100 canzoni italiane #2: PITAGORA

CONTRATTO ALFA002

Ho sempre pensato che anthem significasse inno, per via dell’espressione national anthem. Oggi, consultando la wikipedia inglese, scopro che è anche a specific form of Anglican church music (in music theory and religious contexts). Forse non cambia niente. Non lo so. Diciamo che inno va bene. Se leggevi le recensioni dei dischi punks negli anni in cui le leggevo io, si parlava anthem una recensione su due. Una volta lessi anche innodico, voglio dire. Molti gruppi punk cercavano consapevolmente di fare musica che suonasse memorabile nell’immediato, ma non erano poi molti a cercare consapevolmente l’inno, la canzone da cantare a squarciagola quando sei ubriaco. L’inno stesso, inteso come idea nazionalista di unione solidale tra tutti i cittadini sotto il segno di una canzoncina, è più o meno l’esatto opposto di quello che i gruppi schierati predicavano, o almeno di quello che capivo io. Poco importa, nelle fanze li chiamavano comunque anthem: forse i primi a tirar fuori la parola volevano solo suonare un po’ più oi! di quello che erano in realtà. Poi era diventata una prassi fastidiosa.

Io comunque non sono mai stato un punk. Mi ci sono spesso definito, ma a conti fatti l’ho solo bazzicato un pochino da fuori, e so per certo che non fa per me. Ho visto concerti, comprato dischi e scritto per qualche fanza e questa più o meno è tutta la mia militanza: mai dato fuoco a un cazzo di niente, mai occupato uno stabile, mai preso una manganellata da un poliziotto in vita mia. Tutte le manifestazioni a cui ho partecipato erano grossomodo sponsorizzate da movimenti politici per i quali oggi ho nel migliore dei casi una blanda simpatia. Da un punto di vista puramente logico quello che facevo con quella musica mi identificava come una figura tra le più dannose di quel sistema: prendi un’auto, vai a sentire un gruppo in un posto occupato, paghi quel che c’è da pagare, torni a casa senza fare casino, e poi? L’accettazione di tutte le regole di base, ivi compresa la buona creanza, è il modo più onesto di tener spento il cervello mentre ti urlano in faccia di reagire. È complicato.

A un certo punto, per evitare questa cosa della gente che arrivava per godersi la musica senza cazzi, i cantanti di qualche gruppo iniziarono a tirare proclami dal palco, riflessioni stentate di stampo perlopiù anarchico/socialista. I proclami funzionarono abbastanza bene, fecero presa su qualcuno del pubblico che iniziò a farli col proprio gruppo. Così aumentarono di numero e frequenza, mossero le nostre coscienze e ci ispirarono a pensare con la nostra testa, cioè a scegliere a quale sottocultura dovessimo aderire. Come per le elezioni. Dopo un po’ a dire il vero era diventata una specie di barzelletta: finiva il pezzo e il cantante attaccava il pippone, che ne sapesse o no. Non so dove sia iniziata la cosa, ma a un certo punto qualcuno urlò per la prima volta la parola “SONA” dal pubblico. Si può ipotizzare che la gente a quel concerto sia morta dal ridere; qualche tempo dopo se qualcuno s’azzardava a dire due parole al microfono, qualcuno urlava SONA in romanesco. Era diventata una gag insopportabile a Bologna, non riesco nemmeno a immaginare quanto la menassero a Roma. Mi sto perdendo: tutta questa pippa è solo per dire che il punk può essere diviso in diverse epoche storiche sulla base della presenza di pipponi sul palco e della reazione di massima del pubblico agli stessi. Secondo questa categorizzazione ho vissuto tre periodi del punk italiano: 1 anthem, 2 anthem+pippone, 3 anthem+pippone+SONA+anthem. Ora ho smesso di andare nei posti occupati e non so a che punto siamo, anche se ho idea che il disfattismo post-tutto che ha seguito gli anni belli abbia ingravidato anche gli estremisti e ora si stia dentro ai posti occupati per le stesse due ragioni politiche per cui si sta da qualsiasi altra parte (intorto e self-branding). Di solito queste note finiscono con il conto dei vincitori e degli sconfitti, ma come detto mi limitavo a guardare dei gruppi.

