
Carlo Pastore lo scrisse nel 2008:
“lavorare a Mtv, sfruttare il mio talento, prendere i soldi nell’unico posto in cui ci sono, poi fare cose gratis per chi se lo merita e chi non ne ha spazio, per Rockit, la mia famiglia, crescere individualmente e contemporaneamente condividere esperienze, know how, passioni, vita.”
o anche
“c’è bisogno di ripartire dal basso, di rimettere in moto le cellule cerebrali, di iniettare il formicolio negli arti addormentati, di infiltrarsi nei posti chiave e di creare interferenze, di non avere paura, di generare entusiasmo e di viverlo, di dire basta agli snobismi intellettualoidi e a quelli che fanno gli artisti senza averne l’arte, di dare spazio alla gente vera con le sua magnifica vitalità così stuprata.”
Credo sia un buon punto di partenza, l’inizio possibile di un nuovo modo di pensare la musica, nel quale L’ARTE viene prima di tutto il resto. Una volta sarebbe stato un problema di moralità, oggi anche sticazzi. Domande progressive sul tema: andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival con altri gruppi? Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival organizzato da un magnate indiano di cui non sapete nulla? Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival organizzato da un magnate italiano di cui sapete per certo essere una testa di cazzo? Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival sponsorizzato da una multinazionale che sfrutta manodopera minorile nel terzo mondo? Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival senza sponsor con il biglietto a 90 euro invece che 50?
Ricomincio da capo. Ormai è assodato che -accontentandosi- l’esperienza musicale possa essere ormai consumata a costo zero o quasi: concerti gratis organizzati dagli enti, canzoni alla radio, streaming legali e tutto il resto. Il motivo per cui paghiamo la musica è legato il più delle volte a dei plus che ci interessano: vedere quel gruppo specifico, possedere quell’oggetto specifico, eccetera. A volte (spesso) sono dei plus irragionevoli: molte volte compro un disco o una t-shirt per sentire di aver contribuito al sostentamento del gruppo. Il problema è che è un atteggiamento da padreterni del cazzo, e nella nostra epoca non c’è niente di peggio che sembrare una persona pesante. La maggior parte delle operazioni di successo legate al mercato musicale era legata all’idea di aggiungere delle performance della musica (poter scegliere quale musica, poter scegliere quando ascoltarla, eccetera) legate allo stesso costo finale (zero).

Quando compriamo musica siamo abituati a non pensare troppo a chi vanno i nostri soldi. Ragioniamo per compartimenti stagni cognitivi legati a certe prassi che si sono sedimentate nel tempo e non discutiamo, tipo “un CD deve costare tot euro al massimo”. Ultimamente ho dato un bel calo al mio budget per la musica: le solite scuse del 35enne, vita che va avanti, soldi da destinare altrove eccetera. Un ragionamento possibile, in situazioni come la mia, è quello di comprare lo stesso numero di dischi a meno soldi (oggi è possibile): distribuzioni online, offerte eccetera. Io compro meno dischi allo stesso prezzo e gli altri li rubo (oggi è possibile). Il mio ragionamento è questo: se compro un disco al negozio, la cifra (di cui tutti dicono esorbitante) che ho speso se la dividono il gruppo, l’etichetta, il distributore e il negoziante. Tutta gente con cui non ho problemi. Se vado a vedere un concerto in un locale nella mia città, il grano se lo dividono il gruppo e il padrone del locale. Tutta gente con cui non ho problemi.
