Maurizio Blatto

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Se scoppiasse la guerra dei giornalisti musicali, con da una parte i ragazzetti della critica (alcuni dei quali vanno verso i quaranta) infoiati giovani sparasentenze e flippati di web, e dall’altra i vecchi bacucchi (alcuni dei quali poco sopra i venti) ossessionati dalla professionalità e dal senso della misura, l’unico che potrebbe portare la pace sarebbe Maurizio Blatto. Di giorno lavora in un negozio di dischi (Backdoor) a Torino, di notte scrive di musica. Ha pubblicato un libro, s’intitola L’ultimo disco dei mohicani, che secondo me dovreste leggere. Lo intervisto oggi perchè domani è il Record Store Day.

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A quanto ricordo sei sempre stato piuttosto critico nei confronti del Record Store Day. L’anno scorso fu una cosa abbastanza comica, in effetti: ricordo per dire che l’evento ufficiale milanese fu tenuto inun teatro, il Dal Verme, con un banchetto dei negozianti che volevano aderire nell’anticamera. Ecco, suppongo che sia un po’ il punto da cui partire.

È vero. Non mi è mai piaciuto moltissimo il RSD. Ho sempre avuto la sensazione di essere il panda che si incazza con il WWF e dice “Ma ve l’ho chiesto io?”. Non è snobismo, malattia dalla quale sono tutt’altro che indenne, ma un’analisi dei fatti. Ne ho scritto con il consueto medio livore su Rumore di aprile, e ricapitolo velocemente. Chi ha un negozio di dischi, un certo tipo di atteggiamento ce l’ha sempre, ogni giorno. Altrimenti sarebbe già morto, con la serranda tirata giù, sul gozzo. Everyday is a record store day, credimi, per passione vera e sopravvivenza conseguente. Vale a dire che se hai un negozio di dischi e non condividi ed esprimi la tua comune malattia con i clienti, allora “non sei”. Poi le pubblicazioni “esclusive” per il Record Store Day, ecco qui c’è da ridere. La maggior parte sono schifezze e quelle intriganti (torno a dire, con buone eccezioni italiane, citofonare Audioglobe) e straniere vanno direttamente su Amazon e la Fnac. Quelli sono i cari e vecchi negozi di dischi che vogliamo preservare? Sì? I luoghi poco puliti in cui annusiamo i nostri simili? Sì? E se poi vogliamo festeggiare ugualmente, non sarò certo io ad andare a recitare i Vespri e a tirarmi indietro. Ma ecco, per dire, da Backdoor l’hanno scorso abbiamo pranzato dentro il negozio, con tanto di panche, sgabelli, gorgonzola, cotoletta in carpione (letale) e megamix selezionato di sottofondo. Questa mi pare una forma di appartenenza migliore di un 7” di qualche folksinger bollito con una versione alternativa sul lato b pubblicato, apparentemente, soltanto per il nostro godere. Io li amo quasi tutti i negozi di dischi, gli scatoloni ai mercati e i banchetti ai live. E faccio spesso un gesto apparentemente situazionista: ci compro qualcosa. Buffo? Non siamo lì per quello?

Giusto per tirare giù qualche numero: di quante persone è composta la clientela di un negozio di dischi come il tuo? Quanti di questi sono ultra-affezionati e quanti no? quanto incide il RSD rispetto al normale venduto?

