The Underground Resistance, l’ultimo disco metal.

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Ho cominciato ad ascoltare metal a dieci anni, folgorato dagli Iron Maiden (Fear of the Dark, per la precisione. il video di Be Quick or Be Dead passava su canale 5, il pezzo su Radio Deejay, entrambi a orari postprandiali. Internet, a parte per i servizi segreti americani, Matthew Broderick e qualche nerd sociopatico, non era ancora uno strumento. a ripensarci, il paradiso). Non ho mai smesso. Nel tempo ho maturato la convinzione che ogni ramificazione sia stata alla fine sviscerata, l’intero arco percorso, e il genere abbia smesso di evolversi nel 1999, con qualche rarissimo caso isolato (Dying Fetus 2000; Thorns 2001; Bloodlet 2002, ecc. Spari nel buio al ritmo di uno all’anno quando va grassa) a riaccendere illusoriamente le speranze di vedere rialzarsi lo standard a livelli che un tempo erano qualcosa di assodato, scontato. Tutto il resto è generalismo anodino, giusto quel minimo più divertente e coinvolgente rispetto a fissare una crepa sul muro. Ogni tanto esce qualcosa di intermedio, a metà strada tra il decoroso e l’inutile, con qualche colpetto imprevedibile che se intercettato al momento giusto prende bene, ma a impegnarcisi per trovarlo. Comunque non ho smesso di stare dietro a questa cosa. Sono subentrati una serie di fattori, caratteriali più che altro: coazione a ripetere, estrema difficoltà a staccarmi da qualcosa (a prescindere da quale sia, quella cosa). Certo alla base sempre il fatto che quella musica, per qualche strana e fondamentalmente ancora oggi a me ignota ragione, continuasse a parlarmi. È un processo che con la logica ha ben poco a che spartire. Perché ci si innamora di una persona piuttosto che di un’altra? Non ho la carogna né la chiacchiera per buttarla sui massimi sistemi da bar, però sono cose a cui ciclicamente penso, senza mai trovare un approdo.

L’anno scorso è uscito The Underground Resistance, l’ultimo dei Darkthrone, e forse per la prima volta nella vita mi sono sentito davvero vecchio. È il disco più problematico con cui mi sono trovato a confrontarmi, forse da sempre, perché segna il passaggio da quando di qualcosa vedevi soltanto il bello, il puro, il gesto spontaneo, al momento in cui la meccanica emerge irreversibilmente (se non altro nella mia testa). Si muove come sospeso, cristallizzato in una terra di mezzo The Underground Resistance. A partire dal titolo, al tempo stesso rivendicazione carica di sottintesi (inevitabilmente) radicati al vissuto del gruppo, bilancio esistenziale dove le chiacchiere stanno a zero, plateale sputo in faccia a ogni forma di appartenenza a qualsiasi consorzio, circolo o parrocchia, e diabolico cortocircuito di riferimenti incrociati (nulla a che spartire con l’etichetta di Detroit – quella merda misteriosa per dirla come Omar S – quantomeno sotto il profilo musicale; è a un livello attitudinale che il gioco si complica, e allora la questione semantica diventa importante davvero. In ogni caso, per chi sa, l’associazione mentale si innesca automatica). Da un punto di vista prettamente musicale è un disco di metal classico come ne uscivano a camionate… nel 1984. Voce stentorea, acuti improbabili, chitarre taglienti, batteria a volte approssimativa, pezzi lunghi e articolati che capita sfuggano dalle mani dei loro stessi creatori, produzione aspra e respingente da sala prove in cantina invasa dalle spore. L’elemento perturbante sta nel come ci sono arrivati, a fare The Underground Resistance; la loro condotta precedente, una storia di meraviglioso, irreplicabile e inimitato individualismo portata avanti con convinzione indiscutibile e senza il minimo cedimento: pochissimi concerti e tutti a inizio carriera, poi mai più, basso profilo (ma non per questo chiusura al confronto dialettico: interviste quando serve con risposte esaurienti e sensate), totale libertà compositiva unita inscindibilmente a una coerenza interna inattaccabile, in altre parole hanno sempre scritto, registrato e pubblicato esclusivamente quel che per loro aveva un senso quando per loro aveva un senso. Nessuna pianificazione nelle uscite, nessuna strategia di marketing, nessuna intenzione di compiacere i gusti e le aspettative altrui, mai. A un certo punto l’hanno buttata in caciara, uno dopo l’altro dischi crust beceri per quindicenni stupidi, come con lo stampino (beh, ci torno dopo).