Abbiamo avuto modo di storicizzare e in qualche modo mitizzare il “movimento” punk degli anni ottanta, per merito o colpa di gente come Philopat. Credo di aver capito anche come siano andate le cose, quali siano state le esperienze significative, quali semi siano stati gettati e perché tutto sommato questa roba è importante per la nostra cultura, ma se mi riascolto quei dischi non riesco a pensare che la musica fosse appena sufficiente. Non è che fosse proprio merda, ma la voglia di riascoltare dischi di Kina o Indigesti semplicemente non mi prende più. È musica che ascoltata la prima volta mi ha anche segnato, voglio dire, non l’ho scaricata da internet un pomeriggio e via andare; mi sono preso bene, ho inseguito i gruppi eccetera, ma è istituzionalizzata e mitizzata molto oltre i suoi meriti artistici. Non sempre e non solo: se mi prendessi il disturbo di riascoltare i CCM li troverei ugualmente buoni, ma in generale è passato un sacco di tempo e credo sia importante non sentirsi obbligati a portare rispetto a nessuno. Le storie di scontri botte okkupazioni collettivi e simili, dopo un po’, smettono semplicemente di appassionare; la musica che le accompagna dovrebbe reggersi in piedi da sola, ma il corollario sociale/estetico è stato per troppo tempo il centro di tutta la faccenda, e nessuno in fin dei conti s’è davvero smarcato dalle condizioni storiche in cui operava. Ci sono tante cose che non funzionano più per lo stesso motivo, almeno nella mia testa: gli Area, Andrea Pazienza, Skiantos, Gang, e un milione di altre cose. Raccontano epoche storiche necessariamente piene di contraddizioni a cui necessariamente non La volta che intervistai Marco Pecorari, anni fa, me la spiegò in un altro modo: “Viviamo in un paese dove i pochi stimoli culturali rimasti vengono sanzionati e stigmatizzati da una parte, e se non cadono nel box degli ultimi dogmi “sinistrorsi” rimasti vengono ugualmente sanzionati e stigmatizzati.” In qualche modo, il racconto di quelle “controculture” ha significato soprattutto un diverso tipo di adesione e per me quella roba suona tutta così. Di tanto in tanto mi metto su gli Affluente sul tubo perchè il cantante aveva la voce buffa.

Verso la fine degli anni novanta/inizio duemila il rock alternativo italiano esisteva in forma di istituzione. I gruppi grossi del ruock alternativo italiano venivano ancora raccontati/intervistati/recensiti sulla base della loro indipendenza e del loro non-allineamento, mentre firmavano contratti di prestigio. Stazionavano al primo maggio, sulla neonata MTV Italia e nei quotidiani generici; al Meeting delle etichette indipendenti si parlava di problemi legati a passaggi televisivi, finanziamento pubblico, quote radio, aliquote IVA (gli stessi problemi di cui s’è parlato al MEI di quest’anno, del resto). Recitate con costanza, iniziavano ad avere un loro senso perverso. I CSI erano andati primi in classifica, i Casino Royale avevano provato un tour dei palazzetti che li aveva ridotti in fin di vita. La misura del successo e dell’insuccesso di quella musica è dovuta al suo esistere o meno dentro il giro grosso, a certe condizioni, con tot gente davanti. Uno dei principali personaggi di quel periodo (Manuel Agnelli) la menava abbestia col rappresentare: mise insieme un festival di nuova musica alternativa italiana, una decina di anni dopo se ne andò a Sanremo per illuminare quel mondo lì, poi tirò fuori un altro festival, e via di questo passo. L’ossessione dei network per la musica sotterranea era splendidamente bilanciata da questo eccezionale bisogno di sicurezza.

La musica che si ascoltava nei posti punk, negli stessi anni, era incredibile. Le cose dogmatiche e inflessibili continuavano ad esistere, ma iniziavano a passare un po’ sullo sfondo mentre davanti si stavano imponendo decine di gruppi, tutti diversi uno dall’altro. Avevano ascoltato questi dischi strani che venivano dal sottobosco statunitense (31G, Ebullition, Gravity, Bob Weston, eccetera), suonavano un po’ storti un po’ Joy Division un po’ emo un po’ Beat Happening un po’ ultra-pop un po’ shoegaze un po’ cassa dritta. Se scavate di fino ci potete trovare un corrispondente in nuce di qualsiasi musica rock suonata di lì in poi, fatto prima e meglio: dischi di una bellezza sfiancante che sono passati quasi tutti sottogamba, o recuperati una decina d’anni dopo per il solo fatto che molti di quei gruppi hanno semplicemente continuato ad esistere. A volte penso che sarebbe bello fissare quel periodo sulla mappa, avventurarsi a scrivere un libro o girare un documentario su quell’epoca e darle un briciolo di giustizia, semplicemente perchè nessuno l’ha fatto. È che non saprei da dove cominciare: non ci sono mai stato dentro, non suonavo, non producevo, ho scritto qualche recensione, ho visto qualche concerto e basta; non è la mia cosa. Mi limito a registrare che tra Kina Sottopressione e With Love io scelgo duecento volte With Love, che i dischi di Anna Karina o To The Ansaphone me li sentirei ogni giorno, e credo che quindici anni dopo la cosa abbia un suo significato. Qualcuno si prenda la briga e la faccia, una monografia. E magari mi venga a fare domande. Nel caso, se mi chiedesse di prendere una canzone ed erigerla a manifesto o anthem di quel momento lì, credo non ci metterei più di dieci secondi a dire Pitagora.

