Nella mia mente gli Orbital fanno parte di uno spaziotempo ben delimitato: gli anni novanta, la prima metà in particolare. Un crocevia di stili, contaminazioni, intuizioni e visioni mai altrettanto imprendibile, folgorante, schizzato, in cui il cielo non era più un limite, il futuro mai così vicino, e la tecnologia sembrava davvero il sostituto di Dio (più credibile, anche). Uscivano dischi come The White Room o Dubnobasswithmyheadman o Leftism o Exit Planet Dust, le riviste di videogiochi raccontavano di universi al cui confronto Jeff Minter o Philip Dick diventavano noiosi scoreggioni prevedibili come un gruppo di vecchie comari, il concetto di realtà virtuale una zona franca mentale alimentata da computer graphics che il cervello lo mettevano a dura prova sul serio; film strani tipo The Net o Hackers o Johnny Mnemonic (per non dire roba seria tipo Atto di forza prima o Strange days poi) gettavano ulteriore benzina sul fuoco. Internet, ancora fondamentalmente un oggetto irraccontabile e ai più sconosciuto, prendeva forma nelle teste in fiamme di sceneggiatori, scenografi e produttori esecutivi dalla fantasia inversamente proporzionale alla realtà dei fatti – sfondi monocromi dai colori improbabili (rosa, verde pistacchio) che facevano male agli occhi, velocità di trasmissione dati da far sembrare il telegrafo pura avanguardia, micidiali newsletter solo testo niente foto, eccetera; entrare in contatto con quelle schermate sconfortanti e noiose come la morte faceva comunque sentire come dentro alla Matrice. L’immaginazione sopperiva al reale come, in altri tempi, giocare a indiani e cowboy con cappelli di carta e due legnetti.
Gli Orbital erano parte della colonna sonora di questo caleidoscopico totale così pieno di promesse. I dischi, i pezzi, roba che sonorizzava il futuro, laboratori mentali dove prendevano forma concetti astratti, incorporei, vaghe linee guida destinate a deragliare verso l’ignoto il tempo di schiacciare il tasto ‘play’ sul Discman, attivando all’istante centri neuronali di cui mai avresti sospettato l’esistenza: cibo per quel 90% del cervello che il più delle volte resta inattivo. Tim Leary, Ken Kesey, Bruce Sterling e William Gibson alla console mentale, dottori psichedelici a infiammare dancefloor e cellule cerebrali senza bisogno di droghe (le avevano in dotazione). Hanno cominciato a incasinarmi le sinapsi con Snivilisation, noleggiato* senza passare dal via grazie alla copertina da minfuck istantaneo e una recensione su Rockstar che era pura letteratura cyberpunk. Da lì a ritroso: i primi due altrettanto imprescindibili, droga vera, irripetuta fusione tra techno, acid house, dance, trance e metal come soltanto i KLF prima (che in più avevano hip hop, situazionismo, sampling aggressivo, e molto altro in realtà. Altra storia) e nessun altro poi, nemmeno loro stessi. In Sides ancora molto bello, il video di The Box lacerante (il ricordo ancora di più), un portale spalancato verso quegli anni e quei tempi da una galassia lontana, un alieno intrappolato sulla Terra con troppa nostalgia di casa, micidiale; un pezzo sulla colonna sonora di Mortal Kombat (tra le più insensate di sempre, bomba totale proprio perché totalmente insensata), un altro sulla colonna sonora de Il Santo, migliore del film (non ci voleva molto), un featuring con Kirk Hammett per la colonna sonora di Spawn (agghiacciante, so bad it’s good alla N, come tutto il resto della scaletta in realtà) il resto colpi a vuoto, quel che c’era da dire era già stato detto, ed era tanto. È tanto.
Sono sicuro di non avere pensato agli Orbital un solo secondo negli ultimi dieci anni. Da qualche parte tra il 2003 e il 2004 è uscito un disco carino e si era riaccesa la fiamma, più che altro una botta di nostalgia verso luoghi (della mente e non) da tempo rasi al suolo o sul punto di; soprattutto, era il contesto a essere cambiato, le condizioni a mancare, infatti non è durata. Da allora ho semplicemente smesso di interessarmene.
Imparo oggi che gli Orbital si sono sciolti e non riesco a non sentirmi un poco più vuoto, depauperato, anche retroattivamente, anche se non frequentavo (non frequento) più quei territori da tanto, forse troppo; un’altra parte dell’adolescenza scompare, ricordi sempre più sbiaditi, lontani e difficili da rievocare, certo mai con la stessa intensità. Seguiranno progetti solisti, ma è comunque la fine di qualcosa.
*che grande invenzione i negozi di noleggio CD: pionieristici, sempre in trincea, in guerra quotidiana con la legalità, nessuna distinzione di genere – trovavi Milva come gli Aerosmith – pura arte di arrangiarsi tutta italo.