QUESTA NON È UN’ESERCITAZIONE

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Ho scoperto i Disciplinatha con Un Mondo Nuovo. Al negozio che noleggiava CD in via del Borgo la scelta negli ‘ultimi arrivi’ era tra quello e La Diserzione Degli Animali Del Circo degli Yo Yo Mundi, che a posteriori è come dire che la scelta del nome per la patente falsa era tra Mohammed e McLovin. I termini della questione erano gli stessi: separare il grano dalla crusca. Infatti gli Yo Yo Mundi non li ho cagati, né allora né mai. Anche se è uscito vent’anni fa (non ricordo il giorno né il mese), non è il disco più bello di sempre; è comunque un gran disco, migliore della maggior parte delle uscite del periodo, pieno di parole che infiammano il cervello e lo portano a ragionare (come o su cosa è secondario; quel che conta è riattivare il muscolo atrofizzato), un’immagine di copertina rubata agli opuscoli manicomiali dei testimoni di Geova (poi ritirata e modificata) e la cover di Up patriots to arms che rimane il loro più grande successo (la suonarono pure a un concerto del primo maggio, gremito as usual, con Lindo e Battiato assieme sul palco), ma la funzione primaria che ha rivestito in me è stata, per così dire, di identificazione e riconoscimento: ora sapevo che esisteva un gruppo chiamato Disciplinatha, che spaccava tanti culi, da lì in poi stava sulle mappe. Non molto più tardi sono entrato in contatto con Abbiamo Pazientato 40 Anni. Ora Basta! e Crisi Di Valori (entrambi occupavano il lato A di una cassetta registratami da un amico più grande particolarmente illuminato; non ricordo cosa stesse sul lato B, fosse pure una compilation di rutti e scoregge, stessa differenza. Ero annichilito). È stato allora che la mia testa è esplosa. La storia è la stessa di altre rivelazioni: mai sentito prima roba del genere, mai più ne avrei trovato l’eguale. Nessun punto di riferimento conosciuto al quale appigliarmi, niente. Solo luce accecante e febbre come manco a Calcutta nei giorni aggressivi, improvvisamente benzina al posto del sangue nelle vene, bruciare di vita come la capocchia di un fiammifero quando frizionata a dovere. L’anno prima avevo ascoltato Psalm 69 dei Ministry, mi aveva mandato fuori di testa ma ora era merda al confronto. Fuori tempo massimo, oltretutto: questa roba era uscita nel 1988 e suonava diversi megatoni più feroce, fuori asse, minacciosa, destabilizzante. Non era metal, non era hardcore, non era industrial, non era noise; era qualcos’altro. Ostile, irraggiungibile, infinitamente più cattivo, e faceva più rumore. Meraviglioso. All’apparato iconografico sono arrivato poi. Altre bombe nel cervello, pari almeno alla musica: la busta interna di Abbiamo Pazientato 40 Anni. Ora Basta! era un delirante collage di citazioni, Saint-Just, slogan dell’Autonomia, Sylva Koscina (“Sarei felice di avere un figlio nell’arma dei carabinieri”), marchi infilati a sfregio, del tutto a tradimento (Enrico Coveri, Fiorucci), la lista dei ringraziamenti (anzi, del rispetto dovuto a) comprendeva tra gli altri Francesca Mambro, i Public Enemy (incluso il loro “servizio di sicurezza” S1W), gli SPK, Snake Plisskin (scritto proprio così: Plisskin), Peter Sotos e Lucio Battisti. Come ampiamente prevedibile, nessuno aveva capito un cazzo all’epoca: certi riferimenti, certe allusioni, dal momento in cui le tiri fuori, comunque poi le paghi per la vita. Il dito e la luna, sempre la stessa merda. Ci avrebbero pensato Lindo e Zamboni a redimerli agli occhi del pubblico del rock indipendente italiano (che becero era e becero resta, ma cacciava soldi per dischi e concerti, per mantenere in vita questa cosa, e senza domanda non ha senso ci sia offerta), fornendo loro una nuova verginità artistica e una credibilità underground via necessaria ripulita dai ganci “scomodi”. ‘Distruggere il mostro dall’interno‘ è una cazzata che giusto a Lars Ulrich poteva venire in mente: se vuoi andare avanti tocca che ti conformi alle regole del gioco, altrimenti verrai emarginato, isolato, fine pena mai. Adeguamento, altrimenti alle feste dell’unità col cazzo che ci vai (se non come spettatore). Mezzi per un fine, come dicevano i Joy Division.