E i testi, anche. Tra farneticazioni alcoliche e sloganistico sbracato elevato da una consapevole ignoranza, situazionismo puro, l’unico elemento che riporta al presente, rimette in prospettiva e dissolve per un momento la persistente sensazione di essere saliti su una macchina del tempo.

Al netto del crederci davvero (a questi livelli nessuno, a parte loro) il metal oggi è diventato tutto così: una copia carbone di qualcosa di retrodatabile con precisione infallibile anche dal più inesperto dei neofiti. La riproduzione anastatica di qualcosa che è già successo, noto più per trasmissione orale che per esperienza diretta, reso con rigore maniacale e plagiarismo enciclopedico da gente che quando uscivano gli originali ancora non era venuta al mondo. Nel frattempo gli standard qualitativi di tutto l’apparato produttivo si sono vertiginosamente alzati, di cloni di Jim Morris (o di Scott Burns, di Terry Date, di GGGarth, stessa differenza; sempre trattasi di ragazzini che hanno studiato a fondo i prototipi, con precisione filologica, arrivando con la tecnologia e il costo ridotto delle apparecchiature a replicare gli originali; in nessun caso dagli originali sono riusciti a rubare l’anima) è da mo’ che sono piene le strade. Il risultato è che ogni nuovo disco suona a regola d’arte identico a qualcos’altro, splendidamente impersonale, testardamente anacronistico, la copia su LaserDisc di un film degli anni 80, però oggi.

Per il resto gli stessi cliché, gli stessi tic, perfino le stesse imperfezioni, tutto ripetuto fino e oltre lo sfinimento e la nausea esistenziale. Oggi il metal è platealmente diventato una bieca faccenda da timbracartellini dell’umano, un giro alle giostre per ragazzini in età in cui fisiologicamente bisogna ribellarsi a qualcosa, un gioco delle parti dove nessuno degli attori in realtà ci crede ma si comporta così perché deve farlo, come zombi davanti al centro commerciale, burattini inconsapevoli che si attengono scrupolosamente a un copione scritto da qualcun altro. Un modo come un altro di scaricare le tensioni irrisolte, giusto quel minimo più produttivo e coinvolgente di una sega (a volte manco quello).

The Underground Resistance è lo specchio agghiacciante di quel che è diventato il metal oggi (negli ultimi anni poi, una voragine, un gioco al ribasso via via sempre più mortificante e sfacciato, del tutto privo di scrupoli, prospettiva storica, coordinate morali). È il punto di non ritorno, lo sgretolarsi dell’ultima barriera che rende distinguibile chi ci crede veramente dalle marionette che inscenano un penoso karaoke plagiaristico per gonzi. La fotografia del momento esatto in cui Robert Neville viene vampirizzato, l’ultimo avamposto conquistato. Ora ci hanno preso veramente tutto. Quel che stringe il cuore è che è stata una resa volontaria.

Il re è nudo, da qui i Darkthrone giocano la stessa partita del resto del mondo, senza riserve (proprio loro, che avevano sempre rappresentato l’eccezione a tutto, a tutti).

