Quella cosa che nei duemila chiamavamo punk-funk io pensavo che fosse una cosa diversa, per via di un articolo di (credo) Rockerilla nei primi anni novanta che parlava di punk-funk in merito a Primus e gruppi simili. Prima che potessi esprimere il mio dissenso, in ogni caso, il punk-funk era dappertutto, e la principale ragione erano i The Rapture.
(nota a margine: mi sto imbarcando in un progetto che ha a che fare con le definizioni di termini che usiamo correntemente; finchè non l’avrò terminato, parlerò di cose tipo “funk”, “punk”, “disco” e “indie” in modalità famo a capisse)
Si formano alla fine degli anni novanta a New York, in un giro di etichette e gruppi che operano al confine tra certo accacì minoritario che funzionava molto negli anni novanta e quello che sarebbe diventato il postpunk americano negli anni duemila (in momenti diversi Ebullition, Gravity, Three One G, 5RC, Dim Mak e qualche altra dozzia). Roba che in linea di principio partiva da certo emo, contrapponendosi anche brutalmente alla roba più muscolare che impazzava in quegli anni; e poi iniziò ad abbassare un po’ i volumi e si ritrovò stregata da casse dritte, linee vocali eccitate, fughe quasi-jazz e via di questo passo.
(con tutte le storie del rock e dell’indie che ciclicamente vengono scritte e riscritte, questo network ha determinato la maggior parte della musica che ha più funzionato negli anni duemila, operando alla luce del sole e con legami ben chiari tra i vari nomi coinvolti, e non credo sia mai uscita un’opera monografica decente)
(se sì, qualcuno mi dia i riferimenti)
(se no, qualcuno la scriva)

The Rapture si muovono da subito con un bel successo underground. La roba che fanno è ancora incasellabile da qualche parte tra (post) punk e indie rock tradizionale, ha impulsi disco già evidenti nel primo EP (su Gravity) ma non sembra destinata a cambiare la musica. Nel 2001 The Rapture hanno abbastanza seguito da meritare un altro mini su Sub Pop, che si chiama Out of the Races and Onto the Tracks. Di per sé è già quasi una prova: la traccia omonima d’apertura è il primo singolone del gruppo, fa in fretta ad uscire dal giro punk rock e andare a finire un po’ dappertutto, un po’ trainata da quell’aria di ritorno del rock’n’roll che si respirava dagli Strokes in poi. Nel 2001 inizia ad operare anche DFA, etichetta/team produttivo messo insieme da James Murphy (l’altro) e Tim Goldsworthy: una storia a parte, ugualmente influente, il punto d’arrivo di tutte le tendenze cripto-dance del punk di fine anni novanta, pesantemente influenzata dalla New York di Liquid Liquid, Konk e simili ma per nulla revivalista nella sua volontà di invadere militarmente i club. Dall’incontro tra DFA e The Rapture viene fuori immediatamente uno dei classici indiscutibili degli anni duemila, una canzone intitolata House of Jealous Lovers: i PIL del secondo disco, chitarre appuntite e basso pulsante su una cassa a quattro quarti, le tipiche parti vocali rubate a Robert Smith. Non è decisamente una rivoluzione, e di sicuro non è il primo esperimento in tal senso, nemmeno in questi anni, ma ne diventa un po’ l’inno. Tempo qualche mese e il primo disco lungo dei Rapture, intitolato Echoes, diventa un po’ lo spartiacque di tutto. Rispetto ai dischi su Gravity e Sub Pop il gruppo sembra leggermente più stanco ed ingabbiato, a dire il vero: rimangono perle assolute tipo Sister Saviour e la title-track, la revisione di Olio in chiave DFA. È il 2003 e l’espressione “punk-funk” diventa un mantra. La dialettica del “punk-funk” è abbastanza simile a quella dell’ibridazione rock/dance degli anni novanta, fondata su basi storiche un po’ più solide e gestita sulla stessa chiave di semplificazione un po’ white trash secondo la quale la ricerca delle origini di certi groove è cosa buona e giusta ma non è che abbiamo tutto questo tempo da perdere e quindi, insomma, benvenuti i bignamini.