Gli Altro sono il gruppo più alternative rock del DIY di quegli anni, o il più DIY dei gruppi alternative rock di quegli anni. Musicalmente parlando sono una soluzione di compromesso, una cosa fatta col cuore che sembra rock italiano. A livello di appartenenza, invece, erano un gruppo punk. Nel senso proprio letterale del termine, quel fiero processo di autocertificazione lì. Se chiedi agli Altro che musica suonano ti rispondono punk, se cerchi i loro dischi li cerchi in una distro a un concerto punk, e via di queste. Mentre usciva la loro prima roba il chitarrista aveva già un po’ di anni sulle spalle: disegnava locandine di concerti con ragazze o robottoni giapponesi, fotocopiava storie a fumetti e le spediva per posta. Il loro CD, che se non erro segue un solo 7”, esce nel 2001 su un’etichetta di nome Love Boat. Si chiama Candore e ha una copertina rosso fuoco con un cerchio nero in mezzo e il disegno del viso di una persona avvolta da ali d’angelo. Non so cosa significhi, ma la prima volta che lo vedi ti rimane impresso perché, diosanto, è completamente diverso da qualsiasi disco si trovi in una di quelle distro.

(oggi no)

Pitagora è registrata un po’ così. Inizia con una scarica di batteria e poi chitarre voci e basso assieme che fanno un gran baccano e si mandano un po’ in culo a vicenda. Il testo è fatto da un paio di domande e sfocia in un ritornello bestiale che è fatto apposta per essere urlato a squarciagola: io credevo che noi fossimo uno soltanto uno. Quattro note in tutto, la voce del chitarrista è aspra come quasi niente. Dura qualcosa come un minuto e mezzo, diviso in due parti di quarantacinque secondi identiche. Non credo che Pitagora sia stata concepita come un inno: era una canzoncina pop suonata fortissimo da tre persone che quando le vedevi sul palco sembravano in egual misura i Metallica e un agorafobico. Si può dire che sia un inno solo nella mia testa e nella testa di altre centocinquanta persone in giro per questo paese. Non ha meriti musicali particolari che non siano il rispondere all’unico canone rigido del rock’n’roll, di suonare più forte e slabbrato possibile (nelle recensioni anni novanta si diceva urgenza).

La Pitagora che sta sul disco ha sicuramente qualcosa di involontariamente innodico o anthemico, ma l’avreste dovuta sentire dal vivo. Io li ho beccati una manciata di volte, niente di eccessivo; la volta che ricordo con più piacere è un Musica nelle Valli di una decina e passa d’anni fa, dentro a un tendone da circo con la terra polverosa che si alzava e riempiva l’aria e ogni tanto dovevi uscire a scatarrare. C’era più o meno qualsiasi gruppo potesse venire in mente. Gli Altro suonavano la prima sera: fuori c’era il loro secondo disco, registrato da un mammasantissima dell’alternative grosso sotto contratto major (Bugo). Erano presi bene e spaccarono tutto. Poi li ho persi per anni: Baronciani è diventato Baronciani, la roba che disegna è roba sempre più buona. Gli Altro continuano ad esistere (a ritmi rilassati) e buttar fuori dischi e sette pollici.

Adesso è tutto diverso. Non leggo più le recensioni dei gruppi punk, i posti occupati che conoscevo per la maggior parte hanno chiuso. Qualche gruppo di quelli lì ha avuto un bel successo di pubblico; qualcun altro è rimasto al palo e s’è sciolto in mezzo alle cose da fare. Baronciani è diventato Baronciani: fa le stesse cose di allora, ma meglio. Il suo gruppo continua ad esistere a ritmi rilassati e buttar fuori dischi. L’unica volta che li rividi, un paio d’anni fa, Pitagora non la suonarono nemmeno. Ci rimasi malissimo.

Mai saputo perchè si chiamasse Pitagora.

7 thoughts on “100 canzoni italiane #2: PITAGORA”

  1. Io ho sempre pensato si chiamasse Pitagora in quanto il testo del ritornello aveva un che di aritmetico

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