[“Non siamo di destra, anzi, siamo buoni”.
Questa frase, quasi nascosta nel retro di Crisi Di Valori, rimbalza a potenza di fuoco centuplicata tutta l’odiosa, ripugnante ipocrisia e il profondissimo fascismo insiti nel pensiero unico. L’incontestabile arbitrarietà nella suddivisione manichea tra “buoni” e “cattivi”, tra “giusto” e “sbagliato”, operata dogmaticamente, in tempi troppo lontani per poter risalire ai veri colpevoli, seguendo criteri imperscrutabili, peraltro confondendo clamorosamente i bersagli (in malafede o meno che importanza ha, sono i risultati che parlano), identificando come tali le persone sbagliate: falsi ideologici le cui devastanti conseguenze stiamo pagando con gli interessi e pagheremo, e con noi generazioni incolpevoli se non del fatto di essere venute al mondo. Che i Disciplinatha fossero avanti di quei trenta/quarant’anni o la loro fosse una semplice reazione uguale e contraria al pensiero unico di cui sopra, stessa differenza: comunque, avevano visto lungo e avevano visto giusto.]

Avevo comprato una maglietta dei Disciplinatha veramente orrenda, ma proprio disgustosa. Ce l’ho ancora, mezza sbrindellata, ogni tanto la metto. È un pugno in entrambi gli occhi veramente potente, una via di mezzo tra la copertina di un tascabile di William Gibson e i lavori grafici più semplicistici e scrausi dei primi anni novanta: font improbabili, colori fastidiosi, immagine che si gonfia al centro tipo pallone aerostatico, una vera merda. Però a quella maglietta sono legato come a pochissime altre (allo stesso livello, per motivi diversi, forse solamente quella della Rollins Band con scritto “part animal part machine” all’altezza del cuore), perché mi ricorda uno dei periodi più belli della musica italiana nella sua globalità, forse l’unico che abbia vissuto in presa diretta e possa dire di ricordare con piacere, perfino con orgoglio. History in the making: da una parte l’hip hop, dall’altra un diluvio di gruppi con gli strumenti collegati a un amplificatore che rifiutavano sul nascere qualsiasi forma di appartenenza, di catalogazione, per evitare sul nascere di finire incasellati dentro qualcosa di specifico e predefinito. Chitarre distorte (quando c’erano, non sempre) e via andare, il più delle volte spingersi in territori sconosciuti, inesplorati prima di allora, con esiti incerti, l’importante era gettare il cuore oltre l’ostacolo. Esisteva un mercato, cose del genere potevano ancora succedere. Il CPI avrà avuto difetti ma certo non mancava di coraggio nell’abbracciare fino in fondo, fino alla fine, scelte imprenditoriali spesso suicide a voler essere ottimisti. Non ha mai compiaciuto nessuno, fosse anche solo per questo merita rispetto. E poi, quando infilava il disco, quali meraviglie: Acid Folk Alleanza, EstAsia, Wolfango, Il Grande Omi, la colonna sonora di Tutti giù per terra (che per come era assemblata era una cosa viva, problematica, pulsante, molto più e molto meglio del film stesso), roba che il cervello te lo scardinava, a volte lo mandava in frantumi altre lo incrinava soltanto, comunque non lasciava mai il tempo come l’aveva trovato. Mi arrivava per posta Il Maciste, bollettino informativo dell’etichetta, delirante e scalcinato ma la passione era contagiosa, autentica, lo avrebbe capito un cieco. Non ricordo perché sia finita. Soldi, probabilmente. Gente così non ne esiste più, hanno buttato via lo stampino.

