C’è un pezzo pauroso che sta su Tied To A Star, terzo disco solista di J Mascis (quarto se si conta il delirante, devozionale Sing And Chant For AMMA; come se poi quelli usciti a nome Dinosaur Jr non lo fossero, dischi solisti. Ma comunque). Si chiama Every morning e ha girato in anteprima su più o meno qualsiasi sito e piattaforma musicale, youtube soundcloud eccetera (senza considerare quelle illegali) durante l’estate, come se nel 2014 il concetto di “anteprima” avesse ancora un senso. Ad averlo ascoltato quando è uscito si sarebbe potuto rischiare di perdere la visione d’insieme, ma questo non lo saprò mai (non ascolto “anteprime” da nemmeno più ricordo quando, di sicuro gli mp3 non esistevano); Tied to a Star io l’ho ascoltato intero e quello che so è che Every morning è il pezzo che più di tutti gli altri e fin dall’inizio mi ha sfregiato peggio di una coltellata a tradimento. Il resto del disco non è altrettanto buono: molto bene le prime cinque, Wide awake, stesso titolo del pezzo degli Audioslave che sta su Miami Vice film, con Cat Power (bella Cat Power, la meglio cosa a cui abbia preso parte dopo My blueberry nights), Stumble, che porta alla mente il secondo pezzo di Beyond che invece si chiama Crumble e questo mi fa incrinare il cervello, poi il livello scende (con picco negativo nella strumentale Drifter, due minuti e quarantacinque secondi di vuoto pneumatico). Nel complesso offre ulteriori pretesti a chi la sa lunga per ricordare una volta di più, come in una raccolta statistica di commenti ridondanti, la somiglianza dell’afasico americano con Neil Young (voce miagolante, improvvise bordate di elettricità remissive e pettinate quanto i montanari di Deliverance, squarci melodici cristallini come il cielo a luglio, tutto l’armamentario di trucchetti su cui il canadese pare abbia posto l’imprimatur nell’immaginario collettivo da sempre; anche retroattivamente, più o meno da quando esistono gli amplificatori). Nessuna meraviglia: in un mondo che c’ha le leggi sue credi che sia Ian che ha copiato gli Interpol. Per chi invece riesce a vedere oltre il dito, Tied To A Star si svela come una strana via di mezzo, non sempre a fuoco, tra Straight Ahead di Greg Sage e la summa di vagonate di misconosciuti vinili da comune hippie dispersa tra le pieghe del tempo, di quelli che trovi un tanto al chilo in quei thrift stores che restano la prova di uno dei pochissimi casi in cui non ti viene da dare completamente ragione a Henry Rollins (nello specifico, quando ha detto “Vengo dagli Stati Uniti dove niente è bello”). Every morning spicca comunque, resta comunque speciale, perlomeno ai miei occhi e alle mie orecchie: in meno di quattro minuti racchiude l’intera poetica di J Mascis paroliere, esemplificandone perfettamente la metodologia, molto meglio che in altri suoi pezzi (e iniziano a essere parecchi ormai). Una magia che non succede sempre ma quando succede resta inalterata, stesso meccanismo. Forse Every morning non ne è l’esempio migliore in senso assoluto, ma è l’ultimo.
Non è mai stato un grande prosatore Mascis – nemmeno un grande oratore se è per questo; chiunque abbia letto, visto o provato a estorcergli un’intervista negli anni sa benissimo com’è la storia – da un punto di vista puramente lessicale, il suo vocabolario è alquanto limitato. Nelle canzoni le stesse parole ricorrono spesso, certo incastrate tra loro in modi diversi ma sempre quelle restano. Parole brevi, bisillabiche quando va grassa, a esprimere concetti immediatamente decifrabili, senza troppi retropensieri, il più delle volte senza retropensieri proprio. A un ascolto distratto i testi parrebbero poco meno che filastrocche sbilenche assemblate alla meno peggio da un bambino di quarta elementare (di quinta sarebbe troppo) con seri problemi relazionali, come rimasto bloccato a uno stadio evolutivo precedente; un puro pretesto per riempire gli spazi vuoti tra un assolo e l’altro, come nei dischi di Yngwie Malmsteen, o (in altri campi) nei film di Fellini prima di venire ridoppiati in sala montaggio: potrebbe cantare una serie di numeri, l’elenco del telefono come la lista della spesa, per un orecchio non allenato sarebbe uguale (niente testi nel libretto mai). Questo a un primo approccio (ma pure al secondo, al terzo, al cinquantesimo, sempre dato per scontato che ti freghi qualcosa di quel che ha da dire). È proprio qui che risiede il talento di J Mascis: nel far sembrare i suoi testi una serie di parole a caso, che però messe insieme, in qualche modo, miracolosamente acquistano un senso e un costrutto. Quando si apre la breccia riescono a esprimere il non detto, in aperto sfregio a Leo Ferré quanto a Wittgenstein quando dice che Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Every morning è tra gli esempi in assoluto più vividi di questa magia: parte piano e ti investe senza chiedere il permesso, un altro agglomerato di particelle assemblato in maniera apparentemente randomica (d’altra parte, chissà) da cui prende forma magicamente la frase che dilania, il passaggio che riduce un cuore in briciole. Sono dettagli che si svelano lentamente, un poco alla volta; nessuna fretta. Un lavoro di sottrazione, per chi lo sa capire, un assedio. Interruttori che scattano all’improvviso nel cervello; la voce uno strumento come gli altri, le parole tasti da premere, corde da pizzicare, pelli da percuotere, stessa differenza. Ci si finisce sotto senza nemmeno accorgersene. Di colpo tutto torna, è l’istante in cui il pezzo ti sta parlando; una volta dentro resti dentro, un ascolto tira l’altro, e viene spontaneamente da essere grati che esista la parola.
Every morning makes it hard on me. Every morning makes it hard on me
Then I wake to who I’ll never be. Then it hits me, it’s the life I lead.
Every morning makes it hard on me. Piece together what could never be.
Occorrono parole semplici per esprimere concetti universali; il difficile è riuscire a trovarle e far sembrare l’assemblaggio un processo naturale, un’inezia. Quando questo miracolo accade, estasi e tormento in parti uguali (mastodontiche) per chiunque lo sappia cogliere, scatta il loop compulsivo, vorresti non finisse mai. Altri pezzi in cui è successo, limitandosi agli ultimi anni: Pieces, Plans, Over it, Is it done. In tutti i casi, momenti in cui arrivi a credere davvero che J Mascis sia il più grande scrittore di testi al mondo.
Recensione adolescenziale – ma stavolta è un complimento
“And then” è un picco clamoroso, giusta l’osservazione sullo strumentale, l’organetto mononota sul primo pezzo è un gioiellino
a parte lo sgradevole effetto collaterale di aver riascoltato gli Audioslave (“cazzo, ma sai che non me la ricordo” come se una o l’altra facesse qualche differenza, santiddio che robaccia) anch’io lo trovo clamoroso a metà ma nel complesso è sempre un bel sentire, però dei testi in sè di Mascis onestamente mi sono sempre occupato poco