N O I S E

zz002

Una cosa che faccio spesso per capire che aria tira in merito a un certo argomento è cercare concetti aperti e generalissimi su google immagini. Se cerchi BAND PHOTO su google immagini viene fuori un’estetica molto precisa. Sono immagini divise 50 e 50 tra bianco e nero tiratissimo e iperrealismo digitale. Tutte le foto in cima sembrano essere scattate allo scopo di suscitare un’idea precisa legata al rock’n’roll così com’è supposto essere. Da qualche anno sulle riviste di musica pesante è sostanzialmente impossibile distinguere un gruppo dall’altro: quasi tutti incazzati e vestiti di scuro sotto un cielo plumbeo. È l’esatto opposto di quello che si supporrebbe essere la naturalità della musica. La maggior parte delle foto di gruppi rock pesanti mi suggerisce l’idea che i musicisti stiano affrontando conflitti interni tutt’altro che pesanti e appena troveranno da scopare passeranno al twee-pop. Non so dire, onestamente, se l’estetica dei gruppi sia mai stata diversa. Negli anni ottanta c’erano completi di pelle tirati a lucido, negli anni novanta c’erano foto sgranate o polo Fred Perry e tute Adidas. Suppongo che a un certo livello di inserimento nel sistema –contratto major, trecento paganti a data, due canzoni conosciute da qualcuno- nessuno abbia più interesse a sembrare un idiota. Non lo so.

