
BUDAPEST – La domanda è semplice: perché in Italia non si riesce a organizzare un grande raduno come quello ungherese del Sziget? Dall’11 al 18 agosto, sette giorni di grandi eventi musicali in un’isola sul Danubio non a caso denominata “island of freedom”, “isola della libertà”. Colpa dei promoter, lupi solitari? Delle rockstar litigiose e un po’ invidiose? Della politica poco sensibile all’universo giovanile e più in generale alla cultura? O è la burocrazia asfissiante, nonostante la recente legge Bray? Il paradosso è che proprio allo Sziget gli italiani, sia come partecipazione di pubblico che per numero di artisti presenti, fanno proprio una bella figura. Non è finita: uno dei palchi più interessanti è lo Europe Stage, promosso, tra gli altri, da L’Alternativa – Sziget Italia e Puglia Sounds: tutta roba italiana, insomma. Un’oasi, quella all’interno del Puglia Village, che si è distinta per l’accoglienza, l’organizzazione e l’offerta musicale (qui si sono esibiti, oltre a interessanti band straniere, anche gran parte degli italiani). Dopo la grande industria automobilistica anche quella musicale deve trasferirsi all’estero per ottenere i risultati migliori? Altro segno della decadenza italiana? Lo abbiamo chiesto a tre degli artisti italiani che hanno suonato nel festival ungherese: Caparezza, Diodato e The Bloody Beetroots.
Questo in corsivo è il paragrafo introduttivo di un pezzo su Repubblica nel quale si riflette in merito a non so bene cosa, o meglio lo so ma fingo di non: l’assenza di un festival musicale italiano, basato in italia, che abbia respiro mondiale. Il titolo dell’articolo, nientemeno: “SZIGET, IL FESTIVAL CHE POTREBBE SALVARE L’ITALIA“. La prima volta che ho letto un pezzo del genere era su qualche rivista musicale e io avevo probabilmente diciassette anni, ed era un modo come un altro per discutere dell’arretratezza culturale del nostro paese che distrugge sistematicamente i sogni di chi vuole vedere musica dal vivo in quello specifico modo. Pensai che fosse un mondo intero di concetti nuovi e possibilità, mi feci un po’ di idee sull’argomento (quasi tutte noiose o sbagliate) e passai oltre. A ventidue anni scoprii che l’emorragia di pezzi “perché non c’è un Lollapalooza italiano”, con una lista di colpevoli lunga un braccio e nessuna denuncia che parte mai davvero, era un classico di ogni fine estate, tanto per la stampa specializzata quanto –soprattutto- per quella generalista. Oggi ho trentasei anni, ho letto l’ennesimo pezzo su questo argomento e vorrei più o meno raccontare perché sono preso male.
Per prima cosa c’è l’idea di considerare progressista, a qualsiasi titolo, un festival UNGHERESE con un palco PUGLIA SOUNDS in cui si esibisce CAPAREZZA, un’idea che probabilmente sono il solo a considerare balzana e stronza e perdonate tanto i maiuscoli. Comprendo che questa cosa sia un punto personale, ma i pugliesi potrebbero tranquillamente farsi i loro festival in Puglia, con qualche artista pugliese, qualche dj pugliese e magari un ospite internazionale tipo Steve Aoki. Qualcuno potrebbe essere stupito sapendo che queste cose in Puglia succedono già.
Seconda cosa, l’industria automobilistica. Ci torno poi, magari.
Terzo, l’idea che qualcuno possa considerare Diodato un personaggio con la caratura da opinionista. Sia chiaro, non ho niente contro Diodato, gli ho solo sentito cantare un pezzo a Sanremo, una canzona strappalacrime tiratissima e sanremese (anzi ho una singola cosa contro Diodato: gli ho sentito cantare un pezzo a Sanremo, una canzona strappalacrime tiratissima e sanremese, con addosso una maglietta di Daniel Johnston). È solo che non l’ho mai visto a nessun concerto/festival di musica in Italia, manco per sbaglio, manco di traverso; magari era tra il pubblico, ma sul palco no –di base perché fa musica che ai festival di musica di solito non viene presentata, a torto o a ragione, e quindi magari potrebbe essere il cinquecentesimo (in ordine di interesse) da intervistare in un pezzo nel quale si spiega perché nei festival italiani non suonano artisti esplosi a Sanremo o nei talent show o tutta quella roba.