Probabilmente sono un privilegiato a essere stato giovane nel periodo in cui il metal forse più che mai in tutta la sua storia era una cosa viva, organica, qualcosa di problematico, inafferrabile e pulsante, in costante mutamento, forse l’unico momento in cui lo sia stato davvero (ma questo non lo direbbe chiunque riferendosi ai “suoi” anni?). La storia veniva riscritta quasi quotidianamente, il tempo perdeva di significato: interi generi nascevano e proliferavano, altri si disfacevano autocancellandosi dalla memoria collettiva, nessun backup contemplato, lo stesso scenario era come un albero genealogico impazzito e totalmente fuori controllo. Mosche bianche a non finire (Type O Negative il primo nome che mi viene in mente all’istante, ma è una gara tra spermatozoi), in un panorama dove il cielo era il solo limite. Perdersi nella miriade di uscite era una vertigine in grado di mettere a dura prova la percezione della realtà come neanche nel più incarognito dei romanzi di Philip Dick. Cosa sia successo non saprei dirlo senza addentrarmi in speculazioni interminabili, non ho il dono della sintesi. Questo non mi interessa. So solo che ora vivo qui e sto male.

Stanno per sciogliersi definitivamente i Brutal Truth. Come i vecchi e i nevrotici guardo con nostalgia ai tempi andati. Con una differenza sostanziale: io sono realmente convinto che si stesse meglio quando si stava meglio.

6 thoughts on “The Underground Resistance, l’ultimo disco metal.”

  1. Tempo fa, FF aveva lamentato l’egemonia di una tripletta di sottogeneri sul metal odierno: black metal camerettistico (shoegaze, postrockeggiante e simili – diciamo Deafheaven come il frutto più riconosciuto); roba tecnica post-DEP, dentro la quale metterei tutto ciò che oggi viene chiamato Djent (consideriamo i Periphery e simili); e stile Mastodon, insieme a quello che chiamerei sludge progressivo (Crack the Skye che è del 2009, ma anche “Spiral Shadow” dei Kylesa e roba simile). Ecco, si può discutere sul fatto che in media sta roba sia vecchia di 5 anni e guardi a realtà anni 2000, ma siamo sempre oltre la “rosa” degli anni 90. Poi è musica che può fare schifo, eh, ma una cosa come i Deafheaven, con tutti i suoi mille richiami, non la direi comunque vintage o retromaniaca.
    A parte tutto questo, il metal di per sé si presta a un dibattito simile… ma l’hardcore? Seriamente, dopo lo screamo dei primi anni 2000 e le successive ibridazioni con le forme di metal sopra descritte (ci sto facendo caso proprio adesso, ma praticamente tutti i gruppi screamo innovativi lo mischiano con qualcuno dei tre tipi di metal in questione)… cosa c’è all’orizzonte?

  2. Boh. A volte vi immagino andare da vostra madre a romperle il cazzo perchè le lasagne “Cazzo, son derivative, possibile che in trent’anni non si riesca ad andare oltre alla lasagna seminale di nonna?”.
    Parlando di HC, se chiedi in giro la fase più “innovativa” degli ultimi 14 anni pare si sia costituita di polsini (RIP), frangette e tentativo di etichettare come HC qualunque forma di metal non fosse suonata da gente con un look preso a piene mani dagli infami anni 80.
    “Raga, ma sto qua è power/black metal tamarro…”
    “Machecazzodici??? Non vedi che il tipo non sembra un giocatore di ruolo con problemi sociali? Il cantante è uno skater ERGO fanno hardcore!”.
    Ora, nessuno discute ci sia stato del buono nei primi anni 2000 tra le band che hanno provato ad uscire dal seminato (anzi, tanta roba), ma ce n’è stata molta di più realmente deprecabile.
    E allora viva un bel disco derivativo, magari prodotto bene visto che oggi i mezzi ci sono. Ma anche qui si potrebbe discutere, visto che nella scena l’atteggiamento è tipo hamish: tutto ciò che è tecnologia è per forza un male e quindi registriamo dei dischi anche belli mettendoci i microfoni nel culo, che è quella la strada dell’HC…
    Potrei aver divagato.

