Tema: I MIEI DISCHI DELL’ANNO (2004)

pesci

Collaborare con una rivista musicale vuol dire anche che a un certo punto, prima di metà novembre, ti arriva una mail in cui ti dicono di scegliere i dischi dell’anno. Le riviste dure e pure con la puzza sotto al naso scelgono i dischi per il numero di gennaio, cioè incassano le playlist individuale entro il 2 dicembre circa. La playlist di fine anno è un’arte delicata, piena di compromessi e totalmente priva di importanza, cioè rispecchia totalmente l’hobby di scrivere di musica. L’ambiente è strapieno di stronzi che pensano che selezionare i propri dieci dischi preferiti alla fine dell’anno non abbia alcun senso (mentre ne abbia mettere un voto da 1 a 10 a un disco che è stato composto e registrato in due anni, per dire); supporto le vostre idiosincrasie, ma preferisco le mie. In ogni caso scegliere i propri dischi dell’anno a novembre è frustrante, un po’ perché non è tempo di bilanci un po’ perché non hai ancora ascoltato l’ultimo dei Deerhoof.

E così quest’anno uso Bastonate per fare una cosa che mi riprometto di fare ogni anno da un sacco di tempo a questa parte: la playlist annuale di dieci anni prima. Mi ci sono buttato, in maniera un po’ gratuita e sportiva: è un bel modo per rimetter mano alla collezione di dischi, vedere cosa è rimasto e cosa s’è andato a perdere.

 

NOTA: non sono una persona ordinata, i dischi del 2004 li ho tirati fuori mettendo insieme la memoria, Rateyourmusic, Wikipedia e una mezza dozzina di webzine. È provabilissimo che io mi sia perso qualcosa. Mi piacerebbe che qualcun altro mettesse online le sue, così da dire “e dio cristo ecco”. Nel caso vi vada, segnalatemele via email.

 

 

WOLF EYES – BURNED MIND

Il noise è stato un altro di quegli amori così, un po’ passeggeri ma nemmeno così tanto. A un certo punto è diventato roba calda e allora ci siamo lanciati tutti. Abbiamo una lista di gruppi di riferimento che inizia quasi sempre con Wolf Eyes, un po’ perché erano migliori degli altri un po’ perché con una discografia come la loro si può usare ogni chiave di lettura. Per me, in ogni caso, è iniziata e finita con loro: un bruciato di Ann Arbor e i suoi comprimari, duecento tra CDR, cassette e picture vinyl color vomito (ne ho uno) in discografia, una vita da reclusi passata a costruire macchinette che processano i suoni ai limiti dell’ascoltabile. Il tutto messo assieme con un gusto che ha dell’inverosimile. A un certo punto, complice l’irragionevole interesse della stampa e degli appassionati per questa roba, i Wolf Eyes diventano il gruppo nuovo di casa Sub Pop. Burned Mind, così, diventa il capitolo più glamorous di una storia rock’n’roll che nessuno racconta mai: un gruppo che fa musica invalicabile e di supernicchia, viene considerato hip per un certo periodo e affronta la cosa con la coscienza di dover tornare nell’ombra di lì a un paio d’anni. Voglio dire, che altro avrebbero potuto fare? Vendere la loro roba ai mercati dell’art brut e fare dischi di piano preparato? No way. Invece si sono presi il rischio di continuare a sognare un mondo. L’ultimo loro disco che ho ascoltato è del 2013, ancora un album grandioso.

 

SOCIAL DISTORTION – SEX, LOVE AND ROCK’N’ROLL

Nel mondo in cui vivo il Social D non sono quell che si dice una priorità: so contare sulle dita di una mano il numero di amici che li considera superiori alla media dei gruppi punk rock che ascoltano, compresi gli amici su internet. Fatto sta che nel 2004 ho scoperto che sarebbe uscito il disco il giorono prima di trovarlo su quello che ai tempi non so dire se fosse già WinMX o ancora Audiogalaxy.