Quarto, il titolo dell’articolo. Quando è successo di preciso che un festival musicale, con o senza Caparezza headliner, abbia SALVATO uno stato sovrano? SALVATO in che senso? Rilanciato la sua economia? Unificato popoli di etnie diverse? Creato un nuovo clima culturale? Fornito cure mediche o aiuti umanitari necessari alla popolazione? È vero che ultimamente Repubblica sembra essere abbastanza alla mercè del caso per quanto riguarda i titoli: è scappato un “negro” da qualche parte, per dirne una che ho trovato nel momento in cui scrivo. Suppongo che il titolo sia stato scelto perché un titolo più obiettivo rispetto al pezzo, tipo “Sziget, il festival che potrebbe fare la patta in Italia”, non suonava benissimo.
(intervallo)
C’è un discorso interessante che riguarda il modo in cui una notizia diventa una notizia. L’espressione click-bait sta diventando molto ricorrente (click-bait si dice dei contenuti pubblicati al solo scopo di generare traffico, ho visto linkata un’analisi interessante stamattina all’alba in fase di risveglio); in generale è abbastanza evidente che un pezzo come quello linkato su Repubblica sia sintomatico di un certo tipo di fare informazione nell’epoca contemporanea –da cui io, perdendo un’ora a scrivere un pezzo su una questione così futile, non sono peraltro esente. Tra le righe del pezzo ci sono alcune cose interessanti:
– Chi scrive (Michele Chisena) non sembra essere stato inviato al festival, non sappiamo se per scelta o per budget, o comunque non ha sentito necessario renderne conto dal punto di vista dell’esperienza diretta.
– Tra gli innumerevoli tagli che si sarebbero potuti dare dare ad un articolo su un festival musicale, si è scelto di non parlare della musica. La questione-musica è deputata ad un altro articolo, linkato nel pezzo, che ha tutta l’aria di un redazionale.
– Tra gli innumerevoli tagli, si è scelto di porre specificamente una domanda: perché non esiste una risposta italiana allo Sziget? È strano a dirsi così, perché i tre artisti nominati nell’articolo di cui parliamo non hanno problema a suonare in Italia, potenzialmente anche a dei festival, potenzialmente anche tutti in un singolo festival, per giunta gratuito o comunque trasmesso in TV (il concertone del primo maggio, Sanremo, Coca Cola Live, Festivalbar e quel che volete). Il punto è che se la risposta italiana allo Sziget è un festival con Caparezza Beetroots e Diodato, è la risposta ad una domanda che nessuno sano di mente si sognerebbe di porre.
– Come dicevo sopra, il pezzo si permette un paragone tra festival musicali italiani e industria automobilistica italiana, mettendo nero su bianco che si è trasferita all’estero per ottenere i risultati migliori. Naturalmente è vero. La cosa interessante è che il paragone non serve al pezzo, è una sorta di bonus economico per fare legna di concetti più o meno casuali; considerando il fatto che stiamo parlando di un problema piuttosto importante nella nostra economia, la cosa fa male. L’industria automobilistica italiana si è trasferita all’estero soprattutto perché all’estero i costi di produzione sono più bassi, cioè pagano meno gli operai. È probabile che nessuno si sia posto la domanda, ma un’analogia del genere cosa ci dice dell’industria musicale italiana? Che i grandi festival italiani non potrebbero stare in piedi perché chi ci lavora vuole percepire un salario congruo?
