Il confrontazionismo muscolare a cazzo della roba che usciva su Victory, Goodlife e simili ha smesso di andare di moda a fine anni novanta, lasciando il passo ad una fragilità disperata da cui gli svedesi Breach uscirono fuori in modo violento anche se non necessariamente ostile. Cinque anni dopo anche la fragilità disperata era diventata un clichè, stretta a sinistra dai codici dell’emoviolence e a destra dai continui ripescaggi dei Neurosis: la data della fine di tutto possiamo tranquillamente fissarla al momento in cui i Today Is The Day di Steve Austin, ormai un altro gruppo escono con il doppio Sadness Will Prevail, telefonatissimo Capolavoro Assoluto di Disperazione che porta a compimento il processo iniziato da Temple of the Morning Star affogando la musica dell’Uomo in un mare di banalità e spunti sviluppati a cazzo. A quei tempi i Breach erano già morti e sepolti: il loro ultimo atto, Kollapse, esce nel dicembre del 2001 ed è il punto più alto mai raggiunto dal genere. Nelle canzoni di Kollapse, che hanno titoli tipo Big Strong Boss o Sphincter Ani, è già possibile ascoltare lo sgretolarsi di tutto quel sistema: strumentali tesissimi che sfociano in sfoghi di violenza tipo Old Ass Player, una delle canzoni più violente mai registrate, bassissima macelleria emotivamente compromessa che riporta indietro nel tempo fino alle prime battute di Willpower e da lì non si schioda se non per blandire con strumentali altrettanto disperati, pezzi punk senza senso e schitarrate apocalittiche. In più di un senso, dentro a Kollapse è possibile trovare una versione sintetica del successivo decennio di musica estrema senza le pose, le beghe estetiche e i proclami millenaristi di chiunque sia venuto dopo.