Nel 2004, a Calisese di Cesena, non c’era ancora l’ADSL: i dischi li scaricavo di notte, andavo a dormire con il modem 56K attaccato e un abbonamento flat da tipo 120 euro a bolletta. Mi svegliavo la mattina successiva e se non avevo la sfortuna di essere stato nukkato (succedeva), aver perso la connessione (succedeva), il mio peer si sconnetteva prima che finissi (succedeva) e tutto il resto, mi trovavo con un disco nuovo in mano. Poi dovevo masterizzarlo e aspettare il pranzo o la cena per ascoltarlo. La sera era probabile non ci fosse nessuno in casa, e potevo suonare il disco forte.

Artisticamente non c’è moltissimo da spiegare sui Social D. Sono il gruppo più scontato del sistema solare e hanno lavorato durissimo per diventarlo: Mike Ness ha cercato il proprio suono buttando dosi sempre più massicce di blues e rock cafone americano dentro al punk inglese che stava dentro Mommy’s Little Monster; questo disco è quello in cui tutto esplode ai massimi livelli. Disincanto, tastiere, ballatone, pezzi da macchina e tutto il resto. Concettualmente è musica incatenata ad uno standard immutabile fatto di canzoni e tristezza malinconica, quel che cambia è la qualità delle canzoni e la quantità di rumore. Negli stessi anni si definisce l’estetica del ripescaggio rock (wave, garage, shoegaze eccetera); Sex, Love and Rock’n’Roll suona così anacronistico da riuscire ad esplodere fuori del suo asse temporale. Il disco anni duemila che ho ascoltato di più, in assoluto.

 

CLOUDDEAD – TEN

Come tutti quelli che hanno ascoltato più di sei dischi rap smerdati, credo di avere capito il rap e credo di essere stato uno dei pochissimi al mondo ad averlo capito. Gran genio della critica musicale de sto cazzo. Come tale, credo che riuscirei a spiegare perché -a mio parere- l’ultimo e tutto sommato primo disco lungo dei Clouddead sia la miglior cosa successa al rap negli anni duemila pur non essendo poi tutta questa rivoluzione musicale, pur non essendo io uno di quelli che si sono ascoltati ogni disco rilevante coperto dalla stampa di settore, pur non essendo Ten un disco rap. L’avevo perfino scritto, e cancellato in un impeto di autoconservazione: fuori c’è gente più scafata di me, più documentata di me e che si parla addosso ancora più di me. Il disco dei Clouddead in ogni caso resiste tra i miei ascolti preferiti in una declinazione del pop che io e gli altri come me abbiamo rimosso da cima a fondo: pacificamente dimenticati i percorsi post-Clouddead Doseone e Odd Nosdam (dopo aver tessuto le lodi di due dischi solisti di quest’ultimo come chissà che miracolo), ripesco di tanto in tanto il primo disco pop di Why?, sto lontano da Anticon quanto posso. Dicono che quando è uscito Ten i Clouddead non riuscissero più a guardarsi in faccia e a volte anche io faccio un po’ fatica a guardarmi allo specchio. Potrebbe anche essere quello, o l’idea che un disco come Tensia tutto sommato realizzabile da chiunque abbia mezzo cervello, e che solo loro l’abbiano fatto perché vivevano nel paese delle meraviglie, si fumavano un sacco di cannoni e volevano solo fare le canzoncine. In questo senso forse l’unico disco di rock anni sessanta uscito negli anni duemila.

 

SHANNON WRIGHT – OVER THE SUN

C’è un mellotron o qualcosa di simile che inizia a suonare, registrato a merda come se venisse da mezzo secolo prima e poi senza cambiar traccia parte un giro di chitarra ansiosissimo e la batteria che tuona un po’ controtempo un po’ no, e il disco è tutto lì. Shannon Wright canta le sue storie e non è mai quel che si dice un piacere sentirla. Si allunga al pianoforte per spolparmi con Avalanche dopo che le tracce tipo You’ll Be the Death hanno già scavato il buco. Avevano collaborato per certe cose dei dischi precedenti, ma Over The Sun è il primo disco di Shannon Wright registrato interamente da Steve Albini, il che fa pensare da subito alle parentele con la prima PJ Harvey (tranne che Shannon Wright, a PJ, se la mangia in un bocconcino). Una coltellata al cuore.

