tema: LA MUSICA DI MIO BABBO. Svolgimento:

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Detrocboi

La prima importante considerazione da fare è che a Milano “babbo” non si dice. Anzi, si dice ma in un altro senso: è un modo un po’ zarro di dire “sfigato” (“che babbo”, “sei un babbo”) e, almeno qui, chiunque abbia meno di 35 anni associa la parola soltanto a quello, non certo a quel modo un po’ arcaico (e che fa venire in mente Pinocchio) di chiamare la figura paterna.

Quindi parlerò della musica di mio padre.

Mio padre è cresciuto negli anni ’60, ma non direi che sia mai stato un vero appassionato di musica, se come tale intendiamo uno che colleziona dischi e frequenta concerti. Men che meno leggere robe sulla musica.

Sui concerti poi era proprio hardcore: non è che li odiasse o che gli facesse schifo che ci andassi, è proprio che odiava il casino, i posti dove c’era troppa gente pigiata. “La ressa”. “Ma ti piace? Non vi sentite intruppati come le pecore? Poi tutti lì a fare eeeeh, mi sembrate dei pirla. Tutti lì a acclamare un cretino sul palco”. Ai concerti con tanta gente mi viene sempre in mente, ‘sta cosa di essere “uno dei tanti pirla”.

Va aggiunto che a 14 anni i concerti erano quelli genericamente alternativi italiani, tipo tra Afterhours e Pornoriviste, e questi si svolgevano prevalentemente all’ora defunto Palasharp (all’epoca Mazdapalce e precedentemente Palatrussardi, dove comunque mi portò a vedere Cristina D’Avena quando ero all’asilo), nell’occasione di feste in qualche modo politiche (festa di Liberazione, festa dell’Unità), intorno all’estate. I gruppi spesso si esprimevano anche in tirate “impegnate” (ricordo i Subsonica su Silvia Baraldini) e, quando glielo raccontavo, questo lo mandava ai pazzi. Da un lato aveva anche ragione a dire che fornivano opinioni precostituite a gente che non aveva neanche una vaga idea di quegli argomenti, e che le accettava acriticamente in quanto venute da un palco e da figure considerate fighe; dall’altro però, almeno personalmente, ricordo benissimo di avere sempre pensato: “ok, loro la pensano così, io non lo so”. Anche quando partiva il coro li-ber-tà-persilviabaraldini-li-ber-tà-persilviabaraldini, che io all’epoca manco sapevo bene chi cazzo fosse.

Credo che mio padre odiasse proprio il farsi mettere da una parte, qualsiasi parte, e raccontava di essere sempre stato preso per comunista dai fascisti e per fascista dalla sinistra (in realtà ha sempre votato tutta una schiera di partitini da 3 per cento che andavano dal centrosinistra al centrodestra – e mai la Dc – in anni in cui a contare erano ancora davvero la destra e la sinistra), e pur avendo fatto l’università a Milano in quegli anni lì non ha mai partecipato attivamente a una manifestazione. Partecipò però alla prima occupazione della Cattolica, dalla quale cominciò tutto quanto. Gli sembravano cose giuste e andò per giocare a calcio (anzi, come diceva lui “a pallone”. Aveva sempre giocato, ed era fortissimo) e fare un po’ di casino. Raccontava che dopo il primo giorno già la facoltà, da quella che era una protesta spontanea, si era riempita di gente esterna che lo chiamava “compagno”, alla quale rispondeva che lui non era compagno di nessuno.

E quindi, anche se venne espulso dalla Cattolica e insieme a Mario Capanna e altri finì in Statale, il suo ’68 attivo finì lì, nel ’67, perché come ha visto che ci stavano mettendo di mezzo la politica a lui non andava più bene. Sono argomenti su cui abbiamo litigato molto. Probabilmente troppo.