Difficile stimare una clientela, ma lo zoccolo duro si aggira intorno a una cinquantina di persone, forse qualcosa di più. Poi, fortunatamente ci sono gli occasionali, i clienti per corrispondenza e gli “stagionali”, come i camerieri estivi, gente che viene e poi sparisce. Tra gli ultra affezionati c’è poi un manipolo di eroi con il quale condivido legami di amicizia strettissimi. Anche al di fuori del negozio. Il RSD non incide molto, francamente. Ci sono questi tipi, per me incomprensibili, che vedi soltanto in quell’occasione, ma tanto è gente che cerca edizioni che manco si trovano a Londra e New York. E loro pensano di pescarne venti copie da me, che nonostante tutto cerco di spiegargli la bellezza di tante stampe “ordinarie”. Così mi sono innervosito e l’anno scorso ho preparato una cinquantina di “fake”. Tarocchi del RSD. Ho preso delle schifezze di 7”, merda che non voleva nessuno nemmeno a 50 centesimi e ci ho incollato un’etichetta con scritto “esclusiva Backdoor Record Store Day 2013”. La gente non sapeva come comportarsi, ma comunque, nell’incertezza, li prendeva. Ne sono certo, diventeranno rari anche quelli, mi aspetto di trovarli su ebay fotografati da qualche gonzo.

Se uno lavora un po’ di testa su quello che dici viene naturale pensare che uno dei principali nemici del negozio di dischi sia quello che moltissimi dicono che lo salverà, vale a dire il mercato delle edizioni speciali e dei tripli vinili e insomma la roba per i collezionisti. che in realtà sottintende l’esatto contrario dello spirito con cui sono sempre entrato nei negozi -nel senso, l’edizione super-speciale e super-costosa presuppone acquirenti che sappiano già qualunque cosa del gruppo che stanno comprando, mentre in un negozio si entra per scoprire cose nuove, vedere una copertina ed essere stregati, eccetera… no?

Sì, io sono d’accordo con te. Anche perché come sempre, in quell’ambito si è esagerato. Ormai è tutto limitato, numerato, deluxe, handmade. Troppo. A me piace la cura dei dettagli, l’amore che traspare per l’oggetto, ma non apprezzo quelli che fanno dieci copie con dentro le fotografie, un filo d’erba del giardino, i capelli della fidanzata, che li esauriscono dopo due minuti e quando provi a ordinarli ti dicono “bastava muoversi in fretta”. Pregare ai convertiti o produrre per la tua bocciofila non mi entusiasma. Facciamo le cose nella speranza di diffonderle e che vengano apprezzate. Pagate il giusto, ma pagate. Sembra ormai che tutto debba essere esclusivo, che (l’apparente) normalità di un bel disco non interessi più. Distorsioni della pseudo modernità. Una volta ho visto la pubblicità di Eataly con un pompelmo in edizione limitata. Ecco, di fronte al pompelmo in edizione limitata, io preferisco la scatoletta di tonno.

E la questione vinile VS CD? Leggo settimanalmente di questa rinascita del mercato per merito del vinile. L’altro mese è uscita fuori una statistica secondo cui in gran bretagna si vendono tipo seicentomila vinili all’anno, per cui insomma, un po’ poco. Come stai messo tu in merito alla questione?

Io sono sempre stato un fan del vinile, ma non un talebano, nel senso che compro anche cd. Ma il vinile è e rimarrà per sempre il formato definitivo. Commercialmente per Backdoor è sempre stata una sicurezza, anche quando davvero non lo seguiva più nessuno. Indiscutibile che sia seducente anche per i giovanissimi, che magari lo comprano come feticcio di qualcosa che hanno scaricato. Ma, attenzione è qui il passaggio saliente, che hanno anche amato. E allora pagano una sorta di debito di riconoscenza glorificandolo con la sua rappresentazione migliore: il vinile. In termini di vendite da me è sempre stato preponderante, sempre. Pur in un mondo dove tutto è già disponibile, una buona mossa è stata mettere il codice per il download dentro alle confezioni. Hai i tuoi due formati, legali, e sai di aver supportato un artista e un’etichetta che stimi. Non è una cosa da poco. Risibile magari, ma per me è un bel sinonimo di “acquisto consapevole”. Dovendo dire, lamento un certo aumento di prezzo alla fonte, il rischio è di spremere questa magari piccola ma fedele fetta di mercato e appassionati. In ogni caso, vinile uber alles.

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Passo oltre. Maurizio Blatto, firma di Rumore e chissà che altro. Vecchia scuola, ma i suoi pezzi hanno un quoziente autobiografico quasi più elevato di quello dei blogger. come mai?