C’ero all’ultimo concerto dei Disciplinatha (nel 1997; la reunion, una tantum o meno, per me non esiste). Ne porto ancora i segni addosso. Un tifone avrebbe provocato meno ferite a livello psichico. New dawn fades (tra le pochissime cover dei Joy Division ad avere un senso, forse solo Transmission rifatta dai Nomeansno e davvero poco altro), Un Mondo Nuovo eseguito praticamente dall’inizio alla fine, poi la roba vecchia, Leopoli, “questa è davvero l’ultima” e parte naturalmente Addis Abeba, un nodo in gola che ancora oggi non riesco a sciogliere, sotto al palco l’equivalente di un’inondazione di carne, ossa e sangue che non accenna a placarsi, fino a quando l’ultima nota si dissolve ed è fin troppo brutale la consapevolezza che questa è la fine di qualcosa. L’intensità a tratti insopportabile del rilascio emotivo di quella sera mi impedisce ancora oggi di analizzare con lucidità quel che è successo, qualcosa che sono grato di avere attraversato, anche solo di striscio. Renderlo a parole un compito nemmeno ingrato, semplicemente impossibile. Forse se avessi visto un concerto in cui i membri della band al completo alla fine si fossero sparati in bocca potrei dire di avere qualche termine di paragone, ma questo non è successo (ancora).

Una lezione di etica. Da lì ho imparato, ma imparato davvero, che ogni cosa che inizia ha una fine, nella musica come in qualsiasi altro aspetto dell’esistenza, e quando arriva il momento di chiudere è finita e stop. Prima di loro, allo stesso livello, soltanto Sandy Marton a mia memoria: mollare il colpo senza ripensamenti quando ancora la libertà di movimento lo permette e di energie da spendere ce ne sarebbero pure, avvertire che la fine di un ciclo è arrivata e assecondare il flusso, rendere il podio per evitare sul nascere che si trasformi in una cosa grottesca, un teatrino. Fedeli a una linea che probabilmente sta soltanto dentro alla propria testa, l’essenziale è voltarsi indietro mai. Poi Sandy Marton è tornato a fare il pagliaccio in giro, vecchio, bolso, lo stesso repertorio di trent’anni fa; l’ho anche visto, con questi occhi, esibirsi nel parcheggio di un centro commerciale assieme ad altri residuati bellici. Gazebo, i Righeira. Lezione anche questa. Anche i Disciplinatha sono alla fine tornati, preferisco ignorare questo particolare.


Non sei tenuto a venerare la tua famiglia, non sei tenuto a venerare il tuo paese, non sei tenuto a venerare il posto dove vivi, ma devi sapere che li hai, devi sapere che sei parte di loro
.
(Philip Roth – La Macchia Umana)

Parte dei Disciplinatha viene da Bentivoglio, ma è stato Bologna il loro quartier generale. Bologna, il posto dove sono nato e cresciuto. Ho amato la mia città in maniera incondizionata, totale, spesso disperatamente; un amore rimasto invariato da quando ho memoria, di un’intensità che non so spiegare, abbracciandone i lati positivi e comprendendo, a volte sopportando, quelli negativi, comunque riconoscendoli e accettandoli dal primo all’ultimo, fino al più deleterio, impegnativo e mortificante, fino alla più malsana e deviata delle dinamiche sociali, fino al più infinitesimale degli infiniti coacervi di contraddizioni, fino alla consunzione e oltre. In questo senso, Questa non è un’esercitazione fa male. Fa sanguinare il cuore, dalla prima all’ultima inquadratura. È come ritrovare in qualcun altro quello stesso amore, incondizionato e totale, che non credo sarò mai in grado di descrivere pienamente. Gli anni passano ma il sentimento è lo stesso, resta uguale, anzi, più il tempo continua a scorrere più il senso di appartenenza si cementifica in me. Qualcosa che travalica l’attaccamento alla zolla e ha zero a che vedere con politica o religione o qualsiasi altro tipo di fede dogmatica. Ci sono tante riflessioni in Questa non è un’esercitazione, tutte che valgano la pena di essere ascoltate, e tante immagini, tutte che valgano la pena di essere viste. Di una cosa sono assolutamente certo: non sarebbero potuti esistere altrove i Disciplinatha.

