Shannon Wright @ Bronson, Ravenna (14/02/2014)

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Ho trentasei anni e da circa venti bazzico concerti. Quando avevo diciotto anni stimavo un sacco i ventitreenni che vedevo ai concerti accacì, e guardavo con un moto di sdegno quelli che ne avevano trenta e si guardavano i gruppi seduti ai tavolini dietro con una birra in mano mentre qualche mio coetaneo anoressico saltava sul pubblico. Di stagediving è un pezzo che non ne vedo, e d’altra parte è un pezzo che non vedo diciassettenni a un concerto. Ok, non è che mi presento spesso a vedere gruppi crust; in effetti non so nemmeno più dove suonano, se certi posti sono ancora aperti o hanno chiuso nel 2008 e via di questo passo; in un caso o nell’altro l’angoscia sfogata in una buona metà dei pezzi di Shannon Wright è un’angoscia post-adolescenziale, da ventenne, forse venticinquenne, di una persona che non è in pace col mondo e cerca un ultimo confronto o almeno un ultimo abbraccio. E i venti-venticinquenni presenti stasera a Ravenna sono pochini; approssimando un pochetto credo si possa dire che la persona più giovane dentro il locale stasera sia il batterista del gruppo principale. Il problema è che non è una cosa legata all’artista in cartellone, ma a quasi tutta la programmazione di area indie-post-folk-etcetera. Ci sono le feste in discoteca per gli over-35, la gente che non va più in pensione e i concerti strapieni di ultratrentenni, presenti inclusi, che stanno più o meno nello stesso angolo in cui stavano allora, con lo stesso superalcolico in mano e gli stessi vestiti addosso. Se non li sentissi parlare sembrerebbe il museo delle cere. (Bertrand Russell)

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A Shannon Wright non potrebbe fregare di meno se davanti al palco s’affollano quindicenni o quarantenni: spara un pezzo dietro l’altro con una botta che sul palco sembrano in sedici (sono in due, il batterista-ragazzino è il figlio di Agostino Tilotta). Di una come lei si può dir tutto meno che si sia risparmiata: una decina di dischi lunghi senza un calo, una collaborazione prestigiosa con Tiersen ed è ancora a contorcersi sul palco a quarant’anni come se il giorno dopo non dovesse alzarsi dal letto. Non guarda mai il pubblico, o se lo guarda non si vede (una frangia orribile copre tutto il viso a parte quelle labbra enormi stracariche di rossetto). Non dice una parola tra un pezzo e l’altro. Dopo un’ora-e-qualcosa che sembra un minuto-e-qualcosa ringrazia timidamente e saluta, torna indietro per un paio di bis da sola al pianoforte e se ne va a dormire. Al banchetto ci sono tutti i dischi che mi mancano, ed è bello avere trent’anni e passa se puoi permetterti di spendere quaranta euro in dischi della stessa artista. La gente compra soprattutto il disco con Tiersen. S’è fatta l’una di notte, saluto gli ultimi amici, domani si lavora e sembreremo tutti degli zombi. A nessuno fregherà un cazzo di sentire la nostra solita storia sull’ennesimo concerto della vita. Per certi versi sembriamo degli zombi già dentro al posto. 

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