Molti pezzi di Paolo Conte isolano e amplificano a livelli spesso insostenibili il peso brutale, mostruoso, osceno, dell’esistenza quando di colpo perde di senso; all’improvviso una ruota nell’ingranaggio si inceppa, gli argini si rompono, la certezza che qualcosa è cambiato monta lentamente, poi tutto in una volta, nella canicola o nel buio gelido di stanze vuote, vicoli deserti, strade laterali di periferie senza nome; non-luoghi universali senza tempo né scopo, a ognuno il suo. Lampi Per Macachi restituisce inalterato il profondissimo senso di spaesamento che investe con ferocia assassina ogni fibra dell’essere quando si trova a contestare il senso stesso dell’esistenza, riprendere in mano i fili diventa un’impresa titanica, il più delle volte infruttuosa; l’istante preciso in cui le catene dell’autocontrollo si sgretolano, spesso innescato da un dettaglio irrilevante: un’aranciata in estate, un paracarro, un gelato, una conversazione casuale con una sconosciuta. Da quel momento in poi tutto si sfalda: ogni parola, ogni gesto, ogni contesto si svuota di significato, ogni situazione diventa la replica di una replica di cose già successe, senza la spinta, senza lo scatto di volontà all’origine. Pura meccanica. Il processo è irreversibile: di colpo e per sempre il quadro generale collassa, il panorama annichilisce, annienta nel nuovo ordine che sta nell’occhio di chi guarda con occhi nuovi. È tutto un complesso di cose che fa sì che io mi fermi qui. Questione di prospettive. Le strade diventano labirinti in cui perdersi non è più un’opzione, ogni possibile percorso è già noto, qualunque sia la traiettoria arriva sempre il punto in cui la strada si interrompe davanti a un muro. E allora ci si trascina per inerzia, perché è così che va, se no che si fa. Il tempo una costante impossibile da quantificare, i rapporti umani una farsa da teatro dell’assurdo; chi trova l’equilibrio per crederci ancora un marziano, uno sprovveduto o un eroe. C’è chi riesce a continuare a raccontarsela, c’è anche chi non arriva mai a vedere, per questo nemmeno si pone il problema.
I cover album sono un esercizio pericoloso; le intenzioni spesso indecifrabili, l’esito imprevedibile. Alcuni sono passabili, altri carini, altri drammaticamente fuori fuoco, altri ancora semplicemente imbarazzanti. Qualcuno ha senso: succede che in qualche modo riesca a catturare l’essenza degli originali trasfigurandoli in tutt’altra bestia, qualcosa di nuovo e violentemente familiare al tempo stesso. Quando succede, a volte il risultato è migliore del prototipo. Qui succede.
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I dischi dell’anno escono sempre troppo tardi per le classifiche e troppo presto per quelle dell’anno successivo. Lampi per macachi è un disco di cover di Paolo Conte, realizzato da Giovanni Succi assieme a Glauco Salvo e Mattia Boscolo, registrato da Mattia Coletti. Uscirà in vinile per Wallace il 12 dicembre. Vi offriamo un’anteprima, uhm, esclusiva: Uomo Camion. Il resto del disco è tutto così bello ma diverso. (FF)