– Il pezzo indica una mezza dozzina di colpevoli ma non fa un nome che sia uno. Nelle interviste vengono citate cose tipo “lo stato”, “le autorizzazioni”, “la burocrazia”, “i promoter”. È una pratica molto comune, ha padri nobili (quando Pasolini scriveva “io so i nomi” e poi non faceva i nomi io non c’ero, ma credo che il pezzo avesse un suo senso, ok, non parlava di musica) e tanti di quei figli e nipoti da essere diventato un modo come un altro di intossicare l’informazione. Avete mai letto un articolo (in generale, mica solo su Repubblica o sul Corriere) che spieghi per filo e per segno come funziona? A me non pare di averne mai letto uno. Nel momento in cui chiude un locale viene a generarsi una serie di opinioni pubbliche che si basa su informazioni incomplete o del tutto mancanti: il posto non era in sicurezza, dice chi l’ha sgomberato. Avevamo fatto le modifiche e sono arrivati nuovi controlli, dice chi lo gestiva. I vicini si lamentavano, dice chi lo frequentava. Uno legge e prende posizione sulla base di quello che pensa: io preferisco che musica alcool e droghe siano presenti nella mia città, e sono sempre contrario alle chiusure. Qualcun altro preferisce silenzio e sobrietà, ed è sempre a favore.
– La persona che firma è in buona fede. Non stiamo parlando di qualcuno che scrive di qualcosa con la coscienza di essere fuori contesto e al servizio di chissà quale scopo ideologico. Stiamo parlando di un normale giornalista musicale con (suppongo) una normale formazione da giornalista musicale che cerca di raccontare un grande festival europeo utilizzando un’impostazione che secondo lui ha senso e può interessare il lettore, sollevare quesiti che pensa possano/debbano essere sollevati, cercare di dare una risposta affidandosi a certe voci, eccetera.

Andrea Pomini, un paio di settimane fa, aveva posto un problema legato alla storia che viene raccontata in due foto sulLa Stampa, una accanto all’altra. È un pezzo eccezionale, leggetelo. L’articolo di Repubblica (e molti pezzi sullo stesso taglio) pone molti più problemi di quanti sembrerebbe porre a un primo sguardo. C’è un complesso di arretratezza e sottosviluppo, basato su indicatori stupidi o sbagliati, che ci pone a considerare l’Italia il posto in cui la cultura se ne va a morire male. Nessuno fa niente perché questa cosa è fondamentalmente falsa. Personalmente, parlando di prestigio internazionale, vedo molti più buoni artisti italiani che non spagnoli o ungheresi (volendo tirar fuori stati in cui esistono grandi festival musicali).
Un’altra cosa è il modello culturale a cui ci riferiamo. Siamo usciti da un’estate in cui era possibile recarsi a un buon festival musicale ogni settimana: Ypsigrock, Radar, Siren, Umbria Rock, Lucca, Beaches Brew e dio solo sa quanti altri, senza contare le decine di festival fatti con (buoni) artisti italiani e le cose tradizionali e tutto il resto. Molti weekend toccava scegliere se andare a un festival piuttosto che a un altro. D’inverno i vari Dissonanze/C2C/Angelica/Netmage e simili. La principale differenza tra questi festival e un grosso festival internazionale, o un Heineken Jammin’ Festival, è che a quelli che ho elencato sopra ci si va per stare bene. Un bel posto fuori dalle metropoli, campeggi medio-piccoli, alberghi puliti, possibilità di mangiare spaghetti alle vongole spostandoti di trenta metri e spendendo il giusto. In più di un senso, da quando sono nato questo è di gran lunga il momento più florido ed eccitante per la musica dal vivo in Italia. Sapete qual è il modo di far crescere culturalmente una nazione? Di farla crescere davvero? Andare a questi festival. Fare in modo che l’anno successivo abbiano due gruppi più grossi in cartellone. Farli funzionare al punto che qualcun altro vorrà organizzarne di nuovi, farli rientrare col biglietto e il bar e magari, sì, qualche migliaio di euro allungato dal settore pubblico.
L’articolo, e la nostra cultura in generale, non prendono in considerazione queste realtà per svariati motivi. Il principale è la loro scarsa rilevanza dal punto di vista, diciamo, televisivo: luci sparate a bestia su un pubblico accalcato che urla ubriaco il testo di Albachiara in faccia alle telecamere. Da quel punto di vista, quello che serve per SALVARE L’ITALIA è un festival mastodontico, che porti ottantamila persone all’area parcheggio della Fiera di Rho a sentire gruppi tipo QOTSA e magari, incidentalmente, Mount Kimbie o Deadmau5. Pubblicità di birre cattive ad ogni angolo, gente collassata nel cemento con la maglietta dei PJ innaffiata di birra, cessi chimici e bandiere sarde a strafottere. A un certo punto magari uscirà anche qualche articolo sul fatto che questi eventi, Mount Kimbie o meno, non segnano nessun progresso culturale ma una diversa forma di asservimento, un’idea di musica fondamentalmente sbagliata, una brutta forma di elefantiasi e l’ennesima celebrazione del fanatismo musicale come esperienza totalizzante, militare e (nelle sue punte più estreme) vagamente fascista.