Da giovane ha fatto tantissimi lavoretti – i più disparati – durante le vacanze, o poi per contribuire a pagarsi gli studi. Consegnare guide telefoniche e panettoni durante le feste (la sua tecnica prevedeva la mano tesa e la frase “chiedere è lecito, rispondere è cortesia” per farsi dare la mancia), l’assistente da un dentista (dovevano essere anni meno rigidi in quanto a regolamentazione delle figure professionali), ripetizioni ai bambini, e per qualche tempo anche il deejay. Non so bene come e dove, quanti anni avesse, quanto potesse essere una cosa seria, se lo facesse da solo o in coppia, l’unica cosa che mi ricordo è che diceva: “non potevi sbagliare: i pezzi erano tutti di Mogol e Battisti, anche quelli cantati da altri. Presentavi la canzone e dicevi che era di Mogol e Battisti: fatta, eri a posto”.

Un altro per cui aveva comunque sempre una mezza passione era Celentano, forse perché lo vedeva come uno non troppo lontano da lui, anche solo geograficamente: anche lui di Milano, una specie di fratello maggiore cresciuto nello stesso posto negli stessi anni, come Teocoli, Cochi e Renato, Jannacci: gente che gli capitava di incontrare nei bar alla sera. Anche per Celentano però valeva la solita regola: bravissimo quando canta, tremendo appena apre bocca per parlare. “Perché questi siccome sono bravi a fare una cosa poi pensano di essere dei padreterni in generale”, e allora che abbia senso andare in televisione a fare monologhi di politica e tutto il resto.

Una cosa abbastanza impressionante è che la maggior parte delle cose che lo irritavano che ho raccontato fino a qui sono quelle che mi davano fastidio da adolescente, che vedevo piccoloborghesi, reazionarie, qualunquiste, e invece adesso su alcune mi sorprendo a scoprirmi quasi d’accordo – insomma non vorrei assistere a un monologo di Celentano neanche se pagato bene (io).

Un’altra cosa cruciale del suo rapporto con la musica è che a un certo punto, intorno ai 20, riuscì, con uno stratagemma che non ricordo, a entrare in un giro per il quale andava a comprare i 45 giri superscontati destinati ai jukebox e non alla vendita ai privati; lo fece per anni, e me lo raccontò quando ci tornò una volta che io avevo tipo 7 anni (e mi meraviglia che esistesse ancora questo posto), e se ne tornò a casa con decine di 45 giri per me, con robe tipo cantautori scrausi o remix di Molella, tutti in edizione con etichetta bianca riservata ai juke box. Per anni ho giocato a farci gli scratch con un giradischi della Fisher price.

Insomma non era il più grande degli appassionati di musica ma un interesse c’era.

Dopo essersi sposato* la musica si riduce a un disco alla settimana comprato in un negozio di corso Magenta, consigliato dal proprietario del negozio – chiuso da qualche anno ma dove ho fatto in tempo a comprare qualcosa anch’io (mi vengono in mente i Velvet Underground).

Di quel periodo mi restano un sacco di vinili, alcuni interessanti (Battisti – ricordo all’asilo la mia fissazione per Acqua azzura acqua chiara, che mettevo sul piatto anche dieci volte di fila – Battiato, Dalla, Lennon, Creedence, McCartney), e altri meno (Venditti, Baglioni).

Tra i pochi altri supporti fonografici interessanti ereditati, le cassette doppie delle raccolte rossa e blu dei Beatles. Intatte per ere geologiche su una mensola della sala, un giorno me le sono portate in camera e ho cominciato a consumarle, nonostante un lato di una cassetta fosse misteriosamente vuoto.

Comunque sia, tutta roba che stava già in casa da qualche anno, perché dopo la mia nascita praticamente basta, forse perché non era una cosa da adulti, ricordo di averglielo sentito proprio dire “io mi sono perso tutto negli anni ’80: lavoravo, la famiglia, questo e quell’altro. Musica zero, un po’ mi dispiace”.

Avendo poi in quegli anni l’ufficio al piano sotto a quello dove abitavamo non usava l’autoradio, e in casa stava poco anche nel weekend, aveva altri hobby: girare in bici, portare in giro me… e non ricordo di averlo mai visto mettere su un disco.

*l’unico nome che saprei fare riguardo mia mamma e la musica è Gianna Nannini. Lei proprio le piace. Poi c’è una cassetta di Edoardo Bennato che racconta che ascoltava sempre in macchina quando andava a lavorare a Linate, e una serie di singole canzoni che ogni tanto canta o le piace quando passano alla televisione – Scende la pioggia, Bella Belinda. Penso basta. Oggi mi ha detto che le piaceva molto Whitney Houston. Le ho fatto sentire alcuni dischi che ho pubblicato, o dischi di amici, ha dato i suoi pareri ma non si è mostrata mai troppo interessata. Uno dei problemi principali è che tutta ‘sta gente non canta bene. Fine capitolo mamma.

