La prima volta che ascolti un disco di Aphex Twin non la scordi, mai. È come scoprire per la prima volta un universo. Il bello arriva dopo, quando ci si rende conto che al secondo come al trecentesimo ascolto l’intensità di quella folgorazione non cambia, il nitore accecante nello svelarsi di tali e tante epifanie non si attenua, e stupore, meraviglia, terrore, restano gli stessi di sempre.
Così è stato, per me, e così ha continuato a essere almeno fino a tutto il 1996, l’anno di Girl/Boy EP e del Richard D. James Album (per alcuni, adulti, avvezzi a tutto e annoiati a morte, allora Aphex Twin stava già alla frutta; punti di vista). Pezzo dopo pezzo, disco dopo disco, un ininterrotto susseguirsi di rivelazioni la cui portata e immensità restano semplicemente impossibili da descrivere, e così sarà sempre. Ogni nuova scoperta pura gioia per le orecchie, come per un bambino rimanere chiuso dentro una pasticceria dopo l’orario di chiusura: mistero, desiderio, eccitazione di fronte a qualcosa di proibito su cui si ha temporaneamente il pieno controllo, il tutto in quantità incalcolabile e disponibilità illimitata.
Mai ho trovato corrispettivi, nemmeno in quegli anni dove pure di roba “strana” e “altra” ne usciva perfino troppa (la Rephlex dello stesso James, l’intero catalogo Warp soltanto la punta dell’iceberg, parte infinitesima di un totale di cui ancora oggi solo una minima porzione è stata riconosciuta, catalogata e storicizzata come si conviene). Anche in un contesto mai altrettanto fervido i suoi pezzi svettavano sopra ogni cosa prendendo il volo immediatamente e senza sforzo alcuno, facendo sembrare tutto il resto ciarpame da pedonaglia in libera uscita. Un forziere che pareva inesauribile; i dischi, i pezzi, qualcosa di letteralmente inaudito, ognuno un mistero fondamentalmente destinato a rimanere tale, edificato con pazienza francescana, cura maniacale del dettaglio e conoscenza enciclopedica di ogni molla, ogni contatto, ogni ingranaggio che regola il più dimenticato, il più assurdo di strumenti analogici spesso fuori produzione, ancora più volentieri autocostruiti, in modo da poterne padroneggiare fino all’ultima delle variabili, deragliare il tragitto prestabilito e trasformarlo in qualcosa di completamente diverso come soltanto i geni o i nerd senza speranza possono arrivare a plasmare. Richard James era entrambe le categorie e molto altro ancora.
Se Baudelaire fosse stato suo contemporaneo, dopo avere ascoltato la raccolta Classics, entrambi i Selected Ambient Works o I Care Because You Do, Corrispondenze l’avrebbe scritta lo stesso, e senza conoscere le droghe. Di questo sono convinto.
E la magia pareva non finire mai: dopo le uscite “ufficiali” perdersi nella vertigine di dischi, EP, tracce su compilation dimenticate dal mondo, tutto pubblicato celandosi dietro pseudonimi irrintracciabili ai tempi, una caccia al tesoro dalla difficoltà direttamente proporzionale alla circolazione carbonara e alla quantità di informazioni lasciate trapelare al riguardo (zero, più o meno): una frammentazione consapevole del talento che conosce pochissimi precedenti (Prince, ATOM) e nessun successore. In tutti i casi, fatiche destinate a venire ampiamente ripagate. Sopra ogni cosa Surfing On Sine Waves, a nome Polygon Window, tra i dischi techno più impressionanti mai ascoltati, un’interzona dove Detroit si incrocia a un universo parallelo trasfigurato e maligno, la raccolta Compilation a nome Caustic Window, dove è il lato malvagio e perverso della sua personalità proteiforme a emergere, materiale di gran lunga più schizzato, inafferrabile e clamorosamente fuori asse rispetto alla grandiosità degli affreschi autografi, comunque sempre animato da furia iconoclasta al tempo stesso lucidissima e in pieno controllo della visione d’insieme. Un samurai.
La prima battuta d’arresto nel 1997: Come to Daddy, stanca ripetizione virata metallaccio di quarta categoria di cascami già abbondantemente sviscerati nell’insuperato (da chiunque) Richard D. James Album, il resto del disco una minestrina riscaldata, tempi spezzati, drill’n’bass fuori tempo massimo, su tutto un atteggiamento altezzoso da occhiatina nei bassifondi francamente inopportuno e sostanzialmente indigesto. La superstar era Chris Cunningham, per i videoclip quel che Orson Welles è stato per il cinema; grazie a lui Richard James è diventato Richard James per milioni di persone. Nel 1999 il colpo d’ala: Windowlicker, un’araba fenice, più impalpabile, radicale e definitivo della somma dei già sovrumani precedenti.