E poi certo, esistono buoni festival musicali in Europa, un pelo più a misura d’uomo, nonostante ospitino cinquantamila persone. Una cosa che non viene detta nell’articolo: gli italiani che avrebbero interesse ad andarci ci vanno già. Comprano il biglietto online, prenotano un volo online (che costa meno di quanto costi fare trecento chilometri in autostrada qui da noi), si presentano ai cancelli in orario e iniziano a riempire Instagram. Come è giusto che sia, tra le altre cose: la notizia è passata un po’ sotto silenzio, ma qualche anno fa i paesi europei hanno abbattuto le frontiere ed iniziato ad adottare una moneta unica.
condivido totalmente tranne la tua preoccupazione per la buonafede del giornalista, non è la prima volta quest’estate che Repubblica esce con pezzi totalmente a cazzo sugli argomenti più disparati, imho è perché i titolari sono in ferie e le riserve fanno pietà
vebbè, sempre meglio che lavorare, diceva qualcuno
Come sempre hai ragione da vendere. Gli unici due festivaloni che ho fatto furono il Gods quando venne a Bologna che avevo 18 anni (tre giorni, se non sbaglio) e, appunto, una giornata di Sziget quando per curiosità ci ho fatto un salto con i miei amici al termine della nostra vacanza in bicicletta lungo il Danubio da Vienna a Budapest (fatevela, vacanzona). Dello Sziget ho giusto qualche vago ricordo: un palchetto fuori con una band qualunque che faceva una cover di Smells Like Teen Spirit, la coscia sudata e appiccicosa di una ragazza in minigonna durante il concerto dei Crystal Castle, la sgnappa asiatica che suonava insieme allo sgnappo degli Xiu Xiu e, soprattutto, quei ciccioni sessantenni degli Helloween che urlavano qualcosa tipo ARE YOU METAAAL. Il giorno dopo i miei amici ci sono ritornati, io ho preferito farmi un giro in bici per Budapest.
Tutto questo per dire cosa? Che effettivamente a pensarci bene quei festival lì sono un trappolone non da poco: mettono insieme talmente tanti gruppi talmente diversi che è impossibile non restare quantomeno interessati all’offerta. Salvo poi rendersi conto che di quei gruppi lì solo uno ti interessava sul serio, mentre gli altri erano lì solo per farti dire “Massì, buttiamo pure un occhio a questi qua” e non farti capire che invece avresti sprecato 45 euro (più acqua e cibo), 6 ore di potenziale visita di una città straniera e litri e litri di sudore,
Quoto fortissimo. Non capisco come si fa a preferire un singolo Heineken jammin’ a 20 festival minori, da diciamo 5.000 spettatori a botta. Non avranno gli headliner giganteschi, ma cazzo, a livello di stress, costi e fatica non c’è paragone. E lo dico avendo partecipato quest’estate sia al festivalone (Rock in idro) sia al festivalino (Arezzo Wave, ormai minuscolo rispetto a com’era prima del 2006)
Io invece non concordo su alcune cose. principalmente mi sembra che debbano esistere entrambi gli eventi, altrimenti si continuano ad incensare festival nostrani fatti con poco budget (giusto, giustissimo per carità) che però ospitano altrettanti gruppi nostrani che non mi vergogno a definire molto molto sotto la media dell’accettabile.
C’è in giro, da qualche anno, l’idea che quattro chitarre scordate e la fascia alternative messa sulla testa possano fare cultura ed arte musicale. Il grosso festival deve servire anche da cultura musicale. Il grande artista è un esempio, un sogno, ha un messaggio ma soprattutto rappresenta qualcosa. Basta, vi prego basta, e rendere ogni cosa che si fa in italia superiore o meglio fatta. Ci sono gruppi italiani tanto incensati che all’estero, giustamente, non venderebbero una copia. O lo diciamo chiaramente, o continuiamo a prenderci in giro
ecco allora diciamolo chiaramente, caccia fuori dei nomi e magari ne parliamo. stanti così le cose mi sembra un intervento fuori contesto, ecco.