 

JOANNA NEWSOM – THE MILK-EYED MENDER

Capitava anche che gli appassionati di musica del 2004 sapessero citare Vashti Bunyan e fossero, uhm, tenuti a farlo con una certa frequenza. Misteri della fede. Fu un periodo matto che iniziò più o meno due anni prima, con un disco registrato alla meno peggio da un tale di nome Devendra Banhart, che viene preso tale e quale da Michael Gira e pubblicato su Young God. Dopodiché queta roba diventa una specie di grunge acustico in minuscolo: sempre meglio che il NAM, sia chiaro (ve lo ricordate il NAM?), ma era abbastanza divertente vedere come le etichette avessero ognuna il loro weird-folkster di riferimento. Quest’anno, per dire, dopo il disco della consacrazione di Banhart, il più chiacchierato è un disco Touch&Go firmato da tali Cocorosie (devo essere sincero, non sono mai stato in grado di capire quale fosse il punto d’interesse). Tra i vari che ci hanno provato, il più improbabile e bislacco e bello è fatto da un’arpista che nel 2004 ha 22 anni e si chiama Joanna Newsom. Un disco pop per arpa e lamenti bambineschi, canzoncine facili facili ma quasi sempre bellissime. Adottata dalla critica, si ritrova da subito dentro un powertrip cervellotico che la porta a registrare un paio d’anni dopo il più pomposo album degli anni duemila: Ys, registrato da Steve Albini con contributi di gente tipo Van Dyke Parks, scalate imprendibili di sedici minuti per voce arpa e roba simile. Sia detto: meglio un solo disco così buono e diretto e due dischi di merda, piuttosto che la stessa roba affogata nei tre dischi lunghi da lei incisi, mischiata al resto.

 

MICAH P.HINSON AND THE GOSPEL OF PROGRESS

La prima volta che vedi salire Micah P.Hinson su un palco pensi che qualcuno ti stia prendendo per il culo. Hai sentito i dischi e li sai quasi a memoria perché le canzoni sono profonde e la voce ti scava dentro così profonda scura e piena di whisky, il più patetico stereotipo di sempre. Anni ad ascoltare dischi tutti uguali ci hanno preparato a qualsiasi trucco accademico, e ogni volta che sentiamo una voce così profonda cadiamo in un burrone di lacrime e tristezza congenita. Poi lui appunto sale sul palco e sembra un modaiolo anoressico con gli occhialini, i brufoli, un berretto improbabile e le bretelline sopra la camicia e certe scarpette fluorescenti, tutto il pacchetto dell’indiepopper di quegli anni. E poi canta il primo pezzo e la band fa un casino infernale e poi tutto a un tratto si ferma, e senti che nel posto la gente è a un passo dall’infarto, e poi lui canta qualcosa nel silenzio e quella cazzo di voce è dieci volte più profonda di quella che senti nei dischi. Ecco, è un po’ assurdo mettere un disco di Micah P Hinson in una playlist dopo averlo visto suonare dal vivo con una band, ma Gospel of Progress. Insomma.

 

BJORK – MEDULLA

Non riesco a riascoltare un disco di Bjork oggi. Per essere esatto, esiste una lista di cose che sarei disposto a subire in questo periodo più volentieri che un disco di Bjork, e questa lista comprende cose che provocano dolore fisico e degradano lo spirito, tipo le frustate e le scarpe nere di cuoio con la punta. La cosa è generalizzata, ma la Bjork di impostazione post-tutto del post-Homogenic è davvero la cosa peggiore. Detesto l’idea alla base di questo mercato dei cottimanti della musica d’avanguardia, l’idea della popstar attenta a ciò che succede fuori che assolda le menti più affilate della sua epoca per fare qualcosa che verrà comunque svaccato dal fatto di essere appunto un progetto della popstar in questione (poco conta se sia Bjork o Madonna). Fa eccezione, tuttavia, il campionario di psicosi concettuali da terza elementare che compone Medulla: il disco più politico di Bjork, costituito quasi solo di parti vocali (processate o spesso anche no). Un disco che per metà sembra fatto di pezzi wannabe-avant-tutto abbozzati alla cazzo di cane e per metà esplode in acrobazie per voce e voce da far venire la pelle d’oca, e che funziona soprattutto nella schizofrenia che viene fuori ascoltandolo tutto in blocco. In effetti ho ripensato tutta la carriera di Bjork dividendola in pre-Medulla (gli sforzi per diventare una star e raggiungere uno status che le permettesse di cagar fuori un disco come Medulla e che qualcuno si prendesse il disturbo di ascoltarlo almeno due volte), durante-Medulla (una fase durata circa dall’uscita di Medulla al momento di stilare le playlist di fine anno, dopo la quale quasi chiunque ha messo Medulla in fondo a una pila di dischi che ascoltano più volentieri, Basinski e simili) e post-Medulla (il disonesto tentativo di dire qualcosa sapendo di non avere un cazzo da dire, cooptando altra gente sempre più a caso, tipo Konono #1 o il batterista dei Lightning Bolt).

