Sleater-Kinney, indie rock, sessismi, punte ai cazzi

balenone

L’estate scorsa è uscito un libro collettivo sull’indie rock a cui ho partecipato, una roba messa insieme con alcuni amici. Qualcuno ha scritto cose dopo averlo letto, pezzi carini e pezzi dispensabili, in generale abbastanza positivi. Una donna che conosco ha pubblicato un pezzo su una rivista edita qui nei dintorni e ha scritto il passaggio che segue:

L’introduzione di Mike Watt dei Minutemen ci descrive appieno gli intenti del libro: la musica punk è un luogo della mente ed è perciò naturale che ognuno ne abbia la propria visione.

Peccato che qui manchi quasi completamente quella femminile.

Di sicuro nessuno di noi crede nelle differenze di genere, ma c’è da dire che gli habitués della musica e della critica invece si, e la cosa peggiore è che i diretti interessati cadono dalle nuvole se glielo fai notare, non se ne rendono nemmeno conto. Nel senso che spesso e volentieri si creano questi regimi feudatari dove ciò che è bello viene discriminato da ciò che non lo è anche in base all’opinione di chi viene rivestito di una certa autorità, una sorta di “punti scena” che raramente vengono attribuiti ad una donna, perchè in questo ambiente il leitmotiv generalizzato è che le donne non sono credibili, che ai concerti ci vanno perchè o sono groupie, o fanno le foto o sono dei cessi atomici.

Quando il pezzo uscì mi incazzai come una biscia. La ragione, naturalmente, è che non mi ero reso conto di alcuna differenza di genere e quando qualcuno me l’ha fatto notare sono caduto dalle nuvole. Ho risolto nel modo usuale: nemmeno un minuto di autocritica, giustificare me stesso, il libro e tutte le persone coinvolte (difficile dire che, insomma) e sono andato oltre. Ripensandoci, avrei dovuto considerare la cosa. Non sono convinto che, parlando di indierock, ci sia una vera e propria discriminazione all’ingresso, e soprattutto non credo riguardi il mondo del giornalismo musicale (il quale comunque sta morendo o evolvendosi e per altri tre anni non avrà davvero importanza chi ci sta dentro e chi no). Altre chiacchierate, nei giorni successivi, mi hanno fatto rendere conto che, in ogni caso, rifiutare con energia ogni accusa di sessismo fascismo e maschilismo non è molto diverso dall’ammettere ogni colpa. Il mio atteggiamento è sessista? Probabilmente sì. credo che il sessismo sia una cosa profondamente sbagliata? Dipende dalla definizione di sessismo.

Parlando dal punto di vista critico, invece, sono spaventosamente sessista. Non è che discrimino i gruppi con membri femminili, ma in qualche modo tendo a notare che ci siano membri femminili. Se ascolto la musica di un gruppo con un cantante maschio e non ho mai visto una foto del gruppo, tendo a pensare che si tratti di un gruppo di soli maschi. Ho anche meccanismi consci/inconsci di immedesimazione: se ascolto un gruppo di soli uomini mi immagino come sarebbe farne parte, suonare quella parte di batteria, eccetera; è un meccanismo che funziona anche al negativo: avrei il coraggio di suonare questa merda? No. Se ascolto un gruppo rock femminile, penso costantemente che siano femmine e in qualche modo non scatta questo meccanismo di immedesimazione. Vorrei essere il batterista di PJ Harvey ma non vorrei essere PJ Harvey. Per dire. Questa cosa è sessista? Credo di sì. Questa cosa è violenta o offensiva? Credo di no, ma non si sa mai. Il rock è una musica molto maschile: ha a che fare con la sopraffazione, la lotta, il controllo, la violenza. È sessista pensare che lotta, sopraffazione, violenza e controllo siano caratteristiche maschili? Non lo so. A volte mi sono balenati in testa idee assurde, tipo che un disco di Waxahatchee non dovrebbe essere criticamente considerato se esce a due mesi di distanza da un disco di Shannon Wright. Questa cosa è sessista? Moltissimo. Fascista? Anche. Cosa mi spinge ad ignorare/stroncare la poetica del cazzo di un milione di gruppi indierock maschili derivativi in culo, dando loro una implicita ragion d’essere, e pensare che Waxahatchee sia tutto sommato inutile nel momento in cui qualche altra femmina completa il mio bisogno di femminismo? Non so dirlo. Perché se ascolto un gruppo rock composto da ragazze il primo paragone che mi viene è con le Sleater-Kinney? Perché le ho amate tanto, ok, ma c’è una forma mentis di fondo secondo cui in questo mestiere i maschi son maschi e le femmine son femmine. Mi giustifico pensando che è una forma mentis diffusa e non mia: ci sono meccanismi legati al modo in cui vengono raccontate le storie secondo cui le poche donne che riescono a rompere questo automatismo che le mette al loro posto, tipo appunto le Sleater-Kinney, diventano “intoccabili”, assumendo uno status in qualche modo religioso, una dimensione narrativa per molti versi umiliante, dannosa, fascista e in generale non molto diversa da quella dei film TV sui malati di cuore che vincono gli US Open. Credo sia sbagliato? Sì. Da questo punto di vista credo di essere un po’ più lucido della media di quel che leggo.Faccio qualcosa per cambiare questa cosa? Non credo, o comunque niente di davvero buono.

