Le palle (parte 1)

(non è proprio un pezzo, sono gli appunti per un pezzo che è del tutto probabile non scriverò)

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Esce l’11 marzo, per Universal Music, l’edizione speciale di “Hai Paura del Buio?”, album storico degli Afterhours, pubblicato nel 1997, e definito dalla critica musicale come miglior disco della musica indipendente italiana degli ultimi vent’anni. Ora vedete, io non è che odi Hai paura del Buio?, è un buon disco, non “il miglior disco della musica indipendente italiana degli ultimi vent’anni” (forse entra nei primi cinquanta), ma diciamo che ai tempi sembrava una roba molto onesta. Il che non vuol dire che non stiamo parlando di un’operazione incredibile. Manco sei mesi fa Manuel Agnelli e XL mettevano insieme una chiamata alle armi per un festival di nome Hai paura del buio?, allo scopo di risvegliare una cultura italiana in crisi (poi ci sono state smentite e simili: a tutt’oggi, dopo un numero quasi-monografico di XL, non sappiamo chi intendesse cosa). Oggi XL in edicola non esce più e Manuel Agnelli si accinge a rimettere sul mercato il suo disco più celebre, con un bonus-disc in cui il disco viene risuonato con ospiti a vario titolo inclusi. E poi ci beccheremo un tour performing Hai paura del buio? in its entirety, il tutto in nome della rinascita culturale o del fatto che bisogna farlo oggi che se aspettiamo il ventennale capace che i dischi fisici non escono più (e OK, da quando s’è saputo sono in molti a non vedere l’ora di sentir Piero Pelù cantare MALE DI MIELEAH, ma forse non per i motivi che crede Agnelli).

Stefano Isidoro Bianchi nel frattempo esce a gamba tesa sul nuovo disco delLe Luci della Centrale Elettrica, auspicando la reisituzione del servizio militare e suggerendo l’ascolto coatto di Scum per rimediare a una situazione di indecenza (non c’entra, ma prima o poi era pure logico che avremmo sentito parlare della necessità di un ritorno alla purezza grindcore su una rivista storicamente ostile al genere come Blow Up). Segue flame tra addetti ai lavori: gli argomenti sono il tono aggressivo della recensione,  l’espressione “quattro calci in culo” (è una metafora della stroncatura, eddai), il fatto che Brondi sia bravo o meno, il fatto che Blow Up abbia o meno il diritto di usare certi toni su Brondi in particolare.

(quando dico addetti ai lavori non intendo chi lo fa per lavoro: perlopiù parlo di gente come me, cioè persone con una vita e un lavoro qualunque che hanno trovato una scusa decente tipo IL SITO o LA RIVISTA o L’ETICHETTA per continuare a interessarsi a roba a cui un trentacinquenne non dovrebbe prestare attenzione)

 

Si tratta di uno dei tanti regolamenti di conti che stanno avendo luogo in questi giorni. Per la prima volta da non ricordo manco più io quando, sembra essersi formato un consenso contrario al Nuovo Cantautorato Italiano, o almeno a certi nomi di punta, che per la prima volta da anni coinvolge gente che scrive nelle riviste. Su RollingStone, in una recensione tripla dei nuovi Dente/Brunori/LLDCE, Paolo Madeddu si ricollega per parte alla discussione di questa estate tra nuovi rapper e nuovi cantautori, rilevando che tutto sommato i tre dischi in oggetti sono ben lontani dal graffiare quanto certi rapper o certi altri fenomeni indie contemporanei. E abbiamo già citato la tirata di Birsa su Noisey ai tempi del video di Brunori SAS.

Parlando da una prospettiva propriamente linguistica, forse non c’è nemmeno un discorso. Nel senso che si parla di “cantautore” nel momento in cui uno canta i testi e la musica che si scrive lui, e questa cosa ci porta a considerare nel discorso persone che allungherebbero il brodo e/o relegherebbero gente come Dente e Brunori e Brondi a residuati bellici fuori tempo massimo di uno snodo culturale sicuramente importante ma diocristo MORTO E SEPOLTO, che ci ha lasciato sicuramente tanta bellezza ma anche la statua di cera di Ron in gara all’ultimo Festival. La prospettiva linguistica, in linea di principio, è importantissima. All’atto pratico invece non lo è quasi mai, almeno negli ultimi anni: tutto il tempo passato dal disco d’esordio degli Strokes ad oggi l’abbiamo trascorso in una nuvola di fumo critica del famo a capisse  ad ogni costo, secondo cui sappiamo di ciò che parliamo e non c’è bisogno di rompere troppo i coglioni. È facile anche dire il perché, ha a che fare con il culo pesante di chi scrive e con il fatto che le note al testo vengono skippate da quasi tutti quelli che leggono, e quindi tanto vale non scriverle. Ma guardandoci indietro è abbastanza evidente che la maggior parte del tempo l’abbiamo passata a fare discorsi idioti e senza senso.