Detesto la birra Heineken. Non sono proprio motivi etici, ma una volta mi sono fatto un ragionamento in testa: di base i piani di marketing di una multinazionale della birra sono volti a creare un pubblico di consumatori assidui, cioè di base un pubblico di alcolizzati. Cioè a creare una dipendenza che a molti rovinerà la vita, e tirare su una quantità di soldi che per ogni alcolizzato è più o meno ridicola. Giusto? Bevendo cinque Moretti al giorno per una decina di anni a un euro e venti la bottiglia (poniamo) spendi circa 22mila euro; di questi togli la metà circa tra imposte e margini del rivenditore e sei a 11mila euro. Togli i costi di produzione, il marketing e le eventuali spese legate a tutti gli intermediari, secondo me viene fuori un quarto del guadagno (3mila euro scarsi). Un altro conto: poniamo che l’utile netto di Heineken sia di circa dieci centesimi a bottiglia, che mi pare ragionevole: dieci anni con cinque bottiglie al giorno fruttano alla compagnia 1825 euro. In pratica se conoscessimo per certo il nostro futuro potremmo versare due-massimo-tre stipendi a un’associazione di multinazionali della birra perché smettano di produrla: loro chiuderebbero l’anno con lo stesso margine, io camperei una decina d’anni in più e ci guadagnerei pure i soldi per comprare qualcosa di altrettanto utile al mio sostentamento, tipo un Nissan Qashqai bianco metallizzato. Nonostante detesti le multinazionali della birra per il fatto di marginare troppo poco dalla distruzione del mio fegato, non ho mai avuto problemi ad andare ad un festival di musica da loro organizzato. Ho molti più problemi con il festival di musica in sé: gruppi del cazzo, niente ombra, niente civiltà, cessi chimici, il 99% del pubblico puzza di sudore e il 47% di questi non hanno comunque problemi a starsene a petto nudo. Sarei disposto a pagare 50 euro in più se mi promettessero ombra e un servizio di security che pesti a sangue quelli che si mettono a torso nudo e rovesciano birra per terra (che poi diocristo PUZZA, bevetevi la birra che avete pagato), ma tutto sommato non ho problemi a entrare con uno sconto di 50 euro accettando di vedere quel marchio ovunque.
In questo periodo escono sempre fuori le polemiche sui festival estivi. Il canovaccio di base su cui si srotolano mostra che in Spagna e Gran Bretagna e persino in posti tipo l’Ungheria e il Belgio ci sono festival musicali estivi con centoventi artisti in cartellone, e che il fatto che questo tipo di festival in Italia non ci sia è uno dei principali indici dell’arretratezza musicale in cui siamo abituati a combattere. La mia domanda sarebbe se c’è davvero bisogno di un festival come il Primavera in Italia: chi ne ha davvero bisogno ha già comprato da tempo un biglietto aereo per Barcellona. Un’altra domanda: un festival come il Primavera, poco fuori Milano, con biglietto a quattrocento euro: chi di noi s’accalcherebbe per la prevendita? Forse un migliaio di pazzi con il conto in banca che suda via gli spicci. Quello che vogliamo non è un festival come il Primavera, ma un festival come il Primavera in una location simile a quella del Primavera, con un biglietto uguale a quello del Primavera. Ponendo che questa cosa, di per sé, sia antieconomica, vengono in mente tre tipi di aiuto esterno per metterla in pratica.
1 il patrocinio di un ente pubblico: il generico bisogno di drenare fondi in cose culturali in un festival che che non preveda necessariamente un’orchestra russa o Francesco Guccini.
2 una qualsiasi multinazionale che ci metta sopra il proprio marchio e per farsi bella
3 un matto.
In ottemperanza al punto 3, all’inizio di agosto si svolgerà un festival in Umbria, chiamato Umbria Rock, che prevede gente tipo James, Paul Weller e Basement Jaxx. Pare sia finanziato da un magnate inglese di origine indiana, i cui motivi sono al momento sconosciuti (magari fare qualcosa per la gente di Massa Martana, ma ne dubito). Supponiamo che questa persona, di cui non so nulla, sia mossa da pura nobiltà d’animo: rimane un certo qual problema di fondo. A un certo punto si è iniziato a non credere più che il mercato della musica fosse autosostenibile: si è detto che era antiquato, che non guardasse al cambio d’epoca: i gruppi non potevano più sperare di vendere un milione di copie, gli artisti non potevano più permettersi di non andare in tour, la musica avrebbe dovuto trovare nuove modalità per essere venduta. Centinaia di milioni di analisti economici della domenica sono d’accordissimo su questo punto, ma solo qualche decina di milioni s’è presa il disturbo di guardarsi intorno, alla ricerca di soluzioni di mercato più al passo coi tempi. E scavando a fondo negli scenari possibili, tenendo ben conto dell’attuale tendenza culturale a rimasticare il passato, è riuscita a trovare una soluzione di mercato che accontenta sostanzialmente tutti e non grava sulle tasche di nessuno.
Anche se diciamo che reintrodurre la figura del mecenate mi sembra un po’ arrampicarsi sugli specchi, ecco tutto. Forse ci conviene metterci una mano sul cuore e ricominciare a pagare quel che dobbiam pagare.
Risposte progressive sul tema:
– andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival con altri gruppi?
Solo se il gruppo preferito è headliner. E comunque preferisco il concerto singolo.
– Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival organizzato da un magnate indiano di cui non sapete nulla?
– Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival organizzato da un magnate italiano di cui sapete per certo essere una testa di cazzo?
– Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival sponsorizzato da una multinazionale che sfrutta manodopera minorile nel terzo mondo?