Parlare di musica ha ancora senso se riesce a essere narrativi e l’esperienza personale (giudizio, ma anche passione) traspare con evidenza. E allora, essere autobiografici aiuta. Banalmente sono da sempre immerso nella musica e scindere vita e ascolti, spesso ha poco senso.

Io sono anche un grande fan di chi mi racconta quasi sempre la stessa storia (i Fall, Woody Allen, Mark Kozelek, Lansdale…), temo sia un retaggio del mio essere torinese/piemontese, terra dove talvolta la noia e la ripetizione sono della armi di distruzione di massa. Ma sinceramente mi piace chi mi racconta (bene) il suo “ardore” personale, cosa lo entusiasma, perché, il locale elevato a “mondo”, le cazzate quotidiane da cui filtrano verità. Ho voluto che fosse la mia cifra. Stilisticamente poi, ti permette anche di andare avanti all’infinito, mettendoci dentro quasi tutto.

Io sono sinceramente curioso rispetto alle persone che incontro, ma per contraltare detesto facebook (dove non sarò mai), all’interno del quale molti reagiscono di pancia, immediatamente schierati, spesso violenti. Il mio secondo retaggio torinese è un rispetto quasi religioso per l’”educazione”, ammissione che farà di me un old old old school, ma pazienza. Sono saturo di cinghiali, persone che esprimono giudizi non ponderati, rancorosi. Il salto da fanzine a facebook è esattamente questo. Allora raccontavi i cazzi tuoi, ma dovevi stamparli e spedirli. La fatica del farlo implicava una misura e una ponderatezza che oggi sono spesso inesistenti. Il guaio è che non possiamo sempre e a qualsiasi ora dire cose interessanti o intelligenti. Chiaramente ho delirato e tracimato oltre i confini della domanda.

Una volta Pecorari mi rispose una cosa simile, parlando della differenza tra scrivere quello che si pensa e pensare a quello che si scrive. però quello di facebook credo che spesso sia fanatismo, nel senso di “fan” per così dire, cioè, hai a che fare con un amore ed un odio diverso. e le conversazioni noiose su Facebook sono DAVVERO noiose. non lo so. Riguardo al resto, credo che la tua roba funzioni perchè quando leggo un pezzo penso che avrei potuto scriverlo io ma peggio, cioè di essermi trovato in quella situazione esatta con quel gruppo esatto. E questo anche per uno che legge è impagabile, ma forse da un altro punto di vista è la morte della critica e l’inizio di una dimensione narrativa, un po’ alla Rolling Stone. no?

So che a risponderti che non conosco bene lo stile Rolling Stone faccio (again) la figura dello snob, ma è così. Quindi non saprei. Ma di sicuro, dipende dove e su che cosa stai scrivendo. Mytunes, la mia rubrica storica di Rumore (a maggio diventerà un libro), dove prendo una canzone e la uso come perimetro per narrativa e minima storia musicale, è la zona dove mi diverto di più e all’interno della quale sono sicuramente più libero. Se recensisco un disco, invece, allora limito l’autobiografia e giudico. Poi c’è da dire che la critica musicale su carta è ormai cosa ben diversa da quella sul web. Sei per forza di cose in ritardo e io, più che un limite, voglio percepirlo come un lusso. Permettermi una sorta di “ultima parola”, magari formalmente diversa. E quindi più narrativa. I tempi dilatati delle riviste dovrebbero essere un’occasione per una critica anche più netta, fatta tempo dopo. Se ti fai prendere dall’affanno dell’arrivare primo sulle cose, hai già perso in partenza.

Non scrivi mai per qualcuno sul web?

ho scritto, e con piacere, una cosa per il mixtape fanclub,  tanto per cambiare sugli Smiths. Da quando su Rumore non c’è più il privè, lo pubblico sul sito del mio negozio.  Non mi viene in mente altro. Non che mi rifiuti, ma un po’ non me lo chiedono e, soprattutto, non ho davvero tempo. Il lavoro, la famiglia, leggere, ascoltare dischi, i concerti, le mie partite di squash.  Tutto banale, mi rendo conto, ma non rimane molto tempo libero, quindi seleziono.