Indietro veloce (sembrano duemila anni fa): lo stesso Blow Up, ai tempi senza dubbio la più autorevole rivista italiana di musica, metteva Vasco Brondi in copertina all’uscita del disco d’esordio. Una cosa che per un gruppo italiano sconosciuto non mi pare fosse mai successa in precedenza (a parte coi Bachi da Pietra, che ci entrarono in buona parte sull’onda delle esperienze precedenti dei componenti del gruppo), e che diede una spinta fondamentale alla carriera delLe Luci della Centrale Elettrica (che di lì a poco si mise a volare). Il disco usciva per La Tempesta con copertina di Gipi, La Tempesta era un’etichetta, Gipi era un fumettista.

 

Oggi Gipi è Gipi e La Tempesta è una sorta di sinistro monito della musica italiana, quella che pubblica Zen Circus e Teatro degli Orrori (con Brondi hanno in comune il fatto di non essermi stati sgradevoli a un certo punto della carriera). Le Luci della Centrale Elettrica ha raccolto moltissimi fan tra il primo e il secondo disco, nel periodo in cui ha perso la maggior parte dei fan che aveva prima che il primo disco uscisse, il tutto senza cambiare di un grammo la sua roba (forse il secondo disco era un po’ meno ispirato). È stato troppo esposto al sole ed ha bruciato la propria street cred (ci ha guadagnato di fare della musica il suo lavoro).

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Bianchi scrive che la generazione di cantautori attuali “se ne sta appollaiata sulla pelle dei padri dimenticandosi le palle con la scusa di non averle ricevute in sorte (è una scusa, niente scuse)”. I padri sono i cantautori italiani degli anni settanta, una razza glorificata da riviste tipo Blow Up (il meritorio lavoro di riscoperta di Christian Zingales su Italiani Brava Gente), e probabilmente ancor oggi uno dei più fastidiosi colli di bottiglia a cui la nostra cultura musicale deve far fronte. Al di là di quanto il cantautorato italiano abbia tenuto in ostaggio la nostra cultura musicale, non credo sia compito di un cinquantenne dire a te che non hai le palle (a maggior ragione un cinquantenne che fa uscire una rivista come Blow Up, a maggior ragione un cinquantenne che fa uscire una rivista come l’attuale Blow Up). D’altra parte non sono convinto che Brondi abbia meno palle di Piero Ciampi (a meno che per palle non si intenda morire poveri), anche se riconosco alla frase un certo effetto e alla musica di Piero Ciampi di essere stata molto migliore di quella di chiunque altro. E c’è un discorso anti-paternalismo che prima o poi dobbiamo iniziare a fare noi trentenni ai cinquantenni, intendo: sono stati LORO a tagliarci via le palle, l’han fatto per egoismo e continuare a fare i fighi e ora ci accusano pure di non averle, appena prima magari di iniziare qualche discorso sugli hater (perché critichi Blow Up? A che mulino porti acqua?). Non sembrava esserci tale e tanto livore quando, nell’articolo-copertina di Blow Up su Le Luci della Centrale Elettrica, Veronese scriveva di una penna come ne nascono ogni dieci anni.

Faccio fatica a separare questa retorica (retorica nel senso di retorica, non di “discorsi già sentiti”) anni settanta da quella imposta da Agnelli e compagnia nella riedizione del loro disco migliore, che ha lo stesso nome del festival di rinascita culturale da loro organizzato e a cui partecipa ovviamente anche Vasco Brondi in quota special guest. In parte perché la buona fede di Agnelli e di Stefano Isidoro Bianchi è piuttosto evidente, in parte perché si basa sullo stesso tipo di verità accettata ex-ante (che i cantautori italiani anni settanta avessero LE PALLE o che Hai Paura del Buio? sia stato il più grande disco indie italiano degli ultimi vent’anni), la quale non viene questionata perché questionarla è noioso e non serve a nessuno (è probabile che vi siate fatti in testa un elenco di dischi indie italiani più buoni di HPDB usciti nell’ultimo ventennio, giusto?).

