100 canzoni italiane #5: LA LOCOMOTIVA

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Il mondo in cui ho dovuto imparare a stare al mondo era molto diverso dal mondo di oggi. Quando avevo vent’anni non sapevo ancora che cosa avrei fatto della mia vita, e nel dubbio avevo imparato a rispettare la classe lavoratrice. Oggi apro un giornale, o guardo un TG, e vengo assalito da storie costruite apposta per farmi odiare i miei pari grado: centinaia di sbirri che si danno malati per la notte di capodanno, privati cittadini che inculano le briciole allo stato, dipendenti statali assenteisti, lavoratori sfaticati, insegnanti svogliati. Ci prendiamo un caffè alla mattina sfogliando Repubblica online, leggiamo qualcosa di inesatto e sbertucciamo chi l’ha scritto, chiedendoci pubblicamente quanto/se viene pagato. Nutriamo una certa simpatia ridanciana per alcuni miliardari pittoreschi ed empatizziamo con le loro vicissitudini come se dovessimo entrare a breve a far parte della categoria. Odiamo la politica, odiamo manifestare per cause uncool, consumiamo prodotti che sono stati fabbricati sfruttando lavoratori o delocalizzando i siti produttivi, senza porci troppe domande -un po’ perché in fondo chi cazzo se ne frega e un po’ perché prima svuotiamo il piatto poi vediamo dove sputare. Ci lamentiamo del pozzo senza fondo dei finanziamenti all’editoria e sfottiamo riviste e quotidiani che chiudono perché non hanno sviluppato a dovere l’online o non sono riusciti a rimanere sul mercato. Stamattina appena sveglio ho letto questo articolo e ho pensato che fosse figo. Poi ho pensato che se l’avessi scritto io sarebbe suonato come l’attacco di un rosicone che vorrebbe ma non può, perché in qualche modo per muovere queste critiche serve avere credenziali che non ho; il passo successivo è chiedersi a che mulino porta acqua il pezzo, se mi si nota di più quando mi lamento o quando non partecipo e -più di tutto- se c’è un modo di esprimere indignazione e disprezzo ma avere l’aria di uno che tutto sommato scopa, alla Civati. La generazione di cui faccio parte ha tra i 30 e i 40 anni, cioè siamo stati adolescenti in quel periodo non ancora postideologico tra la fine della vecchia Italia all’inizio della nuova. Nei primi anni novanta ero un ragazzino e non dico che qualcuno me l’abbia chiesto espressamente, ma ho dovuto scegliere se stare a destra o a sinistra. Nella vecchia Italia erano tutti incazzati e schierati politicamente. Poi, così all’improvviso, tutti avevano iniziato a sbattersene i coglioni di tutto. Fossi rimasto in dubbio un altro paio d’anni tra destra e sinistra, probabilmente non sarei stato tenuto a scegliere e sarei diventato cool.

La locomotiva parla di una storia vera. Il protagonista è un ferroviere anarchico di nome Pietro Rigosi, vissuto alla fine dell’800. Il 20 luglio del 1893 sganciò la locomotiva da un treno merci verso Poggio Renatico (quei posti in mezzo al niente verso Ferrara da cui proviene Vasco Brondi) e si lanciò a bomba in direzione Bologna per andarsi a schiantare contro un treno che caricava borghesi e notabili. La locomotiva venne dirottata su un binario morto e si andò a schiantare. Rigosi sopravvisse all’impatto, perse una gamba, fu esonerato dal servizio e diventò il protagonista di una canzone. Francesco Guccini la scrisse e la mise nel suo quarto disco, Radici, anno 1972. La versione sul disco l’ho ascoltata un paio di volte; quella che sta dentro Tra la via Emilia e il west, un live uscito a metà degli anni ottanta, l’avrò sentita settecento volte.