 

7 thoughts on “QUESTA NON È UN’ESERCITAZIONE”

  1. Premessa: non sono di Bologna, ne’ ho mai frequentato l’ambito bolognese (son della provincia di Vicenza: magnagati e Palladio).

    Uno dei pochi rammarichi che ho rispetto ai concerti cui potezialmente, avrei potuto esserci riguarda loro: non li ho mai visti dal vivo (non per una questione anagrafica, vado per i 40 ormai), ma per gusti e scelte personali che mi portavano ad apprezzare più il versante torinese Africa Unite – Loschi Dezi / Mau Mau – Fratelli di soledad – LouDalfin – … e tutto il mondo Posse. Poco dopo, quasi contemporaneamente ho allargato gli orizzonti a tutto il mondo dei CCCP/CSI e a tutta la compagnia CPI, dai Marlene agli Afa, dai Santa Sangre agli Ustmamò, etc. perfino Yann Tiersen e i Venus passarono di là! COmunque sia, anch’io li ho scoperti all’epoca di “Un mondo nuovo” ed ero anch’io un affezionato abbonato del Maciste. Mi ritrovo in tutto (o quasi) di quanto hai scritto e la novità di “Questa non è un’esercitazione” e il suo lento costituirsi l’ho seguito con interesse online, fino all’agognata pubblicazione. Ricevere il DVD e finalmente capire a fondo certe dinamiche è stato, a suo modo liberatorio: all’epoca non avevo la consapevolezza per stare dentro fino in fondo a quelle storie, anche se ho ascoltato e consumato tutti e 3 i loro dischi. Resta la certezza che sono stati gli unici a far risuonare con una voce diversa tutte le contraddizioni di un’epoca e di un tempo, di una storia che fatica a trovare posto nelle nostre menti. e per comprendere le dinamiche di uno stato contradditorio per natura.
    Amen
    PS: ho incontrato e reincontrato Parisini ai concerti degli IANVA, forse l’unica band che possa vantare una solida statura artistica che va nella direzione indicata dai Discipilnatha. Ma il tempo è diverso e la storia si evolve, il paragone “non regge e l’evidenza sfugge” [cit.].

  2. comunque quelli di destra “sono” cattivi, dei mostri di iniquite servaggio, dei focolai di violenza che non si periterebbero di usare se solo fosse loro garantita l’impunità, siamo noi “normali” con le nostre naturali inclinazioni a non dover diventare come loro

    questo tanto per mettere in chiaro che se mi parli di provocazione punk ci sto, ma se poi tiriamo fuori gli antemarcia ianua o come si scrive finiamo per fare di tutta un’erba un fascio

  3. tagnin non ci hai capito un cazzo. dei disciplinatha e di tutto il resto. state ancora a farvi le seghe su “chi è ‘fascio’ e chi no”. grandi ianva e grandi disciplinatha.
    non ve li meritate. neppure tra trent’anni.

  4. tagnin….vai sul sicuro,non ti avventurare in territori che potrebbero minare la tua coscienza…ci sono i mcr e Guccini,ascolta quelli

  5. sono un fan dei Disciplinatha da quando so che esistono (molto tempo dopo il loro scioglimento). Sono iscritto all’ANPI. Prima di vedere il documentario ero sicuro al 100% che non fossero fasci. Ora che ho visto il documentario sono sempre sicuro che non lo siano, ma sono anche convinto che siano delle colossali teste di cazzo. Sentirli parlare mi ha fatto sgonfiare mezzo marone, mi ha fatto tornare al (breve, per fortuna) periodo della mia vita in cui odiavo gli artisti e li volevo tutti confinare su un pianeta il più lontano possibile da questo. Mamma mia che amarezza. E poi Barnard. Ma che cazzo.

  6. anche per te stesso discorso…ci sono tanti discorsi rassicuranti della Bolbrini in rete…ti metti li comodo e aspetti il 25 aprile con la convinzione che sei un combattente

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