Poi il crollo, irreversibile. Intrappolato in un contratto-capestro con la Warp (ma questo verrà reso noto anni più tardi), reagisce da par suo spezzando a più riprese un silenzio stampa dalla seconda metà degli anni novanta fattosi quasi monastico rilasciando dichiarazioni sprezzanti a tutto campo, dove soprattutto ribadiva a più riprese di non sentire più alcuna esigenza di pubblicare quello che registrava, nessuna voglia di buttare fuori roba nuova, al tempo stesso lasciava intuire di stare continuando a produrre quanto e più rispetto agli archivi già stracarichi di materiale inedito degli anni aurei, alimentando negli introdotti reazioni che dire pavloviane è un eufemismo (il resto del mondo invece, giustamente se ne fregava alla grande). Altre dichiarazioni: i prossimi pezzi non sarebbero stati opera sua ma di ignoti smanettatori raccattati in giro per la Rete e pubblicati a suo nome. Erano gli anni della massima espansione del downloading illegale e uno dei modi per combatterlo (da parte delle major, ma non solo; in questo senso era davvero una lotta senza quartiere) era effettivamente mettere in circolazione pezzi scrausi di autori sconosciuti, rinominare i file con titoli di dischi in uscita e il gioco era fatto (io pure, convinto di stare scaricando Iowa degli Slipknot, mi ero ritrovato in cartella una schifezza sulla falsariga degli originali ma talmente inquietante e obliqua da disorientare). In quello specifico lasso di tempo elucubrazioni del genere trovavano terreno fertile proprio perché plausibili. Restavano comunque fumo negli occhi, roba da sottospecie di teoria del complotto interessante e appassionante quanto una crepa sul muro, perché intanto i pezzi non uscivano e su questo le chiacchiere stavano a zero. Come poteva essere altrimenti? Suoi o non suoi non uscivano, punto e basta.
È stato allora, quando ha preso a rimescolare le carte in tavola ben oltre l’umanamente sostenibile, che ho perso interesse. Del situazionismo in quanto tale mi frega poco quando il risultato finale è qualcosa di fiacco e sciatto qualunque sia la chiave di lettura “giusta” per decifrare il giochetto. Gli indovinelli hanno un senso se c’è qualcosa che valga la pena indovinare. Altrimenti, il piacere della scoperta vale quanto il tempo speso a fissarsi l’ombelico. Drukqs era questo: un’interminabile, inaffrontabile parata di numeri nati già vecchi, inerti, straordinariamente insipienti e mostruosamente inconcludenti. L’arte di non arrivare in nessun posto, ma arrivarci dando l’impressione di aver teorizzato una nuova rivoluzione copernicana, il tutto alternato a quadretti appena abbozzati per piano solo da uccidere di noia Erik Satie il solo e unico. A suo modo una folgorazione: era riuscito a ricreare quello che deve essere stato il preciso stato d’animo degli spettatori all’ultimo concerto dei Sex Pistols, quando Johnny Rotten per l’ultima volta Johnny Rotten ha pronunciato la frase. Ora ero io a sentirmi fregato.
Altro materiale d’archivio per onorare (si fa per dire) gli obblighi contrattuali con la Warp: 26 Mixes For Cash, il titolo dice tutto, e Analogue Auto Bulb, uscito a nome AFX, breakcore quei quindici anni buoni in ritardo.
Poi è arrivata la serie degli Analord, solo in vinile, una versione 2.0 dei dischi a diffusione carbonara degli anni novanta: ora se ne volevi uno lo pagavi e ti arrivava il vinile per posta, fine della storia. L’esclusività della cosa ora stava solo dentro la tua testa. Musicalmente l’autokaraoke di uno che ha già creato tutto e ora si ferma a contemplare la sua opera vedendo che ciò che ha fatto era buono; esercizi di stile, variazioni sul tema animate e motivate da un retrogusto nostalgico fino ad allora mai altrettanto lancinante. Ricognizioni a velocità di crociera su alcuni dei percorsi che lui stesso aveva disegnato, aprendosi forse per la prima volta in maniera così platealmente calligrafica ad antiche passioni mai sopite (la primissima acid techno di cui in altri anni aveva rappresentato la spinta principale nella catena evolutiva del genere), molto stanco e molto bene.
Infine è passato inequivocabilmente alla cassa, non tanto per i dischi nuovi quanto per i djset David Guetta style nelle arene, con cachet a sei zeri e un alone di leggenda che precede il personaggio di migliaia di miglia tanto da fargli acquisire valore in quanto tale, basta il nome. Tra lui e Steve Aoki un niente.
È uscito il disco fantasma di Caustic Window (altra storia manicomiale alle spalle, originariamente tirato nel 1994 in quattro esemplari, ricerche stile Indiana Jones, fundraising telematico per aggiornare il discorso ai tempi che corrono, il pacchetto completo). Partono le prime note e istantaneamente polverizzano tutte le stronzate: sembra roba incisa dopodomani, ma sembra anche di essere tornati indietro di vent’anni.
[trivia] non c’entra niente, ma ricordo di aver letto da qualche parte che c’erano dei Marines che in Iraq, per ammazzare il tempo, si chiudevano a mummia nel sacco a pelo con la cerniera proprio fino in cima, mettevano le cuffie su e facevano la Drukqs challenge: un’ora e rotti a sudare al buio col volume al massimo. dice che era un’esperienza straniante anche per chi di professione uccide le altre persone.
Drukqs è un capolavoro. altrochè cazzi.