finalmente i Daft Punk hanno fatto un disco per padri di famiglia che tornano a casa dopo una settimana di lavoro nelle Marche e non sapendo che comprare per il figlio piccolo prendono un balocchino all’edicola sotto casa, poi salgono su e c’è ancora il tavolo in formica. L’antigiovanilismo di questo “corso live” dei DP mi pare essere un sorrisino + coppino a quanti per anni hanno visto in loro l’estro dell’edonismo automatizzato, oppure a quanti non hanno digerito l’ingerenza della cultura rock in tutte quelle case che sembravano solo nostre, entrata così, senza nemmeno conoscere Underground Resistance o DJ Pierre – un processo di democratizzazione organica, che ultimamente ha segnato addirittura un genere intoccabile come la techno militante, ma che la gente dell’epoca dei negozi-di-dischi continua a digerire male (forse per rispetto dei soldi spesi, chissà). La cosa divertente è che i DP incarnando da anni questo movimento di apertura alle masse, nella loro forma architettonico-molare, hanno, per il rovescio della medaglia, incarnato anche la disillusione dei più credenti, traghettandoli nella blog-generation e mettendoli davanti al fatto compiuto che pur sempre di musica-per-ragazzi si tratta. D’altra parte la maniera produttiva dei DP ha sempre stigmatizzato la parte più rozza degli ascoltatori (di ogni genere e competenza) fino ad astrarlo meccanicamente, i titoli quasi monosillabici dei loro pezzi, la semplicità dei gesti delle mani e delle teste, una chiarezza quasi da capogiro. E’ come guardare la normalità così da vicino fino a renderla metafisica: guardi dentro al microscopio, vedi una mollica di pane o una caccola – il massimo pensabile di realtà plastica – e ti paiono invece corridoi geometrici, forme astratte dei sogni che fai la mattina quando sei stato troppo alle luci blu dei monitor la notte prima. Alla fine, ossessionato dalla ripetizione, vedi te stesso. E si capisce benissimo che possa far tremare le gambe un complesso di così grande richiamo internazionale che cambia prospettiva e fa lo stesso disco di sempre invertendo però il microscopio per fare della visione dell’iperreale un monumento alla quella normalità mandata a memoria da anni e anni, attraverso la televisione o i dischi odiati dei nostri padri – qualcuno forse aveva anche Flash Gordon dei Queen o un best of di Stephen Schlaks nelle edizioni omaggio allegate a Class. Ovviamente nello scarto percettivo che passa dal vecchio cono d’ombra fantasmatico del “troppo reale” al suo contrario, cioè fondamentalmente ridicolizzare la sega mentale di tutti quelli che vedevano nei DP l’astronave kubrickiana (disillusione stavolta in “presa diretta” che Random Access Memories rappresenta con grande puntualità, va detto), si doveva evitare la concessione ad un certo immaginario che qualcuno potesse additare come “retrofuturibile” o ancora peggio “nostalgia del futuro”, “disco-melò eighties” o qualsiasi altra cretina definizione tumblerissima, tutto ovviamente perennemente di modissima in un campo da gioco che fa del riciclo delle tendenze, della tensione sessuale traslata nell’identificazione con immagini e cantanti preferiti il motore di tutto. RAM, vittima e carnefice, riesce abbastanza in tutto questo, e d’altra parte come potrebbe fallire se l’idea fatata è quella di fare un disco di pop-rock FM fitto di guest star ingaggiate con la stessa spudoratezza degli Unkle dieci anni fa, unendo il tutto alla non-musica (intesa come musica “di passaggio”, senza nessuna identificazione territoriale) delle colonne sonore imparate con Tron. Personalmente mi pare che manchi il bersaglio solo dove effettivamente qualcosa si concede al pubblico dei figli (Lose Yourself To Dance, docile motivetto Zapp e l’insopportabile sculettìo indie del pezzo con Panda Bear), il resto è più o meno tutto tesissimo. Particolare menzione per questo nuovo senso narrativo, il gusto per lo sberleffo, per il pezzo mutante con colpo di testa incluso che ti fa sbottare e divertire in compagnia, minando alla radice le convinzioni di tutti quelli che nei pezzi dei DP vedevano una compattezza ieratica da tramandare attraverso i simboli. In questo senso RAM ricorda un po’ il bellissimo Album dei PIL con Steve Vai dentro, che dopo una carriera che