  3. È il punto di partenza a essersi spostato (avanti, indietro, stessa differenza). Ora si tratta principalmente di una corsa al citazionismo sfrenato e all’accostamento improbabile di generi preesistenti, perfettamente decifrabili da chi sa, là dove la questione era piuttosto creare dal niente qualcosa di mai sentito prima, senza pensare agli effetti collaterali, senza nemmeno considerarli, rischiando tutto e magari sfracellandosi rovinosamente (penso a “Renewal” dei Kreator, a “Chameleon” degli Helloween, in entrambi i casi roba che ancora oggi continuo a chiedermi come, perché e soprattutto da dove cazzo gli sia uscita). Quello sprezzo totale di regole acquisite adesso non riesco più a vederlo. Ogni cosa mi ricorda qualcos’altro a cui saprei dare un nome, una data, ma pure una data di scadenza. Magari mi sbaglio ma resto convinto che tra dieci anni, se sarò ancora al mondo, farò ancora girare Bloody Kisses e di Sunbather non ricorderò manco una nota (sia chiaro: prontissimo a mangiarmi il cappello in qualsiasi momento se ciò non accadesse).
    Poi c’è anche da considerare il discorso che il collasso dell’immaginario “major = brutte e cattive / indipendente = buona e santa a prescindere” ha prodotto solo confusione, crisi di valori e dispersione nella scena (in qualsiasi scena), favorendo infiltrazioni di personaggi indifendibili a contaminare e incasinare ulteriormente il quadro. A costo di passare per vecchio scoreggione non riesco a non rilevare che la gestione della cosa in altri tempi era certamente più naif ma almeno i confini tra GIUSTO e SBAGLIATO erano netti e immediatamente riconoscibili da chiunque. Ora non esiste più un fronte comune, un nemico identificabile contro cui combattere, ed è più facile abbassare le difese e accettare situazioni che in altri tempi erano NO A PRIORI. Ma qui si entra nel campo dell’etica, e mi rendo conto che ognuno ha la sua.

  4. Ma io ti seguo eh, e l’analisi è insindacabile. Quel che dico è che, boh, non vedo la necessità di cercare qualcosa di nuovo nell’HC. Arrivasse uno, domani, e tirasse fuori un disco innovativo E bello per quel che per me può valere il termine, allora giù il cappello. Ma se domani un gruppo di ragazzini di 15 anni sforna un disco ricolmo di clichè, ma suonato con il sangue agli occhi e la cura di chi ci tiene allora per me bene uguale. Il punto è che adesso se suoni derivativo e usi la tecnologia sei un venduto, se suoni derivativo e fai mixare il disco alle scimmie urlatrici sei uno vero e se provi a sperimentare semplicemente ripeschi dalla roba che quando avevi 15 anni giuravi di odiare sperando che chi ti ascolta A) la odiasse anche lui e quindi non la conosca B) decida di avvallare la tua operazione di sdoganamento, cosa che molto spesso arriva se si muove LA RETE.
    Per me la differenza la fanno ancora i pezzi. Se hai i pezzi buoni il disco è buono, pure che copi a mani bassissime da chi ti ha preceduto. In questi ultimi anni ne ho viste davvero troppe, di cazzate, per poter appoggiare a priori la voglia di innovazione.
    Quindi ok, probabilmente siamo vecchi e tutto ciò che verrà domani per noi non avrà la valenza di quel che è venuto ieri, e forse non è nemmeno del tutto colpa del fatto che siamo vecchi. Ma se fossimo davvero arroccati al passato diremmo che non è uscito un buon disco HC o Emocore o Metal negli ultimi 10 anni. Cosa che non è. Solo non era roba nuova.

  5. Dici: “Ora non esiste più un fronte comune, un nemico identificabile contro cui combattere, ed è più facile abbassare le difese e accettare situazioni che in altri tempi erano NO A PRIORI. Ma qui si entra nel campo dell’etica, e mi rendo conto che ognuno ha la sua.”

    Nemico contro cui combattere? Fronte comune?? Death to false metal??? Il campo è quello dell’età anagrafica: questi discorsi van bene fino a 17-18 anni.

  6. Ah, concordo con Manq sul discorso dell’innovazione a tutti i costi, che è stupida. Esistono, da sempre, innovatori come consolidatori dell’esistente, o sintetizzatori di tendenze già esistenti/passate. Entrambi possono portare a risultati eccellenti.

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