A un certo punto, erano i tempi dell’Albero o di Capo Horn, qualcuno da qualche parte scrisse che Jovanotti poteva essere considerato il Beck italiano. Ai tempi la presi sul ridere, naturalmente, e ogni tanto ci ripensavo e sorridevo tra me e me pensando “ahahaha, il Beck italiano, ahahahah”. Poi il Beck italiano diventò Bugo. Adesso Beck mi sta così tanto sulle balle che lo considero un Jovanotti statunitense straconvinto di essere il Bugo statunitense. L’ultimo disco di Beck si chiama Morning Phase e abbandona sia il disperato tentativo di reinfilare una hit con l’eclettismo odelayano della roba tipo Modern Guilt o Guero, sia il patetico spin-off sensazionalista di Song Reader. Torna invece a disturbarci il folksinger intimista di Sea Change, quello che inizia pianino, finisce sempre pianino e va pianino per tutto il percorso, mentre la platea è in piedi ad applaudire dal terzo minuto e nessuno sa se lo fanno per paura di aver preso un granchio o per meriti musicali a me preclusi da un preset sbagliato dello stereo. Uno che avrà ormai 50 anni e ancora non ha deciso che musica vuole fare, fondamentalmente perché mentre lo stava non-scegliendo la musica si trovava in un periodo in cui scegliere di suonare una musica piuttosto che un’altra era sinonimo di debolezza. Una mentalità che si è evoluta fino a farci considerare capitali gruppi tipo i Radiohead o i Notwist di Neon Golden, per dire. Però tutto sommato c’è da dire che Morning Phase è intenso e profondo come Sea Change –per me ZERO, ma per un sacco di gente che conosco è la cosa migliore che un essere umano abbia mai fatto con una chitarra acustica. Mica posso trucidare tutti quelli che hanno gusti musicali diversi dai miei, voglio dire.