Un bel “sì” cumulativo.
– Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival senza sponsor con il biglietto a 90 euro invece che 50?
No. Aspetto il concerto singolo a questo punto.
Un ritorno al mecenatismo non la vedo come cosa improbabile, se L’ARTE non paga (oggi meno che ieri) e se esistono tizi come quello su citato, ben venga.
Che poi mi piace molto comprare maglietta e disco al banco del gruppo, è un atto veramente soddisfacente che mi fa sentire come se stessi contribuendo alla causa e bilancia il mio karma dall’uso scriteriato di spotify. Ma sarà che sto invecchiando, che da giovincello non mi fregava niente, importava solo ascoltare musica.
SPOILER: potrei divagare
Partendo dalle domande, per me sono tutti sì tranne l’ultima, chiaramente se esistesse l’alternativa sponsorizzata a costo ridotto. Il motivo è semplice: a me interessa andare a sentire una band e faccio quel che serve per centrare l’obbiettivo se posso permettermelo.
Il discorso che tu fai sul pagare la musica, qui come in altri pezzi, per me è largamente assimilabile a quanti mi dicono ti crepare di caldo d’estate perchè il mio eventuale condizionatore volto al raffreddamento di 40 mq scarsi di monolocale lede il pianeta.
C’è una costante tendenza a responsabilizzare la base, una rivisitazione in chiave moderna del cattolicissimo concetto di PECCATORE per cui alla fine lo stronzo, la causa dei problemi dell’universo, son sempre io.
E ci sta eh, ma da tempo dormo comunque sereno.
Io mi sento legittimato a non sapere i margini dietro un disco, i compensi dietro un concerto, la struttura economica alla base di un mio hobby. In primo luogo, perchè comunque non ne avrò mai la percezione piena e completa, in secondo luogo perchè non è un problema mio. Io decido di investire dei soldi nella musica e lo faccio nella maniera che mi è più comoda o che mi porti più vicino all’obbiettivo. Visto che, banalmente, potrei anche non farlo e non per questo essere una persona peggiore. Se pago per vedere una band su un palco, mi auguro che questo la porti a continuare a suonare e offrirmi concerti, ma se così non fosse perchè il meccanismo che c’è dietro in realtà uccide l’artista e fa guadagnare altri, beh, non sarebbe mia la responsabilità.
Mi dispiacerebbe, ben inteso, ma sarebbe da stronzi farla passare come colpa mia che non mi sono informato.
Io non lo so se quelli da cui compro vestiti, alimenti, musica, mobili, whatever maltrattino i bambini, l’ambiente, le donne, le minoranze etniche e via andare. Spero di no, ma se così non fosse non sarebbe causa mia. Idem, in piccolo, per la musica. Se amazon, spotify o i festival sponsorizzati porteranno alla morte della musica io non lo posso sapere, ma se così fosse credo sarebbe colpa di amazon, spotifay e delle multinazionali, non mia.
Non compro dischi dalla grande distribuzione, ma dal mio negoziante che magari picchia la moglie. Non vado ad un festival organizzato da una multinazionale, ma nel locale dove magari il gestore vende ai ragazzini roba tagliata col veleno per i topi.
Nella vita ci sono cose su cui ho controllo e altre su cui non ce l’ho.
Mi prendo le responsabilità per le prime, per le seconde citofonate altrove.
a me francamente tra le due sembra che il problema sia l’eccesso di lavarsene le mani, più che l’eccesso di senso di colpa cattolico. posso capire il discorso di base, ma c’è comunque un discorso di appartenenza (nel senso: ascolto questa musica in parte per sentirmi parte di qualcosa), che disegna i confini di un mondo ideale sponsorizzato dall’Amaro Averna e a me suona scemo -non necessariamente ingiusto, solo scemo.
La causa di tutti i problemi è la questione dell’appartenenza. Comincia a ignorarla e a goderti le onde sonore per quel che sono! 🙂
Giusto per restare in tema (ma non proprio) – e comunque senza esimermi dall’essere un cazzaro – qui c’è la travagliata storia dell’Hellfest francese (con un roster di tutto rispetto, tra l’altro) (roba da andarci proprio, tra l’altro):
http://metalrecusants.com/2014/04/18/hellfest-open-air-teams-up-with-a-porn-site/
Fra le varie partnership c’era un sito porno, e pare che la cosa non sia andata giù a molti: in nomine dei nostri satanas luciferi excelsi. Andreste a sentire il vostro gruppo preferito in un festival organizzato da un magnaccia francese di cui non sapete nulla?