Esiste una teoria che identifica i dischi che ti hanno cambiato la vita nella misura in cui riesci a ricordare precisamente dove fossi e cosa stessi facendo nel momento in cui ci sei entrato in contatto, a isolare quel momento cristallizzandolo nel tempo. Prendendo per buona questa teoria, la mia vita è cambiata per sempre quando ho appoggiato nel cassettino del lettore un CD comprato a caso quello stesso pomeriggio, pescando tra gli usati del “Disco D’Oro”, attirato dalla copertina (ricordo pure il prezzo: 6.500 lire), e ho premuto il tasto play. Il disco si chiama Into the Vortex, il gruppo Hammerhead. L’etichetta Amphetamine Reptile, ed è il nome, quel nome, ad aver fatto scattare la scintilla; a rimbalzarmi in testa all’istante confuse immagini di qualcosa di strisciante, anfibio, minaccioso e letale, che mi attraeva a sé come un magnete le scorie di metallo. La mia mente era una tavoletta d’argilla che aspettava soltanto di essere plasmata. Avevo dodici anni.
È stato il pacchetto completo (musica, immagini, tutto) a farmi esplodere il cervello. Non avevo mai sentito roba del genere. Che esistesse da qualche parte qualcosa chiamato noise rock ne ero solo vagamente a conoscenza: avevo visto i manifesti di un concerto dei Cop Shoot Cop in centro ma a parte il nome pittoresco non mi era rimasto altro; su Videomusic passavano un video degli HELMET, ma mi rompeva i coglioni (era appena uscito Betty, il loro disco più tranquillo – non considero la merda buttata fuori dal 2004 in poi. Avrei comunque cambiato idea molto presto. Come si cambia per non morire, eccetera). Ascoltavo metal ma non avevo mai trovato qualcosa di altrettanto ostile, deragliato e pesante. Ascoltavo hardcore (erano gli anni dell’ondata newyorkese, roba sul bullistico-prevaricatore che piaceva ai rissaioli del campetto, i dischi mazzate da venti minuti a botta e bella lì; il punk per me erano i Green Day, ciarpame farsesco) ma non avevo mai trovato qualcosa di altrettanto violento, incarognito, preso male. Ascoltavo il Deejay Time e certo lì non c’era un cazzo di anche solo lontanamente paragonabile. I miei orizzonti erano alquanto limitati allora, è vero; ma anche adesso, vent’anni più tardi, non saprei indicare qualcosa che suoni come gli Hammerhead, a parte gli Hammerhead. I dischi Amphetamine Reptile sono tutti così. Ognuno un’isola a sé stante con barricate alte fino al cielo. Immediatamente riconoscibili e alieni a qualsiasi altro genere e suono. Inimitabili, irripetuti. Decisi all’istante che quella roba faceva al caso mio. Da allora in poi avrei comprato a prescindere qualsiasi disco portasse il logo N O I S E stampato da qualche parte nel retrocopertina. Inutile rievocare adesso quanto fosse difficile procurarseli allora, i dischi. Era un altro mondo. Cataloghi per corrispondenza e fanzine (ma solo quelle particolarmente illuminate) i soli canali di informazione, il costo oggi semplicemente impensabile dei CD (i vinili in compenso te li tiravano dietro ma erano scomodi e ingombranti, non entravano nel Discman, non ci potevi girare) e le conseguenti, logoranti attese nella speranza che qualche imbecille se ne disfacesse per poterli finalmente ricomprare, usati, a un prezzo sostenibile per un regazzino con le tasche sempre vuote. Pazienza e perseveranza in dosi da elefante erano i requisiti indispensabili per mantenere vivo questo fuoco. Sarei stato ampiamente ripagato. A ogni nuovo incontro, a ogni nuova acquisizione, quali visioni, quante emanazioni da un altro spaziotempo. Ogni volta la magia si ripeteva inalterata. Una certezza, come il giorno di natale il 25 dicembre. Mai più stato altrettanto felice di perdere all’istante tutti i punti di riferimento conosciuti. Erano autentici bombardamenti psichici quelli a cui periodicamente mi sottoponevo. Storie di ricerche snervanti e attese esasperanti che culminavano in rivelazioni dalla portata al cui confronto i Vangeli erano cacchette di mosca. Come rendere a parole la virulenza del primo contatto con Psychedelicatessen dei Lubricated Goat? Come raccontare a chi non ne abbia avuto a sua volta esperienza diretta la portata dei dischi dei Cows (tutti, dal primo all’ultimo)? Come spiegare la devastazione emotiva, lo stato di prostrazione totale dopo il primo (e il secondo, e il trecentesimo) ascolto di Willpower dei Today Is The Day? Impossibile, pure per William Burroughs se fosse ancora al mondo. E lo stupore e il disorientamento erano gli stessi sempre, tanto che la lista dovrebbe andare avanti fino a includere dal primo all’ultimo titolo in catalogo, ognuno un varco dimensionale che lasciava intravedere scenari inauditi, irraccontabili; a prescindere dagli autori, fossero i Melvins come gli HELMET come i Cosmic Psychos come i Janitor Joe, nomi già minacciosi e deraglianti a un livello puramente fonetico. Roba che faceva credere davvero che qualsiasi altra musica registrata con gli strumenti amplificati fosse alla fine poco meno di un passatempo per capistazione.

Esisteva un’estetica che accomunava tutti i gruppi Amphetamine Reptile, rendendoli coesi, idealmente membri della stessa famiglia: le copertine, vignette autistiche da fumetto drogato o layout asettico che nasconde sempre almeno un dettaglio disturbante, libretto di due pagine con dentro solo un recapito e una foto del gruppo, tutti i componenti col cappellino, calzoni corti e magliette tinta unita, che ti guardano male, foto in bianco e nero sgranatissima e nient’altro, niente testi mai. Il grafico era sempre lo stesso, accidentalmente anche il proprietario-factotum dell’etichetta nonché membro fondatore degli Halo of Flies (mai un abum, solo singoli), un ex marine di nome Tom Hazelmyer. Ai miei occhi, creatore di universi.

Tom Hazelmyer non ha studi di design alle spalle. Il fatto che non conosca gente che possa disegnargli le copertine dei dischi lo obbliga ad imparare; pesca idee più o meno ovunque gli capiti, dai cartelloni pubblicitari dozzinali ai più celebri designer legati al punk, e tira fuori un’estetica inconsapevole votata ad un iperrealismo rock’n’roll che non ha quasi termini di paragone. Il piglio artistico delle foto di Charles Peterson che stanno nei dischi Sub Pop è lontano centinaia di chilometri. A riguardare oggi quelle copertine si viene ancora sbattuti di peso in un’epoca nella quale il grado di finzione all’interno del rock’n’roll era praticamente zero.