 

ZEENA PARKINS/IKUE MORI – PHANTOM ORCHARD

In questi anni Bjork si presenta dal vivo accompagnata dai Matmos e da un’arpista cinquantenne di nome Zeena Parkins. Di lei non so moltissimo, a tutt’oggi: è uno di quei personaggi che gravitano attorno al giro di John Zorn, avanguardia trucida saltuariamente dedita alle masse, e come tale ha suonato in un milione di progetti che coinvolgono lui, Frith, Jim O’Rourke eccetera. Ai tempi persone che l’hanno vista dal vivo descrivono il suo modo di suonare come “molto sexy”, e io credo che Phantom Orchard sia l’unico disco che ho ascoltato con il suo nome in copertina. Lo mette insieme con Ikue Mori, la giapponese dei DNA per intenderci: oscillazioni infinite e poco altro. Il 2004 è un periodo di interesse per la musica avant, parlo per me: non mi perdo un’uscita di Mego, Touch, Rune Grammofon, Raster Noton e simili. È per via delle persone che frequento. Uno sport un po’ gratuito che archivierò tre o quattro anni dopo, dopo aver stipato la cameretta di dischi che ho ascoltato due o tre volte ciascuno, in media. Invece questo gira ancora, sebbene non l’abbia mai trovato originale in un negozio: uso un CDR con la copertina disegnata a mano, una violoncellista fatta di ghirigori pretenziosi. La musica fa più o meno UUUUUUAUIIUOOOAAUUUUIIII, ma in modo elegantissimo. Qualche anno dopo l’ho vista dal vivo, sola come un cane, di spalla ai Matmos (e poi sul palco con loro). Una performance violentissima, in piedi su un’arpa che sembrava messa assieme con le assi dei bancali, suoni avvolgenti e poi strappati di botto. Molto sexy.

 

VVAA – DFA COMPILATION #2

E poi boh, tutto se ne andò in cassa. I punk se ne andarono in cassa, i rockettari se ne andarono in cassa e quelli della cassa rimasero in cassa. DFA nasce nel settembre 2001 a New York, strana data, e ha un successo quasi immediato con House of Jealous Lovers. Un contratto di distribuzione con EMI, nel 2003 la prima compilation-manifesto. Nel 2004 il gesto arrogante: una compilation tripla di gioielli in mostra. The Rapture, Juan MacLean, Gavin Russom, persino Black Dice (la cui permanenza nell’empireo dei gruppi hip dura più o meno ventisei minuti, e perlopiù a traino). Fondamentalmente uguale all’episodio uno, ma tripla e con dentro anche un pezzo dei Liquid Liquid. Una specie di corrispondente di quello che era Headz2 per Mo’Wax (Tim Goldsworthy il tratto comune), ma più casalingo e votato al party. Nel frattempo James Murphy ha raggranellato tutta la credibilità che serve per lanciare il suo progetto LCD Soundsystem nell’olimpo dei gruppi grossi-grossi: usciranno l’anno successivo col primo disco lungo, ma tutto quel che vi serve di loro sta dentro le compilation DFA. Uscii di testa io pure. Mi precipitai a comprare il disco, un boxettino di cartone con tre digipack singoli e colorati, un oggetto sensazionale. La sfiga è che i CD erano difettosi, nessuno dei tre veniva letto dal mio stereo. Fanculo, mi dissi. Masterizzai gli mp3 li misi i CDRdentro le custodie originali con degli artwork fatti a mano. Ancor oggi, se dovessi dire di un disco che rappresenta il 2004, farei fatica a trovarne uno più adatto. Se volete il cofanetto ce l’ho ancora, edizione custom deluxe CDR, 180 euro in blocco, pagamento anticipato.