E poi mi piace anche essere pagato per quello che scrivo. Dopo tanti anni, ritengo sia doveroso (“Doveroso” è rivolto a me stesso; una forma di auto-rispetto per mio lavoro, anche se nessuno lo considera tale). Non che altrove abbondino, ma sul web quasi mai, purtroppo, ci sono risorse.

E leggerlo, invece, lo leggi?

Sì, più di una volta. Seleziono moltissimo anche qui, preferendo quelli che hanno un’idea di fondo. I pochi che sanno essere anche divertenti, lo humour latita drammaticamente nel mondo della scrittura musicale. Non mi piacciono i contenitori di recensioni,

quelli che scimmiottano la carta stampata, i rancorosi a costo zero.

Le riviste su carta mi seducono sempre. Per bellezza e abitudine. Ma anche per comodità. Tieni conto che io non posseggo smartphone o ipad, quindi una bella rivista in borsa o al cesso ha sempre il suo perché. Compro Rumore (non so attendere la mia copia) e Blow Up regolarmente. Talvolta Mojo e Wire.

Recentemente ho messo giù questa specie di teoria secondo cui lo humour fa male alla musica (e per conseguenza alla critica musicale), non so dire perchè esattamente, ma ha questa caratteristica (non tanto lo humour in sè, direi più l’ironia) di mettere tutto in prospettiva e far pensare che in fondo ci sono temi più grossi al mondo. ecco, un po’ quella seriosità tipo “scriviamo di questa cosa e fareste bene ad ascoltarla perchè è importantissima”, nel leggere riviste, mi manca molto. paradossalmente è più probabile trovarla in pezzi che recuperano roba di serie B, musica trash eccetera. 

Capisco quello che dici. E sono d’accordo sulla necessità assoluta di sbilanciarsi e quasi obbligare i lettori ad ascoltare ciò che riteniamo indispensabile. Io lo faccio e se conosco personalmente qualche gruppo (come capita inevitabilmente con gli italiani), ma ritengo siano fenomenali, lo dico espressamente e “spingo”. È più sull’idea generale che manca lo humour, sulla capacità di prendersi alla leggera, anche nelle proprie debolezze di ascoltatore e autore. Sulle manie, sull’approccio alla Calvino Italo (leggerezza “seria”) e non alla Calvino Giovanni (la serietà che divide, di qui i veri, di là i finti). Capisco che a vent’anni sia meno semplice, tendi a essere totalizzante, manicheo. Ma con il tempo sarebbe bene rilassarsi un po’. Anche perché certe verità “passano” persino più facilmente.

Però mi sembra abbastanza chiaro, almeno a me, che le pubblicazioni di musica siano in una fase interlocutoria. Svolta retromaniaca di blow up, in Gran Bretagna mi dicono questo mese la rivista più venduta sia Classic Rock… Non so se è il modo di progettare un futuro, no?

