
Ogni disco di Edda lo ascolto una volta sola, dall’inizio alla fine in un’unica tirata, poi non lo riprendo più. Si incastra da qualche parte nell’ipotalamo, in un punto imprecisato tra il sonno e la termoregolazione, e lì resta. Quell’unico ascolto me lo faccio bastare per il resto della vita. Un’eredità impegnativa: il ricordo di una parola, una frase, il modo in cui la dice e l’intonazione con cui viene detta, torna fuori a tormentarmi nei momenti più impensabili, come se mi fosse appena esploso in faccia, ogni volta la prima volta; non smette di sgretolarmi, di disorientarmi riattivando sinapsi di cui il più delle volte nemmeno sospettavo l’esistenza, non ha mai smesso, mai smetterà. Un grimaldello lanciato nei buchi neri più insondabili della memoria, dove ristagnano incubi incancellabili, derive impegnative (spesso ingestibili) e pessime vibrazioni in genere. La potenza di fuoco inalterata – sempre nell’ordine di trilioni di megatoni o giù di lì. I Ritmo Tribale li ascoltavo da ragazzino, senza particolare trasporto; esistevano, questo è quanto. Ricordo Mantra, i passaggi su Videomusic tra tanta altra roba italiana con le chitarre distorte, una cover di Standing in the rain che lasciava il tempo esattamente come l’aveva trovato, Psycorsonica tra i dischi dell’anno nelle playlist individuali dei collaboratori di Metal Shock (Alessandro Verdelli, chissà che fine ha fatto), poi spariti dal tracciato e via. Non mi aveva detto molto Semper Biot, nato e sviluppatosi sulla scorta di premesse a me fondamentalmente aliene, onde che non ho mai attraversato se non di striscio, da osservatore, con stupore analfabeta e occhi ingenui di bimbo: storie abissalmente distanti, mai vissute, un precipitato verso cui sarebbe stato profondamente ingiusto, perfino disonesto, per me sviluppare empatia. Odio I Vivi in compenso mi ha disintegrato. Annientato. In un periodo della mia vita in cui letteralmente non sapevo se né in quali condizioni sarei arrivato a vedere sorgere il sole il mattino dopo, probabilmente lo spigolo più acuminato contro cui andare a sbattere. Le rivelazioni le trova chi le vuole trovare, la predisposizione è necessaria, molto più e molto prima della rivelazione in quanto tale: in questo senso, Odio I Vivi è stato per me l’incontro più lacerante nel momento più sbagliato. Tutto, ogni giro di chitarra, ogni lamento, ogni piega della voce, fino alla più disastrata delle inflessioni, mi urlava in faccia la stessa cosa: memento mori.
L’abisso non era mai stato così vicino.
Per mesi non ho ascoltato altro, intendo letteralmente nient’altro. Il che significa, nella pratica, niente musica. Bastava il ricordo, cristallizzato e immutabile; era più che abbastanza, lo è ancora. Non credo ne riascolterò mai più una singola nota. Solo ripensarci mette a fuoco e amplifica particolari di ricordi ancora troppo freschi, sempre troppo vicini. Giorni che piuttosto che rivivere da capo mi sparerei in gola all’istante, che rievocare è puro masochismo, del tutto inutile peraltro: sono parte di me, nessun bisogno di promemoria, accompagnano ogni istante della mia vita da sveglio (e pure nel sonno, se ricordassi ancora quello che sogno – non succede più da anni, il che francamente è un sollievo e una gran gioia). Forse se avessi ascoltato un disco di Bing Crosby al suo posto mi avrebbe preso uguale, forse avevo semplicemente bisogno di essere salvato (o affossato, da chi o cosa stessa differenza) in un momento in cui mai altrettanto prima mi era necessario aggrapparmi a qualcosa, e invece che sul fondo di troppi bicchieri la verità la cercavo tra le pagine di un libro o tra le righe di un testo. Quale che fosse la meccanica, ha funzionato; il processo, irreversibile.

Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia mamma, provocate da me, esisteranno ancora. Ed io non posso rimediare. Espiare soltanto.
(Dino Buzzati, I due autisti)
Ha vinto già dal titolo Stavolta come mi ammazzerai?, hands down. Deflagra fin dalle prime parole: Tutte le volte che vedo mio padre esco di casa con la voglia di ammazzare/ e un giorno voglio anche essere Dio, tanto per mettere in chiaro l’aria che tira. Mai come ora verrebbe da dare retta a Henry Rollins: non farlo tutto in una volta, l’esplosione potrebbe fermare il traffico. E invece, in qualche modo. Il resto, tutto il resto, è sulla stessa lunghezza d’onda, lo stesso livello di intensità ben oltre l’umano, lui pansessuale come manco Genesis P. Non cambia la sostanza, né la portata della cosa, né gli effetti sul lungo periodo. Un altro viaggio al termine della notte, un altro giro nel subconscio che porta lacerazioni insanabili, un punteruolo a slabbrare altri punti nevralgici: dal generale (i vivi) al particolare (il nucleo famigliare). Penso che se una persona veramente ama, allora non fa figli, non condanna altri alla stessa pena se solo ha un minimo di decenza. Mi viene quasi da dire meglio chi ti dà la morte, di sicuro è più misericordioso di chi ti mette al mondo. E sono altre bombe in faccia per chi le sa captare; uscirne con la coscienza pulita e i nervi intatti, ben altro affare. Raccogliere i pezzi a questo punto non è più un’opzione: diventa una priorità.
Capolavoro. Il pezzo di Matteo, ovviamente.
Il disco bello, ma meno del pezzo.
Esattamente quel che succede anche a me. Credo la recensione più empatica dal punto di vista di chi ascolta. Son bastonate che fanno male e fanno bene che liberano emozioni , ne esci stremato ma libero e puro.
Mi è successo solo una volta una cosa simile. Periodo oscuro adolescenziale: mi inpunto di voler capire i Pil allora ascolto varie volte metal box. Nulla di che fino a che una volta sento un vuoto fortissimo. Non ricordo che canzone fosse, forse a tre quarti di albatross mi sento disorientato come rimbambito e sento un vuoto spaventoso. Dico spaventoso perché quel disco non ho più voluto metterlo su. Magari non è neppure colpa del disco ma chi me lo fa fare di risentirlo?