Feel the pain è il primo pezzo dei Dinosaur Jr che ho ascoltato nella vita. Il singolo era uscito mesi prima dell’album e con un video del genere, finito in heavy rotation all’istante praticamente ovunque, sarebbe stato impossibile non notarlo. Credo con buona approssimazione quel video l’abbia visto più o meno chiunque fosse a contatto con un televisore ai tempi. Per il regista Spike Jonze, un uno-due che giustifica una carriera: nel giro di pochi mesi, quello e Sabotage dei Beastie Boys – quest’ultimo con tanto di storia assurda a motivare: doveva essere un film vero e proprio, parodia blaxploitation meta-qualcosa, roba stupidissima nei risultati e intelligentissima nelle intenzioni, si sono smagnetizzati i nastri (o sono finiti i soldi, non ricordo) e ha dovuto fare con quel che c’era, montaggio alla brutto Dio e via. Il risultato è qualcosa di ciclopico comunque sia andata (anzi, forse è pure meglio sia andata così alla fine: bozzetti appena accennati di situazioni paradigmatiche da poliziesco di serie Q, allucinogena sequela di baffi finti, occhiali a specchio, ciambelle e caffè, nomi assurdi – Alasondro Alegré mi si è tatuato nel cervello da allora – nessuna trama, niente pippe). Per Feel the pain la lavorazione è infinitamente meno travagliata e la storia molto più semplice. Una sola idea, stirata oltre il parossismo: J Mascis che gioca a golf nel centro di New York City, in pieno giorno, asfalto strade trafficate eccetera (Mike Johnson, l’unico altro membro superstite – Murph era stato silurato da poco – è il caddy). A ogni tiro la spara nei posti più improbabili, traiettorie spropositate in sfregio a qualsiasi legge della fisica, con conseguenze spesso farsesche; dopo l’ennesimo tiro mirabolante la pallina finisce sul tetto di un grattacielo al tramonto, lì c’è la buca, con tanto di tappeto verde e bandierina. Ultimo tiro decisivo, pena un umiliante bogey o peggio. La butta piano, finisce in bilico; interminabili secondi a ondeggiare sul filo di lana mentre in sottofondo l’assolo è già partito, primo piano di Mascis che fissa la palla come Christopher Walken la pistola nel Cacciatore, se Christopher Walken fosse un bradipo sovrappeso con la fissità di un tavolo autoptico, la palla va in buca, tripudio. L’ultima inquadratura resta tra le cose più stupide, becere (nell’accezione più nobile possibile) e divertenti io abbia mai visto. Dissolvenza in nero.
Erano giorni strani. Cobain morto da poco, sembrava che il mondo intero stesse immobile, col fiato sospeso, ad aspettare la prossima mossa. Nessuna direzione, il buio più totale; l’urgenza (di più: la necessità) che qualcuno indicasse la strada da seguire, quale che fosse. Per il momento c’era Feel the pain con il suo video simpatico.
Where You Been, la cosa più bella mai uscita a nome Dinosaur Jr, era improvvisamente diventato un remoto non-luogo della mente, abissalmente distante, cancellato da una fucilata (come poi tutto il resto in realtà). Non ancora metabolizzato, non lo sarebbe stato mai. Ne ha scritti tanti di capolavori J Mascis: You’re Living All Over Me, Bug, Hand It Over, Farm. Ma Where You Been è speciale. Una volta lasciato entrare in circolo è la fine, non se ne esce indenni. La portata, l’intensità del dolore che procura, che non smette di procurare, il modo in cui fa sentire, di colpo e senza ritorno, completamente inermi, esposti, vulnerabili, sono qualcosa di impossibile da descrivere, da quantificare. Non esistono armi né barriere che possano in alcun modo contrastare l’assalto frontale che è Where You Been in questo senso, a parte l’indifferenza. Si può scegliere di ignorarlo o passarci attraverso restandone intoccati; succede. Ma dal momento in cui senti che quelle canzoni ti stanno parlando, e ci sei dentro, una volta dentro sei fottuto per sempre. All’istante.
Reggere il confronto sarebbe stato impossibile, per chiunque, e J Mascis nemmeno ci prova. Il testo di Feel the pain lo scrive direttamente in studio, prima di iniziare le registrazioni, questo può far capire quale fosse il mood generale. A parte un pezzo: I don’t think so. Il solo ipoteticamente degno di venire incluso nella scaletta di Where You Been, se non altro per depotenziarne (ma soltanto in superficie) l’effetto globale. Le parole sono le stesse, i concetti gli stessi, cambia la musica: confidenziale, apparentemente disimpegnata, a rendere umanamente sostenibili, perfino sopportabili, stati della mente che sono e restano lame nella carne. Complessivamente una stilettata in pieno petto, del tutto a tradimento. Mi piacerebbe credere che lei abbia pianto per me, ma non lo so. Può essere che lei abbia pianto per me? Non credo. Parole che non smettono di colpire dove fa più male, con perizia e sadismo immutati, ogni volta che le fai girare, regolarmente in corrispondenza di un ricordo che lacera al solo manifestarsi. Il resto del disco lascia il tempo esattamente come l’ha trovato e si dimentica all’istante appena finisce l’ultimo pezzo. Almeno a me succede così, da vent’anni.
Without A Sound esce il 23 agosto 1994. Copertina orrenda, peggio del solito, niente testi as usual. Sulla scorta del video di Feel the pain diventa immediatamente il disco più venduto dei Dinosaur Jr, ma l’andazzo non dura molto; è un fuoco di paglia, una bolla che si sgonfia a velocità vertiginosa, ne sono la prova le camionate di forati che nemmeno un anno dopo invadono gli scaffali dei negozi a quasi un decimo del prezzo di partenza. Mascis se ne frega, ha altro per la testa; il padre è morto, per elaborare il lutto e tornare sulla piazza gli occorreranno tre anni. Dopo un silenzio radio praticamente ininterrotto (nel mezzo solo Martin + Me, sbracato live acustico pubblicato a nome J Mascis in cui oltre al suo repertorio massacra anche pezzi di Greg Sage, Carly Simon, Smiths e Lynyrd Skynyrd), nel 1997 dei Dinosaur Jr al mondo importa meno di nulla (a parte una risicata schiera di irriducibili, sempre decrescente). Non basta il titanico Hand It Over a risollevarne le sorti (Kevin Shields ai controlli, infatti suona come nessun altro disco dei Dinosaur Jr ha suonato mai, c’è anche Bilinda Butcher ai cori; commovente, squarci di luce a tratti accecanti, un capolavoro assoluto destinato a rimanere incompreso), ci vorrà la reunion con Barlow e Murph relitti nel decennio successivo per riaccendere interesse nelle platee. Mezzi per un fine: Beyond puro riscaldamento, Farm deflagra, riapre ferite che si scoprono ancora spalancate. Più che un disco, una tortura cinese, in costante torsione verso la pop song definitiva. con Plans quasi ci riesce. Non ho ancora sentito I Bet On Sky, continuo a temporeggiare: il ricordo del predecessore ancora brucia dentro di me. Non so, forse non lo ascolterò mai, esiste questa possibilità.
Beyond secondo me è un discone. Meno compatto di Farm ma con un sacco di ottimi pezzi. E Lou Barlow in costante oscillazione tra lo scazzato e l’incazzato.