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Negli anni successivi ricordo rarissimi cd comprati (un Mina & Celentano in autogrill un giorno che siamo andati insieme a Gardaland), molta radio (la ascoltava in bagno ogni mattina facendosi la barba, e poi l’autoradio andando al lavoro – nel frattempo avevamo cambiato sia casa che ufficio. Principalmente Radio Due) e soprattutto le audiocassette registrate, da amici o parenti o quasi sempre da me (su sua richiesta), da cd comprati solo per quello, per ascoltarle in autostrada.

Ricordo un live di un Frank Sinatra (“the voice, il migliore di tutti”) già anziano, una compilation di canzoni delle pubblicità (grande moda anni ’90), e una raccolta del primo Gaber (ovviamente, quello delle “canzonette”, perché poi quando diventa “impegnato” ecco che non gli piace più), che odiavo.

E, sa la madonna perché, ma ricordo ancora questa tizia della mia scuola che veniva in montagna nello stesso posto dove eravamo noi – tizia di cui non ho alcuna notizia da quasi vent’anni – che, una volta che ce la stavamo portando in macchina da qualche parte, di fronte al mio odio per questa cassetta di Gaber che trovavo estremamente irritante si guadagna l’amore eterno dei miei genitori dicendo “eh ma rilassati ogni tanto, son belle canzoni allegre, orecchiabili, non è che deve essere tutto sempre come Jovanotti”. Oltre all’odio per il ragionamento da vecchia di questa tizia, la cosa che forse mi ha impressionato di più, e che ancora ricordo, è che probabilmente considerasse Jovanotti come una roba estrema e trasgressiva, ragionamento che anche all’epoca devo avere ritenuto degno forse di mia nonna.

Oltre che di Gaber (che poi ho cominciato ad apprezzare, almeno quello successivo – e perlomeno su questo sono rimasto in disaccordo con mio padre) sono stato un hater assoluto di un’altra sua cassetta: Renzo Arbore e l’Orchestra Italiana, Napoli punto e a capo – va detto che mio padre ha passato tutte le estati della sua infanzia e adolescenza a Pozzuoli, paese di origine di mio nonno.

A 8 anni se volevi uccidermi potevi farmi ascoltare musica napoletana. Ricordo viaggi al suono di Come facette mammeta e cose del genere, con questi arrangiamenti da festa di paese (non credo che all’epoca li codificassi come tali, forse più come “allegria immotivata”) che mi portarono a fare una cosa abbastanza unica e senza precedenti nella mia storia di bambino tutto sommato rispettoso e ben educato: gliela buttai via quella merda di cassetta. Me lo ricordo ancora perfettamente: in quale cestino la buttai e tutto quanto. Quello che ho assolutamente rimosso è cosa è successo dopo, se sono stato scoperto, se ho negato, se sono stato punito. L’unica cosa che ricordo è che sorprendentemente quella cassetta è tornata, diversa, più nuova, di un altro colore. Come se fosse ritornata dall’inferno per punirmi del mio gesto, anche se più probabilmente si era comprato il volume successivo. Ma non ricordo più quel patimento e l’ascolto forzato. Credo abbia fatto una cosa tipo “so che sei stato tu, sappi che non decidi tu, la macchina è mia e se voglio me ne ricompro dieci di cassette, però se educatamente mi fai capire che proprio non ti va, quando siamo insieme ascoltiamo qualcos’altro”. Credo sia andata così.
Con gli anni Renzo Arbore mi è anche diventato abbastanza simpatico (più che per la musica napoletana per altre cose tipo film o spezzoni di vecchi programmi tv), e mi fa piacere pensare che, nonostante il mio irrazionale odio di bambino, una delle ultime volte che mio padre è uscito la sera sia stato per andare a teatro con mia mamma per una serata a cui lo avevano invitato: un concerto di beneficenza di Renzo Arbore e ‘sta cazzo di Orchestra Italiana che tanto gli piaceva. E spero anche che si sia divertito.