 

KANYE WEST – THE COLLEGE DROPOUT

La tendenza culturale principale della fine degli anni duemila, e dell’inizio dei duemilaedieci, è quella di far sparire il medio gusto. Sospetto che per i tempi che corrono sia molto più facile giustificare una passione per la serie youtube di Lory Del Santo che, boh, il fatto di leggere con una certa regolarità John Grisham. Le ragioni per cui questa cosa succede sono che (1) siamo persone insicure, non abbiamo un gusto nostro e troveremo sempre qualcuno con più argomenti di noi e che sarà disposto a liquidare Grisham, mentre Lory Del Santo bene o male ha questo squallore evidente che la rende un terreno comune e/o un fondo espressivo da cui, parlando di analisi, di ecodifica, è possibile solo salire; (2) questa cosa conviene economicamente a qualcuno, nel senso che la roba medio-buona vende comunque per conto suo, la roba brutta ha una possibilità in più e la roba buona-buona viene prodotta da un’elite, (3) già sai. Questa mini-pippa è una specie di cappello ad un ragionamento secondo cui in un mondo dove tutti sono post, ogni prodotto culturale trova un’ossatura critica compiacente in qualche misura, e questo vale anche per certo rap italiano contemporaneo da classifica. Un argomento che si legge spesso a giustificazione dei più recenti dischi dei Club Dogo è che l’impoverimento delle liriche e la trasformazione dei personaggi segue in qualche modo alcuni corrispondenti statunitensi di altissimo profilo. Ecco, probabilmente è vero, e probabilmente il rap ha sempre un modo di giustificare se stesso, e ancor più probabilmente tutto questo non è affar mio. E poi rimetto nel piatto The College Dropout.

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(fuori classifica per un soffio)

ARTO LINDSAY – SALT

ELECTRELANE – THE POWER OUT

EXCEPTER – KA       

FENNESZ – VENICE

JESU – JESU

LA QUIETE – LA FINE NON È LA FINE

MASTODON – LEVIATHAN

MONO – WALKING CLOUD AND DEEP RED SKY, FLAG FLUTTERED AND THE SUN SHINED

 

 

 

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(bonus: spulciando su archive.org ho trovato la playlist che avevo consegnato a Movimenta per il 2004; un paio di dischi effettivamente li ho dimenticati e li avrei messi dentro, ma tutto sommato sono soddisfatto)

  1. Social distortion – Sex, Love and Rock&Roll
  2. Wolf Eyes – Burned Mind
  3. Bjork – Medulla
  4. Zeena Parkins/Ikue Mori – Phantom Orchard
  5. Fennesz – Venice
  6. Autistic Daughters – Jealousy and Diamonds
  7. The Blood Brothers – Crimes
  8. The Icarus Line – Penance Soiree
  9. Liars – They Were Wrong, so We Drowned
  10. The Hunches – Hobo Sunrise

13 thoughts on “Tema: I MIEI DISCHI DELL’ANNO (2004)”

  1. ce l’ho! ce l’ho! 🙂

    the ex – turn
    secret chiefs 3 – book of horizons
    brian wilson – smile (ma qui dire 2004 è dura…)
    einsturzende neubauten – perpetuum mobile
    cazzodio – il tempo della locusta
    fennesz – venice
    the thing – garage
    jesu – jesu
    pan sonic – kesto
    ronin – ronin

  2. La mia classifica su rym recita

    Liars – They were wrong, so we drowned
    Joanna Newsom – The milk-eyed mender
    Electrelane -. The power out
    Xiu Xiu – Fabulous Muscles
    Tv On The Radio – Desperately Youth, Blood Thirsty Babes
    mclusky – the difference between me an you is that i’m not on fire
    Arcade fire – Funeral
    Paolo Benvegnù – Piccoli fragilissimi film
    The Blood brothers – Crimes
    !!! – Louden up now

    tutto sommato mi ritengo soddisfatto.

