Karen O

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“I don’t want to be sweating in an actual warehouse. I want that sweating-in-a-warehouse feeling in a three-million-dollar nightclub with two VIP rooms and four full bars”

(Glamorama)

Karen O agisce (l’azione di Karen O si risolve fondamentalmente nel suo vestire e nel suo cantare) in un modo che sembra richiamare indipendenza, non allineamento, libertà di espressione e assenza di compromesso, il tutto su basi più o meno pretestuose. Non c’è ragione di nutrire dubbi sulla buona fede del personaggio in sé, nel senso, è una persona che avrebbe fatto quella musica e adottato quell’immagine anche se non fosse mai salita su un palco, ma rimane il fatto che è un personaggio noiosissimo. La musica degli Yeah Yeah Yeahs è perlopiù un contenitore vuoto a cui appendere i capricci di un personaggio non-capriccioso; Karen O è una che passando non sporca. Veste spiritoso ma non ridicolo o provocante ma non volgare o insomma, un po’ così ma non troppo. Canta sopra le righe ma non urla quasi mai. I testi raramente significano/evocano qualcosa. Gli Yeah Yeah Yeahs hanno cambiato genere musicale ad ogni nuovo disco, cosa che testimonia indifferentemente resistenza alle logiche di genere o volontà di accodarsi a qualche altro carrozzone, dipende da quanto si vuole bene o male al gruppo. E in un caso o nell’altro, allineamento o non allineamento non hanno segnato niente per nessuno. Il primo disco degli Yeah Yeah Yeahs venne realizzato (meglio, promosso) allo scopo di sembrare qualcosa di grossissimo, quando era soprattutto un disco con due pezzi davvero buoni (Maps e un altro, manco mi ricordo il titolo) uscito in un momento perfetto per mettere d’accordo postpunk, ritorno del rock’n’roll e art-rock da passerella. Il maggior pregio di dischi come Show Your Bones e It’s Blitz è che non rompono le uova nel paniere ad anima viga; si adeguano a standard esistenti, non fanno troppo schifo, denotano professionalità, nessuno s’incazza quando li metti alle feste.

Ogni tanto il business è anche questo: avere a che fare con persone non particolarmente capaci ma probabilmente simpatiche, carine, non irritanti e con scarpe bianche davvero stilose, che sull’onda del loro non sembrare mai troppo fuori posto continuano a far parte del giro e a fare affari. L’unica cosa davvero irritante degli YYY è l’immagine da gruppo di rottura. Il trionfo degli Yeah Yeah Yeahs è il trionfo di una visione normativa della musica in cui ribellione e non-allineamento vengono cercati scientemente, ma completamente avulsi dal messaggio, che peraltro nel caso degli YYYs non c’è. Il vuoto generato dalla loro musica tende a far sì che sia risucchiata da se stessa, che si risolva in questi cicli iterativi devastanti che la rendono un incubo per la resistenza, difficilissimi da ascoltare dall’inizio alla fine e quasi impossibili da rimettere sul piatto (che per un rock così easy-listening è davvero bizzarro). Non a caso la potenza di un personaggio come Karen O si è rivelata più che altro negli spin-off, nei singolini da due minuti e nelle collaborazioni estemporanee. Tipo una comparsata dentro quel mattone di The Seer a cui per un attimo sembra togliere il peso specifico o la tutto-sommato-credibile versione synth-pop di Immigrant Song a cura di Trent Reznor che sta nella colonna sonora di The Girl with the Dragon Tattoo. Già nel minutaggio di un EP è difficilissimo averci a che fare.

C’è questo disco di Karen O in streaming, contiene materiale registrato a cazzo in una cameretta sette o otto anni fa, mai uscito fino ad oggi. Viene accompagnato da una confezione piena di suoi disegni che riesco solo a intuire dagli streaming, sembrano interessanti o quantomeno più interessanti dei disegni che faccio io. Le canzoni no. I pezzi sono linee vocali improbabili buttate su linee di chitarra buttate su rime di tutti i giorni che proseguono immobili e vuote per cinque pezzi e poi infilano una melodia blandamente interessante o due parole malinconiche nel modo giusto, e quello che c’era prima ti ha svuotato al punto che ti senti come se ti fosse arrivato addosso l’arrangiamento della vita. Le logiche in cui questi dischi possono essere pensabili sul mercato discografico sono fondalmente due. La prima è quella di Daniel Johnston, una persona affetta da disturbi psichici che si registra con mezzi di fortuna ed esce fuori dalla cantinetta sulla sola forza della bontà della musica. La seconda è quella di John Frusciante, un musicista famoso e riconosciuto che si chiude in camera per dare sfogo a pulsioni creative che lo portano lontano da tutto il resto. Crush Songs sembra più il disco di un’incapace che costringe il mondo ad ascoltare la propria musica, nella manco troppo nascosta speranza che il suo nome generi una sorta di sovrinterpretazione. Come sopra: non dubito manco per un secondo della buona fede di Karen O, ed è abbastanza evidente che queste canzoni siano state realizzate con un’idea chiara in testa e a seguito di un bisogno reale. Il punto è che Karen O, come autrice, non vale quasi niente.

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