Una delle cose che invece associo di più a mio padre in assoluto è una doppia audiocassetta con la colonna sonora di Forrest Gump (un formidabile compendio del rock classico anni ’60) registrata da un nostro parente, colonna sonora fissa di anni e anni di viaggi, stabile numero uno del cassettino della “macchina grossa” – cioè la station wagon che usavamo quando andavamo al lago o in vacanza – traslocata anche per un paio di cambi di macchina nel corso degli anni. Mi fa venire in mente l’inverno, le strade dei paesi intorno al lago, io e lui che andiamo a fare un giro nel pomeriggio, a bere una cioccolata calda, con il fiato che si condensa dalla bocca appena scesi dalla macchina; oppure a comprare qualcosa in paese, a trovare parenti, a fare un giro sul lungolago, o a passeggiare verso la montagna lasciando la macchina al parcheggio della ex-funivia. È musica indissolubilmente legata a noi che parliamo e alle migliaia di chilometri che ho fatto su quel sedile del passeggero, o prima ancora su quelli dietro, a cui mi capita di ripensare anche ora che sono anni che siedo sempre al volante.

– E che quando porto mia madre al lago le faccio subire un po’ di tutto (record di insopportabilità registrato: Sandwell DistrictFabric 69).

Un’altra cosa legata alla musica che ricordo di mio padre è una sua fissazione totale: Happy Xmas (war is over) la mattina di Natale. È l’unico rito di questo genere che avesse che mi venga in mente, non è una cosa usuale, eppure era un classico, sin da quando ero piccolo. Un best of in vinile del quale ho in mente la foto sulla busta interna: Lennon con addosso un paio di occhiali da sole rossi sdraiato a letto con la chitarra elettrica e un pacchetto di Gitanes. Sempre lo stesso disco, quell’epica, anche didascalica, ad accompagnare lo spacchettamento dei regali e tutto il resto. Difficile immaginare qualcosa di più cheesy, infatti da che ricordo è una cosa che ho sempre trovato un po’ ridicola, una fissazione per cui prenderlo un po’ in giro e tutto quanto. Eppure è un ricordo indelebile che resta fra i doni e, contrariamente a ogni aspettativa, da quando non c’è più non è saltato un 25 dicembre senza che uscisse dal mio stereo.

L’ultimo è un ricordo che non c’è, che ho voluto evitare. Mio padre è in un letto, il penultimo, e ormai capisce e non capisce. Lo hanno già fatto cenare, è quasi sera e sto per andare a casa, la televisione è accesa su Rai Uno e c’è uno di quei programmi di spezzoni d’archivio che mandano in estate dopo il telegiornale: sketch, varietà, robe così. Nessuno sta guardandolo ma resta di sottofondo. A un certo punto, con il volume un po’ più alto tipico di quando parte una canzone, riconosco una ballata con un certo pathos, una roba da momento toccante, e sullo schermo si vede Jovanotti che scende le scale di qualche programma e comincia a cantare. Mi rendo conto che se resto lì a sentirla (non mi fa nemmeno schifo) legherò per sempre quella canzone a mio padre, ai giorni più orrendi in cui ormai era abbastanza chiaro come sarebbe andata, che ricorderò per sempre quella canzone come uno degli ultimi momenti con lui, un momento anche sentito – è facile che mi commuova, e tutto il resto. Sarebbe quasi troppo facile lasciare che succeda, ma decido che proprio non mi va e ho la presenza di spirito di cambiare canale.

Forse se fosse stata una canzone di Renzo Arbore questa volta l’avrei anche lasciata.

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Federico Sardo

7 thoughts on “tema: LA MUSICA DI MIO BABBO. Svolgimento:”

  1. Babbo si legge in Pinocchio non perchè arcaico, ma perchè il Carlone nazionale era di Collodi (PT), e in toscana si dice babbo, non papà.

  2. Carlo Collodi era di Collodi? MINDFUCK. mi ha sempre mandato fuori questa cosa casuale che ci sono così tanti scrittori che si chiamano come le città in cui sono nati. anche giovanni pascoli è nato a san mauro pascoli, per dire. se ti chiami come la città in cui nasci è probabile che diventi uno scrittore figo.

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