Il pezzo è una figata.
Lo dico al netto del fatto che parla di 500 cose diverse di cui ne ho capite come al solito probabilmente la metà e all’altro 50% ho dato una mia interpretazione che influisce sulla valutazione.
Quindi, in media, il pezzo è un sì gigante.
Se credo sia incontrovertibile lo sbaglio nel taglio di Repubblica, mi pare un controsenso in termini citare come esempi di “QUI LE COSE VANNO BENE” roba come il Radar, che è stato di fatto chiuso. Se le cose vanno bene perchè c’è gente che vuole fare, c’è altra gente che vuole suonare e altra ancora che vuole andare a stare bene (cit.) allora ok, siamo d’accordo. Però scrivere un pezzo in cui si dice anche che le cose non vanno bene perchè in un altro paese a caso con la fortuna di avere così tanta volontà in chi ci vive, le cose sarebbero molto più floride e fighe sotto l’aspetto musicale per me serve.
Se, come dici tu, in spagna e ungheria non hanno un decimo della nostra SCENA (prendo per vero e ci butto una parola a caso) allora cazzo tanto di cappello per aver messo in piedi cose che sì, saranno anche carrozzoni molto distanti dal tuo concetto di festival utile, ma che comunque danno modo a tantissimi di noi di prendere un aereo, intasare instragram e ripensare al concetto di vacanza estiva.
Mi è capitato di andare all’estero per concerti, ho visto una band di ragazzini che fa un genere che schifate tutti (giustamente) suonare su un battello intorno a Manhattan e pensare “GLI AMERICANI SONO AVANTI ANNI LUCE”. Poi però un gruppo HC figo di Monza, con membri che conosco da anni, suona su un tram che gira per Milano facendo una cosa del tutto analoga e parimenti figa, ma non ci sono andato. E quindi il problema è certamente anche mio.
Io non sono stato a grossi festival nel mondo e manco a piccoli festival nel mondo. Parlo senza sapere. Ma io non credo che la gente prenda un aereo per andare a sentire i Converge coi volumi a cui devono suonare al magnolia (parlo della penultima volta, l’ultima non c’ero), o i NOFX coi volumi a cui li ho sentiti a Bergamo. Perchè diciamo che per quanto mi riguarda l’etica e il fare la cosa giusta arrivano fino ad un certo punto. Prima ci deve stare 1) avere gruppi che mi interessano e 2) vederli in condizioni accettabili. Se no anche se farei del bene a partecipare, me ne sto a casa.
Chiudo perchè ho rotto il cazzo abbastanza. Però mi chiedo se ultimamente prendi un penny ogni volta che usi la parola FASCISTA. 😉
sulla parola “fascista”: ogni tanto torna a galla, è uno di quei periodi così, in cui vedo fascisti ovunque.
sulla cosa del Radar: il Radar è un caso molto particolare di chiusura, che abbiamo AFFRONTATO in separata sede.
http://www.bastonate.com/2014/08/06/dime-can-italian-libero-califfato-antiestate-veneto-ovvero-basta-non-sonemo/
sul rapporto tra SCENA e tutto il resto: non so che dire. per prima cosa ho cercato di stare fuori dalle interpretazioni economiche perchè non ne so, ecco, non vuole essere un articolo propositivo. suppongo che se questi eventi generassero una vallata di utili qualcuno li avrebbe già messi in piedi: in italia abbiamo gente cazzuta che organizza eventi. per quanto riguarda il resto, credo che le grane succedano in un sacco di festival. un anno rischi la vita a Roskilde e un anno ti tagliano i volumi su un palco a Sziget.
il mio LE COSE VANNO BENE comunque ha solo un senso: in Italia ci sono più festival di musica adesso di quanti ce ne siano mai stati. sono disposto a essere smentito. Nessuno di questi festival è il Primavera, verissimo, ma se in Italia a giugno prossimo ci fosse un Primavera non sarebbe indice nè di progresso nè di regresso culturale. sarebbe indice di un festival.
invece dieci festival piccoli in più, in cittadine piccole, frequentati da gente più o meno del posto e in cui suonano gruppi meritevoli, magari gli stessi che il tizio sopra non nomina e definisce “molto sotto la media dell’accettabile”, ecco, quello per me è un segnale culturale incoraggiante.