Il passato è sempre sicuro. C’è questa idea che il presente tocchi al web e la storicizzazione alla carta, ma non deve essere necessariamente così. È anche vero che il pubblico che compra le riviste non è un pubblico, per la maggior parte, giovane. Quindi, commercialmente parlando, immagini di dover offrire uno sguardo sul classic rock, più che uno sulla contemporaneità. Quando scopro che c’è ancora gente che vorrebbe un bell’articolo su Hendrix con discografia in chiusura, mi vengono i brividi, ma sono più di quanto si immagini a desiderarlo. Per questo dico che su quel tipo di musica puoi inserirti soltanto con un taglio narrativo. Possiamo ancora dire qualcosa noi, da qui, sui Joy Division? Quando Mojo ha intervistato magari anche il cartolaio dove Ian Curtis comprava le squadrette quando andava alle medie? Onestamente no. Allora l’unica possibilità è il filtro autobiografico, letterario. Che è difficile, perché l’autoreferenzialità può essere rischiosa, ma mi pare l’unica via. E’ vero che Blow Up è molto più retro di una volta, ma sinceramente mi pare che lo faccia sempre con uno sguardo interessante. Poi dipende sempre da chi scrive. Per esempio l’articolo sugli Squallor di Stefano Isidoro Bianchi era un capolavoro. Devo dire che Rumore mi pare un buon compromesso, si è aperto a temi e firme nuove. Io mi aspetto il racconto di qualcosa che non so o non ho “padroneggiato” bene da gente che ha la metà dei miei anni. Sempre che abbia la voglia di impegnarsi seriamente sulla qualità della scrittura. Ogni tanto mi arrivano delle cose scritte con i piedi, accenti a cazzo, nessun controllo ortografico. La sciatteria lessicale è intollerabile, divento una bestia. Nessuno ti ha obbligato a scrivere, non ci sono ritorni effettivi (soldi? promo? fama?), quindi deve per forza piacerti. Allora dimostralo, abbi cura di ciò che fai. A cominciare dal testo delle mail che mi mandi.

Da persona che sta dietro a un banco: il modo in cui un dato disco viene trattato su certe riviste fa ancora cambiare il numero di pezzi venduti?

Onestamente sì. Dipende molto dalla firma, ma si riconosce ancora un’autorevolezza alla recensione. Se sei uno apprezzato, il lettore (che spesso è anche un compratore) si fida. O quantomeno è curioso. La tipologia del cliente che arriva con la rivista con i titoli evidenziati o con la lista della “spesa” (fortunatamente) esiste ancora. Nonostante l’accessibilità immediata, sono in molti a richiedere una “guida” tra le mille uscite.

FAMMI UN ESEMPIO DAI, dimmi un caso in cui funziona così.

A costo di sembrare uno che si autoincensa (la recensione era mia), ti direi “Sparso” degli Altro. Tutti sapevamo che era una grande band e ne avevamo parlato spesso, ma farlo disco del mese su Rumore li ha portati “all’onor del mondo” e le vendite sono state nettamente superiori, perché hanno agganciato  un pubblico diverso. Anche Blow Up incide parecchio, soprattutto sui titoli più “oscuri” o quando aggancia bei dischi di pop laterale come “Descender” di Andrew Wyatt. King Krule disco dell’anno per Rumore l’ha fatto schizzare in alto negli acquisti.

Conosco comunque gente che, a priori, compra i titoli boxati di Rumore e Blow Up. Poi certo, io (come altri negozianti “indipendenti”) faccio la mia parte, ma quantomeno un classico “chi hanno fatto disco del mese?” non scappa mai.

Il Blatto negoziante consiglia dischi diversi dal Blatto giornalista? Io non vendo dischi ma credo che consiglierei dischi diversi. 

Sicuro. Anche perché non sempre recensisco dischi che mi piacciono, raramente richiedo qualcosa e quasi sempre mi vengono assegnati. Da negoziante poi, devi saper consigliare bene generi che magari non sono esattamente i tuoi. Per esempio la psichedelia è un settore rilevante per le vendite, io la conosco bene, ne seguo le uscite, ma ne compro una piccola parte per me. Ci sono poi dischi con i quali ti identifichi e diventa naturale proporre. Per esempio credo che, forse per compiacermi, quasi tutti qui abbiano comprato 1972 di Josh Rouse. In ogni caso io lo ammetto sinceramente “a me non ha fatto impazzire, ma credo potrebbe piacerti”, non c’è nulla di male.

One thought on “Maurizio Blatto”

  1. Ho scoperto solo a metà classifica che ho comprato della roba da lui… va bè… cmq credo sia vero che il record store day non incida molto sulle vendite a vedere dalle rimanenze delle edizioni speciali degli anni passati nel negozio che frequento.

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