Solo una volta sono rimasto deluso: Yeah, Me Too dei Gaunt, l’anno era forse il 1996, poppettino-punkettino all’acqua di rose, giusto quel minimo meno conciliante degli umilianti standard dell’epoca, comunque offensivo quanto un bicchier d’acqua. Mai capito perché fosse uscito su AmRep, mai rappresentato un problema comunque: non c’è luce senza ombre, e una singola ombra sposta di niente il quadro generale.

Di una cosa sono assolutamente certo: i gruppi di bianchi che hanno capito il blues li puoi contare sulle dita di una mano. Ne avanza pure qualcuna. La lista è brevissima: ZZ Top, Rollins Band, UNSANE. Gli UNSANE stavano su Amphetamine Reptile e i loro dischi (fino a Occupational Hazard perlomeno) restano la cosa più sporca e violenta si possa concepire. BLUES. Asfalto e grattacieli al posto di paludi e baracche, Chris Spencer l’equivalente morale di Mississippi Quell’Altro o Blind Pinco Palla. I dischi una ricognizione nei bassifondi più fetidi della Grande Mela Marcia, un microcosmo parallelo dove i cinema proiettano solo horroracci con sangue a ettolitri e per le strade ci si spacca le ossa. Il suono della sopraffazione, con più eroina che sangue a scorrere nelle vene. Forse il gruppo che più di ogni altro ha incarnato il dolore fisico in tutta la scuderia AmRep; di sicuro quello che ha lasciato gli sfregi più profondi.

A un certo punto i dischi Amphetamine Reptile semplicemente hanno smesso di uscire. Nessuna dichiarazione al proposito, nessun commento. Solo silenzio. Era la fine degli anni novanta, la fine di un’era. L’immensità del vuoto che quell’assenza, improvvisa, brutale, aveva creato si è insinuata lentamente in me. A un tratto niente più AmRep, fine della storia. Il mondo sembrava non avere fatto una piega, ma per me era come per un tossico vedersi privato del metadone senza motivo dall’oggi al domani. Sul momento non te ne accorgi, è sulla lunga distanza che gli effetti si rivelano devastanti. Mai più sono riuscito a trovare roba del genere.

Da qualche anno risorge periodicamente dalle sue ceneri AmRep, come un’araba fenice con le sinapsi in disordine, farcita di bile e allucinogeni di dubbia provenienza. Ogni tanto esce qualcosa, roba puramente autocelebrativa in edizione limitata numerata venduta direttamente dal sito Internet, a volte ripescaggi dai soliti sospetti, vinili curatissimi, graficamente ineccepibili, niente da dire. Solo che è l’esatto opposto dei CD con libretto di due pagine in bianco e nero che pubblicavano regolarmente una volta. Questo non mi interessa.

Quello di questa settimana è una sorta di tributo. Parliamo di una musica che c’interessa, prendendo spunto da tre o quattro cose successe in questo periodo, da qui a fine settimana. Ci dividiamo tra recuperi e nuova roba, proviamo a rintracciare l’estetica di AmRep in giro per gli anni che vanno dalla fine di AmRep ad oggi. Una specie di esperimento. buona lettura.

_______________

MC + FF

3 thoughts on “N O I S E”

  1. andavo pazzo per gli Unsane ma, cazzo, quelli fuori davvero erano i Cows, anche troppo per i miei gusti, avevo un CD che a momenti mi faceva diseredare

    bella iniziativa comunque

  2. la prima volta che ho ascoltato Orphan’s Tragedy stavo in macchina; oggetto mai identificato fa sbandare di brutto, rischiato di finire dentro un burrone, evitato per un pelo. il bello è che non guidavo io.

    è un piacere. è una cosa che per noi ha un senso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.