Comprando The Rapture ti ritrovi in allegato un mondo intero, più o meno da subito. I cloni degli Stones iniziano a tornare un po’ nell’ombra e si inizia a parlare correntemente di punk-funk. The Rapture hanno almeno un’altra grande assonanza, con l’ultimo disco degli At The Drive-In, di cui non si parla quasi mai ma che aiuta molto a contestualizzare nel qui ed ora la loro musica. Il punto è il cono di luce puntato sui Rapture illumina anche una scena che era pronta prima che The Rapture si formassero, e dopo qualche mese realtà tipo !!!, Erase Errata, Liars e simili stanno già spostando folle ragguardevoli. La persona che raccoglierà i maggiori frutti è probabilmente James Murphy, in parte con DFA in parte con il progetto LCD Soundsystem.
All’inizio del 2004 esce il primo disco degli inglesi Franz Ferdinand, che diventa una specie di mania. L’anno successivo un’etichetta di nome Dim Mak, di proprietà di un ex This Machine Kills, arriva al successo planetario con un gruppo di nome Bloc Party. È più o meno in questo periodo che la parola “indie” smette di identificare la musica indipendente e inizia a identificare certa roba un po’ a casaccio che si balla nei club alternativi, cloni dei Rapture accanto a gruppi twee-pop e certe declinazioni a metà tipo Modest Mouse. Poco importa quali fossero le origini di questo genere e quale sia la vostra definizione di “punk”: nel 2006 la musica di cui parliamo è diventata la roba più fascista e normativa in circolazione, cosa che nel momento in cui esce il secondo disco lungo dei Rapture si ritorce contro il gruppo come un boomerang, facendo del gruppo newyorkese la prima vittima illustre del riflusso post-cassa.
E sì che Pieces of the People We Love è due spanne sopra qualsiasi patetico tentativo d’imitazione: dance-punk osservante, che spinge sul soul e sulla disco, le cui uniche colpe sono l’estrema onestà della musica e il fatto di non indicare possibili scenari futuri per il genere. Va a finire che mentre continuano ad uscire su base settimanale gruppacci del cazzo e cloni dei cloni (tipo Test Icicles, Black Wire e roba così), The Rapture finiscono contro il muro, per parte stroncati e per parte gettati nel dimenticatoio come quei gruppi di cui nessuno sa bene cosa farsi. Cose che capitano. Il gruppo attraversa la prima fase di crisi, con il cantante Luke Jenner che esce per qualche tempo dalla formazione; la musica inizia a passare oltre il punk-funk, senza avere bene in testa quale possa essere l’alternativa: i maggiori risultati vengono conseguiti da chi abbandona la band e completa il percorso verso l’elettronica (l’evoluzione da Death From Above 1979 a MSTRKRFT, tanto per dire), molti degli altri si limitano a registrare le tendenze globali e si comprano dieci pedali da attaccare alla chitarra (dai Gang of Four ai J&MC non c’è poi molta strada). Segue un periodo di stordimento collettivo da eccesso di feedback.
Per un gruppo come The Rapture c’è poco altro da celebrare: fuori dal mercato per cinque anni interminabili, durante i quali la parola indie smette di avere il significato di cui sopra e ridiventa un modo di descrivere quel che c’era prima che tutto questo diventasse fashionable (assumendo spesso, ammettiamolo, i toni grotteschi di una cena coi compagni di liceo). Musicalmente parlando il gruppo è condannato all’oblio: il mondo del pop è in altre faccende affaccendato. Forse rimane la speranza di infilare un singolino in qualche serie TV giovanilista, ma anche realizzando il miglior disco della sua carriera il gruppo è destinato a scomparire dal radar. Il gruppo se ne frega e lo realizza, il miglior disco della sua carriera.
che tristezza se si parla di indie italiano tutti ad ammazzarsi per un pò di visibilità e quando c’è un grandissimo articolo e una bella storia come in questo caso nessuno commenta….
non credo che la gente commenti i pezzi di bastonate sull’indie italiano per avere visibilità… 🙂
Ehi cmq io ricordo ancora la recensione di Echoes su Metalwillneverdie.net, era in lista fra i migliori dischi del 2003, se non erro. La scrivesti proprio tu, se non erro.
1. Erro?
2. Si può reperire da qualche parte e/o ripostarla in ottica celebrativa?
(spero di aver guadagnato della visibilità)
io scrissi bene del disco, matteo ne scrisse malissimo.