Non che sia il bene contro il male. Non ho sentito il nuovo disco di Brondi (mi riservo di farlo) ma il primo estratto è davvero piuttosto penoso; la sua reputazione in generale è molto superiore ai meriti effettivi. La musica di Dente e Brunori SAS o Maria Antonietta o Zen Circus o Nobraino e centinaia di altri nomi può senz’altro piacere a qualcuno, ma il fatto che muova così tante persone e così tante penne intorno agli stessi triti concetti del cazzo da cui già negli anni novanta cercavamo di fuggire a gambe levate (retorica da ex-punk, a-politica del disincanto, poesia degli ultimi etc), ecco, a me sembra l’ennesimo revival o una barzelletta tirata troppo per le lunghe o una sconfitta culturale. Semmai quello che fa strano è iniziare a legger critiche nelle stesse riviste che questa roba l’hanno promossa fino a ieri, a fronte di dischi che tutto sommato sono uguali (e ugualmente ispirati) a quelli che i musicisti in questione hanno sempre realizzato. Fa uno strano effetto. Allora un discorso più sensato potrebbe essere quello di ammettere che Brondi non si è mai svenduto al miglior offerente e non ha trasformato il suo prodotto in brodaglia; e che invece di accusarlo di non essersi rinnovato (ma dai) o di abbeverarsi ad un immaginario adolescenziale scadente (e ieri?), magari ci tocca accettare che la musica di Le Luci della Centrale Elettrica (o che so, degli Afterhours) aveva la data di scadenza corta e noi a sentirla la prima volta pensavamo di no.

17 thoughts on “Le palle (parte 1)”

  1. complimenti. tutto giusto e tutto detto nel modo migliore possibile.

    la questione del paternalismo poi mi sta particolarmente a cuore e sono felice di non essere il solo (tu l’hai messa giù bene, io schiumo e sbraito come il peggior – o miglior – jacob bannon).

    proprio l’altro giorno pensavo al fatto che non riesco più ad ascoltare LLDCE, ma a differenza di Afterhours e Teatro degli orrori (parimenti ormai inascoltabili per me) brondi ha avuto il buon gusto di non diventare un saccentone spaccacazzo che va in giro a glorificarsi e a spiegare a tutti come funziona il mondo, cosa in cui capovilla e agnelli sono diventati espertissimi, quasi quanto rosicare quando qualcuno parla male di loro.

    comunque son contento di una cosa: se penso ai dischi italiani più belli degli ultimi 20 anni sono quasi tutti dell’ultimo periodo, tranne pochi classiconi della mia gioventù, il che mi fa sentire orgogliosamente diverso rispetto all’adulto medio che si piange addosso e sbatte i piedini convinto di essere la nuova meglio gioventù alla faccia degli sbarbini odierni.

    per dire, dancing judas dei fuh è un disco che negli anni 90 mi avrebbe mandato in paranoia a forza di girare la cassetta con la bic ed è uscito, per me, fuori tempo-adolescenza-massimo e dà la merda a hai paura del buio per potenza, chitarre nei denti e intelligenza.

    poi basta, che sto esagerando.

  2. Chiedo venia, ma tra “Madeddu ritira fuori lo scontro di quest’estate” e “i tre dischi in questione sono ben lontani dal graffiare” c’è una certa distanza, se l’hai interpretati come premessa e chiusa del pezzo evidentemente mi sono spiegato male (oppure tu hai la pigrizia e un piegamento del discorso altrui ai propri fini che nemmeno un blogger del Fatto Quotidiano, ma ti voglio bene e cercherò di deglutire la prima ipotesi).
    La gherminella sulla “canzone d’autore” era inserita in parte per dileggio di quel tristo opinionismo musicale che io ho chiamato in causa nel pezzo – non disponendo come Bastonate di uno spazio di circa 95mila battute per articolo, ma dovendo stare in 2000 caratteri, ho dovuto solo evocarlo. Ma è evidente che un rapper E’ un cantautore. Il giudizio finale poi non sottintende nessuna inferiorità di un “movimento” cantautorale: i nomi chiamati in causa a paragone sono Baustelle (indie??), Cani e Zen Circus. Che volendo sono tre cantautori travestiti da gruppo, ma nuotano nello stesso laghetto dei tre recensiti. Quindi, non infilarmi nella tua tesi, o vengo lì a infilarti in una teiera.
    Tanto ti dovevo.