Questo mese trovate le Sleater-Kinney in copertina sul Mucchio e boxate con recensione ultra-positiva su Rumore, firmata da Pomini. Il loro nuovo disco esce a quasi dieci anni dal precedente. Un riassuntino in breve: la band viene firmata da Sub Pop e registra un album con Dave Fridmann, intitolato The Woods. È giocato su questo conflitto, rinegoziato da brano a brano, tra il tradizionale suono alla Sleater-Kinney (asciutto e molto r’n’r) e le tendenze spectoriane del produttore dei Flaming Lips. L’ultimo singolo è Modern Girl, una delle canzoni morbide del disco, una coda di organetti e via andare. Nel video le Sleater-Kinney suonano il pezzo live in una stanza. Al minuto uno e qualcosa Carrie dice qualcosa all’orecchio di Corin, lei sorride con la testa bassa e il gruppo continua a suonare. La poesia la vedi dove vuoi. Poi il video sfuma sul nero e se avete abbastanza fantasia ci vedete la fine di tutto l’indie rock. Un annetto dopo non esistono più, e il silenzio alla fine del video diventa un po’ quello di un intero genere musicale. Dopo lo scioglimento Carrie Brownstein diventa il membro di gran lunga più in vista del gruppo: inizia a scrivere, fa qualche parte da attrice e pubblica alcuni video di sketch con tale Fred Armisen, da cui nasce una sit-com americana di successo intitolata Portlandia. Janet Weiss continua a suonare con i Quasi e diventa turnista di lusso per gente tipo Malkmus, Bright Eyes e Shins. Corin Tucker prende una pausa, fa la mamma per qualche anno e poi si rimette a scrivere. Esce fuori quattro anni dopo lo scioglimento delle Sleater-Kinney con un disco a proprio nome (the Corin Tucker Band, per essere esatti) a cui partecipa gente di Unwound e gruppi simili: un disco maestoso di nome 1000 Years, vagamente pacificato rispetto al sound delle SK ma comunque tesissimo. Janet Weiss e Carrie Brownstein mettono assieme un altro gruppo che per un certo periodo sembra poter esplodere: si chiamano Wild Flag, fanno parlare di sé ad un’edizione del SXSW e spuntano un contratto Merge per un disco un po’ a metà tra garage e indie-pop (francamente non lo ascolto da poco dopo l’uscita, ma lo ricordo sciattissimo).

Mi sono rotto il cazzo di fare la guerra alle reunion: ormai vanno considerate parte integrante della vita di un gruppo. In quest’ottica va almeno dato atto alle SK di non aver menato troppo il torrone: niente tira e molla, niente contrattoni, niente grossa sorpresa sui cartelloni dei Coachella/Primavera del cazo. Si chiudono in sala e ne escono con un disco pronto: un album veloce, diretto, ben scritto e senza cazzi. Esce domani, si chiama No Cities To Love e ha convinto chiunque. La scelta produttiva forse è la più ovvia, quella di bypassare la parentesi del disco con Fridmann, riprendere Jon Goodmanson, ricreare atmosfere alla Dig Me Out e raccogliere i frutti di una reputazione probabilmente aumentata (e comunque meritatissima). La pausa di quasi dieci anni è difficilmente interpretabile: il fatto che le musiciste non l’abbiano mai menata con lo scioglimento dà spessore all’ipotesi di indefinite hiatus tranquillo stile Fugazi. Da questo punto di vista No Cities To Love è soprattutto da interpretarsi come l’ennesimo mattone di una storia che continua, e questo (paradossalmente) forse è il suo maggior punto debole: passati i dieci minuti di magone che sale quando parte il riff secco di Price Tags, è abbastanza chiaro che qualcosa nell’economia delle SK sia cambiato. Non so esattamente cosa sia: un po’ rispecchia quell’assetto tipico da gruppo invecchiato, la ricerca di un effetto più immediato sul singolo break, più che il garage rock organico che stava su Hot Rock, All Hands e One Beat. Un po’, semplicemente, non è quei dischi in quegli anni e qualcosa questo conta. Un po’ sto facendo la punta al cazzo: in No Cities To Love le Sleater Kinney sono le Sleater Kinney, e più di tutte Corin Tucker è Corin Tucker: in parte al cento per cento, quella voce eccitata a cui non si resiste, e neanche un secondo di brutta musica. Eppure.

Son più di quindici anni che le ascolto e non ho davvero idea di quale sia il mio rapporto con le SK. Ho amato la loro musica con un’intensità spaventosa, ne ho consumato i dischi, non le ho mai viste in concerto. In qualche modo riesco ad identificarle come “la mia cosa” nonostante le abbia conosciute quando erano già famose e in copertina sulle riviste di settore. Sono stato folgorato brutalmente dai due dischi solisti di Corin Tucker, e do in parte a questo la colpa di un entusiasmo più tiepido nei confronti di questo disco (ma continuo a pensare che dentro 1000 Years e Kill My Blues ci sia roba che palpita molto più forte che in No Cities To Love). Forse c’è un po’ di malafede nel mettersi dietro a un disco delle Sleater-Kinney, nel 2015, con l’estasi acritica di adolescenti al primo morso di punk rock. D’altra parte il disco è solido, la musica è pesa, le Sleater Kinney si meritano ogni minuto di attenzione a loro riservata e probabilmente renderanno questo mondo migliore. Speriamo.

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