Ma che il tizio di Repubblica cazzeggi sono d’accordo, come sul fatto che avere tante realtà sia indice positivo. Il punto è solo: noi non abbiamo un Primavera perchè non vogliamo o perchè non possiamo? Se la risposta è la prima, allora vale tutto. Se invece la gente che si rompe il culo per fare cose tipo il RADAR avrebbe la volontà per farle diventare sempre più grandi e importanti, ma di fatto non glielo si permette, allora c’è un problema.
E qualcuno dovrebbe trattarlo questo problema, con i modi e i temi giusti.
(Il pezzo sul RADAR l’avevo letto e ne ho letti pure molti altri a tema. Lo prendo come esempio perchè secondo me funziona molto bene nei termini che cerco di porre)
Tutto condivisibilissimo, a parte il fatto che lo Sziget resta un festival fighissimo. Può sembrare assurdo ma per me il successo di un festival non dipende esclusivamente dalla lineup ma dall’esperienza generale che hai a quel festival.
Francamente la settimana che ho passato allo Sziget mi ha lasciato il segno molto più di quanto possa fare oggi qualunque festival italiano.
Poi è chiaro che magari a 36 anni sei meno interessato a fare questo tipo di esperienza e preferisci un piatto di spaghetti con le cozze ad una settimana di campeggio libero fra palchi mastodontici che ospitano artisti mastodontici che suonano sempre in perfetto orario
sono d’accordo con te. e lo dice uno che di Sziget se ne è fatti 3 di fila (2007-08-09). per intero.
l’esperienza globale è tipo, non so, IL PARADISO ecco, in special modo per chi ha gusti musicali eclettici.
che poi a festival del genere non ci si va solo per la musica: nel 2008 la bill mi faceva mediamente cagare, ma alla fine ci sono andato a scatola chiusa. si era tra amici, si è sfruttato molto del tempo per girare la città, per visitare posti, per camminare, per mangiare di tutto e per bere di tutto. è stata comunque una bellissima vacanza.
e cmq… si, a conti fatti, adesso anch’io preferirei una bella spaghettata con le vongole piuttosto che ributtarmi in quel paradiso.
a questo punto, se vi può interessare…
Sziget 2008:
http://www.lastfm.it/user/ende_neu81/journal/2008/08/21/24j14c_sziget_festival_2008_@_budapest_%28hu%29_13-180808_%28in_italian%29
Sziget 2009:
http://www.lastfm.it/user/ende_neu81/journal/2009/08/25/2ypapi_sziget_festival_2009_@_budapest_%28hu%29_12-170809_%28in_italian%29
manca quella del 2007… non l’ho mai fatta perchè quella volta ero giovane.
p.s.:
le mie scuse allo staff se spammo roba mia.
pardon!
🙂
Il finale del tuo commento è molto brutto, anche perchè nei dibattiti le opinioni andrebbero quantomeno rispettate. Secondo me è inutile girarci troppo intorno, c’è una parte della musica italiana che pensa di essere ad alti livelli, che gioca a fare l’alternative o l’indie, ma sotto sotto la pochezza è tanta. Dei nomi? L’anno scorso mi è capitato di ascoltare dal vivo i Fast Animals and Slow Kid…osceni, nessuna padronanza dello strumento, tante idee rubate qua e là. Oppure il Pan del Diavolo…roba da finti intellettuali…sono i primi due nomi che mi vengono, gente da cartellone di piccoli festival. Piccoli festival che, sia chiaro, io adoro e mi muovo per partecipare, ma che devono fare i conti con un presente della musica italiana che è preoccupante. Mi metto nei panni dell’organizzatore di un festival di una cittadina: con poco budget bisogna scegliere tra le proposte della Penisola, e qui vengono i dolori. Allora, forse, meglio mettere più risorse insieme e cercare qualche bel nome in giro.