  3. gentile The Maded,

    approfitterò del fatto di possedere il Suo indirizzo di posta elettronica per discuterne amabilmente in privato.

  4. The Maded sinceramente non ho capito granché della tua risposta. in generale dico. mi sento comunque in dovere di informarti che un rapper non è necessariamente un cantautore, anzi, difficilmente rientra in questa categoria.

  5. “…ma il fatto che muova così tante persone e così tante penne intorno agli stessi triti concetti del cazzo da cui già negli anni novanta cercavamo di fuggire a gambe levate…”

    Va bene per le penne, ma davvero questi musicisti spostano così tante persone? A parte i Baustelle – che a me, al di là della maggiore cura negli arrangiamenti e nella produzione, suonano vecchi e inutili tanto quanto i Brunori e co. – mi sembra che nessuno di questi neo cantautori sposti molte persone, molte opinioni, molti soldi. Qualcuno riesce a camparci, ok. Buon per loro. Qualche critico pop col miraggio dei begli anni in cui la musica in italia aveva altri numeri e scriverne portava ben altre gratificazioni, ogni tanto parte per la tangente con il fenomeno di turno, che poco dopo massacrerà per nascondere – anche a se stesso – la propria miopia.
    Insomma, non parlerei di sconfitta culturale. Al massimo è una sconfitta di chi la cultura vorrebbe raccontarla, o meglio qualificarla, e nel farlo si perde un bel pezzo di mondo.

  6. in generale probabilmente no, cioè non ne muovono quanto mengoni e nemmeno quanto guccini negli anni settanta. però i dente e i brunori riempiono i posti dove suonano e le pagine dei giornali e in certi casi entrano pure nelle classifiche di vendita (tra l’altro non so nemmeno, intendo: ai banchetti di Mengoni si vendono credo molti meno dischi che ai banchetti di Brunori, giusto? e i banchetti come fai a considerarli nelle classifiche di vendita; per gruppi tipo i Cani dev’essere una voce pesante nel conto dei dischi). secondo me se li paragoni a qualsiasi altra cosa “alt” esca oggi in italia, a parte forse rap e dance, diventano fatturati più grossi, concerti più pieni e recensioni più scritte.

  7. Eh, ma il problema credo proprio che sia, più in generale, una scena “alt” italiana indegna. E non mi riferisco alla qualità, ma allo scarso interesse che suscita.
    Poi che questi riempiano i locali e vendano i cd a fine concerto, Ok. Ci tirano a campare e va benissimo così. Rimangono fenomeni di nicchia in un sistema in cui l’artista che fa i soldoni non c’è più o comunque passa da altri canali (talent).
    Un argomento interessante a mio avviso è: quanti di questi cantautori hanno capito e metabolizzato che le cose sono diverse? quanti di loro sono cresciuti col mito del passato, del successo e dei riconoscimenti, e non riescono a venire a patti con una realtà del tutto cambiata?

  8. fenomeni di nicchia, boh, anche sì. questo pezzo parla (per gran parte) di come le riviste trattano quelli che escono dai talent; per la maggior parte non ne trattano, perchè molti di quelli che escono dai talent non hanno una dimensione artistica di cui si può parlare. la maggioranza non ha nemmeno un grafico che gli fa la copertina. dal punto di vista della dialettica musica/stampa musicale è molto più interessante Brondi di Violetta e dei Father Murphy, ecco (sui father murphy sono tutti, giustamente, d’accordo).

  9. E mentre si discute di gente già cotta dal primo disco, ci sono in giro Autori come Rancore, che con i suoi testi caga in testa (pardon il gioco di parole) alle mummie viventi del “nuovo cantautorato italiano”.

  10. Molto più interessante di Violetta, dei Father Murphy, pure di Mengoni, lo concedo. Ma comunque non granchè interessante.
    (Il cortocircuito evidente è che sono qui a commentare il tuo testo con interesse. Merito del testo.)
    Voglio dire, a me pare assolutamente normale che la maggior parte delle persone non conosca i vari Brunori, Di Martino, Dente, perchè sono con due piedi nel passato. E mi sembra che a volte ci sia anche del talento, soffocato da quintalate di retorica e camicie discutibili. E penso che questa in qualche modo sia la responsabilità dei musicisti: alcuni di loro potrebbero essere molto più interessanti.