  3. La mia fa più o meno così

    Mark Lanegan – Bubblegum
    The Icarus Line – Penance Soirée
    Micah P. Hinson and The Gospel of Progress
    Shannon Wright – Over The Sun
    Mission of Burma – OnOffOn
    The Ex – Turn
    Lost Sounds – Lost Sounds
    Black Lips – We Did Not Know the Forest Spirit Made the Flowers Grow
    Reigning Sound – Too Much Guitar
    Social Distortion – Sex Love & Rock’n’Roll

  4. 1) Guapo – Five Suns
    2) Isis – Panopticon
    3) Liars – They were wrong so we drowned
    4) Pj Harvey – Uh Huh Her
    5) Jesu – Heart Ache
    6) Sophia – People are like seasons
    7) Shit and shine – You’re Lucky to Have Friends Like Us
    8) Pan•american – Quiet City
    9) Piano magic – The Troubled Sleep of Piano Magic
    10) Usa is a monster – Joshua Tree

  5. sempre del 2004:
    William Basinski – The Disintegration Loops
    Solex – Laughing Stock Of Indie Rock
    Black Dice – Creature Comforts
    Boredoms – Seadrum/ House Of Sun
    Fiery Furnaces – Blueberry Boat
    N.E.R.D. – Fly or Die
    Soulwax – Any Minute Now
    Mirah – C’mon Miracle
    Animal Collective – Sung Tongs
    DJ/Rupture – Special Gunpowder
    Franz Ferdinand – Franz Ferdinand

  6. Non posso confrontare con quello che avrei scelto allora, che secondo me è la parte più interessante, ma comunque:

    Killers – Hot Fuzz
    Elliott Smith – From a basement on the hill
    Franz Ferdinand – Franz Ferdinand
    Brian Wilson presents Smile
    The Streets – A Grand don’t come for free
    John Frusciante – Inside of Emptiness (e metterei anche The Will to Death e il primo Ataxia, ma vabbè, sono malato)
    Uochi Toki – Uochi Toki
    Dizzee Rascal – Showtime
    Danger Mouse – The Grey Album

  7. Classifica di un ascoltatore già alla deriva:

    1) The Bees – Free the Bees
    2) Black Lips – We Did Not Know The Forest Spirit Made the Flowesr Grow
    3) Graham Coxon – Happiness in Magazines
    4) Dungen – Ta Det Lugnt
    5) Electric Masada – 50th Birthday Celebration Vol.4
    6) Fiery Furnaces – Blueberry Boat
    7) Liars – They Were Wrong, So We Drowned
    8) Jonathan Richman – Not So Much To Be Loved As To Love
    9) Old Time Relijun – Lost Light
    10) The Lids – The Lids

  8. Ho realizzato che nel 2004 sono usciti una montagna di dischi orrendi. Si dividono in tre categorie:
    1) quelli orrendi allora come oggi.
    2) quelli orrendi che però ai tempi mi gasavano
    3) quelli orrendi che mi piacciono tutt’ora.
    Citando qualche cosa di non allineato e che mi qualifichi come persona:

    Love. Angel. Music. Baby. – Gwen Stefani (3)
    Futures – Jimmy Eat World (3)
    Miss Machine – The Dillinger Escape Plan (2)
    Three Cheers for Sweet Revenge – My Chemical Romance (2, ma il primo singolo è un 3)
    They’re Only Chasing Safety – Underøath (avrei detto 2, ma l’ho risentito ed è un 3 secco)
    Catalyst – New Found Glory (1)
    The Curse – Atreyu (vorrei dire 1, ma in onestà è un 2)
    Rock Against Bush, Vol. 1 – V/A (1 per i pezzi esclusa “War Brain”, 3 concettualmente all’operazione)
    Start Something – Lostprophets (2, ma credo che la pedofilia giochi un ruolo nella valutazione)
    Where You Want to Be – Taking Back Sunday (3)
    Decadence – Head Automatica (2, ma per poserismo. In realtà 1)
    Let It Enfold You – Senses Fail (orgogliosamente 3)

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