sembrava fatta apposta per guadagnare la stima critica degli intellettuali alla fine hanno invece guadagnato solo la mia. L’attacco di Give Life Back To Music è quanto di più paternalista si possa immaginare, con la batteria settata su Sì viaggiare di Battisti a fare il paio con la successiva The Game Of Love che sfebbra un corpo dalle labbra ormai blu per i troppi Dalla-Morandi mandati giù senza masticare e il vocoder che segue forse la linea vocale di un Vittorio Salvetti in ritorno dall’oltretomba. Giorgio By Moroder si presenta come un profumo di marca e occhei la parte bloody tagadà piacerà a tutti ma è nella seconda metà che setta la paranoia per il tecnicismo in un gavettone ironico che durerà fino alla fine del disco. Pharrell è così fuori di moda che Get Lucky rischia di far star bene proprio per questo, sfocia nel loop-prototipo già sentito nel teaser di SNL e potrebbe andare avanti per sempre. Ad un certo punto ci pare di sentire il jingle di Riccardo Corredi da qualche parte, poi ci sanguinano le gengive, una fitta, Within ci fa piangere pasta di Fissan, alla fine arriva Touch che parte a metà tra Pavarotti & Friends e Kate Bush senza Kate Bush poi è d’un tratto capodanno con Demo Morselli che smascella peso in bad trip, inaffrontabile per chiunque abbia avuto a cuore Human After All, noi piangiamo ancora di gioia fino a scollarci la cartilagine dalle adenoidi mentre il pathos batte sempre più duro e sempre più finto fino a metterci a novanta come usava fare Winner Takes It All degli Abba, ma con ancora più tramezzini smangiucchiati e pizzette fredde a stringerci il cuore. Pezzo di grande vitellonismo, compresi i momenti di down, col corrispettivo umorale che prosegue in Beyond, pulisce subito il campo dai giovinetti con un intro alla Ben Hur da far allegare i denti e dopo smazzuola duro al fegato con ravensburger dreams puri come il cristallo. Il bambino vede il padre, forse manco lo riconosce, accetta il giocattolo pure se gli fa cacare, si dinamizza l’aspetto narrativo e la lezione disney-drama di Tron si fa spessa fino alle scope e secchi d’acqua di Fantasia in Motherboard, tra bellissima bigiotteria world e Libro Cuore. Supercollege Fragments Of Life con Todd Edwards, sigla telefilm, diarismo di provincia e paura di vivere ascoltando per una vita solo i This Heat mentre rischi di perderti i balli di fine anno. Nulla da dire sul finale di Contact vissuto pericolosamente sopra ad una marmitta artigianale, si ironizza retroattivamente l’intero disco in un tour de force esilarante di violenza fumettosa e di limiti superati nell’estetica del suono come bisogno di ritualità rocky – non differentemente da come la seconda traccia di Human After All prendeva per il culo il Moby di Thousand.
Urca, addirittura una condanna PEZZO PER PEZZO del nuovo disco dei Daft Punk, leakato neanche 12 ore fa? Da cosa scaturisce tutto quest’odio? Dicci, dicci.
condanna? sei sicuro di aver letto bene l’articolo? :O
Adatto a far da sottofondo a un prediciottesimo.
URCA; ADDIRITTURA UNA CONDANNA PEZZO PER PEZO ALA BOLDRINI DOPO SOLO DODICI ORE DEL LEACK DELLA POLISIA PSOTALE! DA COSA SCATURISCE TUTTO QUESTO APPARETENZA ALLA CASTA?!?!!!1|!11 DICCI; DICCI!!! |
SEI UN GRANDISSIMO CASALE’! <3 (FORZA CANTARE SPAZIO)
Carino ram, tra qualche giorno vedrò quanto mi ha smagato e saprò dare un giudizio.
Sembra un articolo da settimanale ke ti danno col giornale del venerdì a 1.50 in più, non si capisce un cazzo perchè parla per citazioni e non sostiene nessuna tesi ma non hai voglia di rileggerlo.
chi lo ha scritto, enrico veronese? “gavettone ironico” poteva dirlo solo lui
al di là del singolone, un disco carino, niente affatto geniale, anzi, un semplice album di disco anni ’70, ma svuotapista, ahimè… con almeno tre pezzi imbarazzanti et ridicoli. hanno detto che non faranno tour, e te credo! dove si avviano con questa roba? peggio dei knife. insomma, nel 2013 non abbiamo certo bisogno dei daft punk, per riportare in vita la musica. #adult-oriented-dance
è la cosa più pretenziosa, subdola e fastidiosa che io abbia mai ascoltato fin’ora quest’anno…
e che si tatta di un puro e fine a se stesso esercizio di stile volutamente provocatorio nell’essere così rassicurantemente retrò.
e secondo me funziona pure