  11. a me l’articolo piace molto, e lo trovo molto centrato.

    la cosa che a mio parere non però si deve, nè si può, sottovalutare è che alcuni di questi artisti hanno “creato” un pubblico che prima non c’era.

    ai loro concerti va gente che presumibilmente va solo ai loro concerti o – penso al caso degli artisti de La Tempesta – magari ai concerti dei compagni di scuderia. e basta.

    e di gente ce ne va parecchia.

    artisticamente, per rimanere in ambito artisti-Tempesta, si può e si deve pensare quello che si vuole, ma non si può non vedere che ormai i numeri del pubblico pagante live in Italia li fanno loro e pochi altri. che i loro festival/happening sono fra le poche cose italiane che ricordano una “cosa” internazionale, come senso di comunità, e pure come numeri.

    magari è gente che a casa non ha neppure i dischi (ok, cd, ok mp3, quel che è) degli Afterhours (che per la verità non ho neppure io, e che un giorno qualcuno dovrebbe spiegarmi perchè davvero dovrei avere – e qui mi ricollego alla chiosa finale del pezzo che stiamo commentando).

    è un pubblico molto giovane che ha trovato nomi “loro” e non delle generazioni passate su cui catalizzare un interesse.

    a me – sia chiaro – in larga misura è musica che non solo non piace, ma persino offende nel suo offrire slogan da diario ad alta digeribilità e ad alto spettro di utilizzabilità mascherati da poesia o da musica d’autore. ma io ho più di 40 anni. il loro pubblico, la metà di me.

    però è una cosa che esiste. è un paese reale. non “IL”, che IL non esiste più.
    ma UN paesereale, che se si parla di musica e costume non si può ignorare. sforzandosi magari di non usare modelli critici che andavano bene per musiche nate con tutt’altri presupposti. e ambizioni.

  12. “ai loro concerti va gente che presumibilmente va solo ai loro concerti o – penso al caso degli artisti de La Tempesta – magari ai concerti dei compagni di scuderia. e basta.”

    Ecco questa secondo me, perdona la franchezza e la profondità di analisi, è una merda. È sintomo di immaturità musicale, e anche colpa degli artisti stessi in un certo senso, che ostacolano o di certo non incoraggiano una ricerca musicale e un tentativo di emulazione. Da musica per la musica a musica per niente.
    è gente che al banchetto fra la maglietta/sportina e il disco sceglierà sempre di spendere i 10 euro nella prima.

  13. boh io su queste cose non ho niente, in senso specifico: per prima cosa la maglietta non te la puoi scaricare e i soldi che vanno al gruppo sono più o meno gli stessi, quindi STO CAZZO, proprio. eticamente mi sembra molto migliore comprare la maglietta al banchetto e scaricare il disco che comprare il disco -boh- su amazon.

    per quanto riguarda il resto, c’è sempre una fetta di pubblico che si muove per certa musica e non per altra, anche all’interno dello stesso genere (tipo: fai una serata breakcore fuori dal giro dei posti e ti trovi sei stronzi nel posto, butti dentro un nome di grido e ne fai quattromila la sera dopo). da questo punto di vista non credo abbia molto senso star qui a giudicare la curiosità o meno di un pubblico che è comunque non-curioso. diciamo che secondo me è più un problema critico, e a traino un problema di pubblico.

  14. In ogni caso la questione è e rimane la qualità della musica. Mettetevi in cuffia Costellazioni e ascoltate. La sua urgenza espressiva fa a pugni con la musica, perché la musica in molti pezzi c’è. Ma il modo in cui canta?!!? non esiste. Ha fatto un disco e parliamo delle canzoni. Canta male e un testo cantato in Costellazioni, nella maggiore parte delle volte si può appoggiare sul un altro brano musicale, il risultato non cambia. Scrive testi belli?! Interessanti?! Ha uno stile personale di scrittura?!? Sicuramente lo è! E allora che faccia lo scrittore, ma non il cantante di canzoni. Possiede tutto il diritto di mettere i suoi testi in musica quindi che faccia come I Massimo Volume. Gli Offlaga Disco Pax e i non pervenuti Proffessor Romei. Se parliamo di musica. Bene questo disco è una ciofega!

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