La locomotiva è una canzone abbastanza ostica per gli standard del cantautorato italiano: tredici strofe, durata punitiva (sopra gli otto minuti), classico viaggio da cantastorie flippato con il prog rock. In qualche modo diventa la sua canzone più famosa, il sinonimo di “Francesco Guccini”, la canzone con cui chiude i concerti e quella su cui il pubblico urla più forte. La ragione è la presenza nel testo di proclami tipo “trionfi la giustizia proletaria” o “la fiaccola dell’anarchia”. Ho avuto il mio periodo comunista, con tutti i crismi a parte la fiaschetta di vino e il maglione coi buchi (non che sia uno conosciuto per vestire bene). Imparando a stare al mondo ho capito che avrei dovuto modificare le mie strategie o iniziare a battermene il cazzo di quello che succede nel mondo intorno a me, guardare tutto con occhio cinico, sarcasmo e atteggiamento post. Riesco ad apprezzare le sparate da ultras di certi personaggi pubblici, le tengo come sottofondo nei momento in cui ho voglia di ascoltare fuffa. Non ho bisogno di sapere cosa votano le persone a tavola con me, non mi infastidisce davvero mangiare la piadina a Piacenza e non credo sia tutto questo male innaffiare il vino. Della mia fase sinistra hardcore sono rimasti solo due strascichi: l’abitudine di cercare la pallina rossa su cui mettere la croce quando sono in cabina elettorale, e il magone che mi prende quando ascolto La locomotiva. Non so davvero dire perché: non ho mai cercato dischi di Guccini nei negozi, non ho ascoltato il suo ultimo disco, non me n’è fregato un cazzo quando ho saputo che avrebbe smesso di suonare dal vivo. Conosco il testo e so che parla di un pazzo assassino; sono sicuro che se Guccini l’avesse incisa uguale nel ’94, a seguito di un fatto di cronaca successo l’anno prima con me davanti al telegiornale, avrei odiato lui e quella canzone. Una strage è una strage, voglio dire. E allora perché? Non lo so dire. Mi ricorda un mondo che se n’è andato un sacco di anni fa. Forse il mondo che l’ha sostituito è migliore, non so dirlo. Quando trovi gradevole la realtà in cui vivi, secondo la teoria politica del me diciassettenne, stai iniziando a perdere.

L’ho anche visto suonare una volta, a Ravenna. Il Pala De Andrè è un palazzetto dedicato al fratello del FABER, che si chiamava Mauro ed era l’avvocato di Raul Gardini (a Ravenna la cosa di Raul Gardini è molto sentita). La sorella della mia morosa dell’epoca mi regalò i biglietti sulla base di un equivoco storico per il quale alcuni mi considerano un grandissimo fan di cantautori italiani degli anni settanta, più di tutti Guccini e De Andrè. Insomma, entriamo dentro il palazzetto e ci troviamo in mezzo a migliaia di barboni seduti per terra, con quel tanfo allucinante di sudore rappreso e Tavernello.

Nel giro di due minuti mi sale addosso quella sensazione di non entrarci un cazzo. È una sensazione tipica di certi concerti, ad esempio quando suona un gruppo dark o black metal, non so se avete presente. Entrate nel posto e vi trovate in mezzo a duecento persone vestite diverse da voi e che pur vivendo nella stessa città non avete MAI visto in giro. Non sono persone che si sono messe un vestito pittoresco: hanno capelli corvini lunghissimi e tatuaggi in posti visibili o cose così. Quelli al concerto di Guccini sono come quelli ai concerti black metal, ma più anni settanta. Inizio a guardarmi intorno con la mia morosa cercando di indovinare chi di loro ha fatto più concerti di Guccini; identifico uno che sembra essere almeno a quota 45, e per qualche minuto mi viene in mente di fingermi un giornalista musicale per andarglielo a chiedere. Guccini sale sul palco senza cerimonie e inizia ad attaccare un pippone tipo standup comedy improvvisata sul fatto che i tempi moderni fanno schifo. La gente è presa benissimo ma continua a stare seduta per terra. Scoprirò dopo che è una prassi dei suoi concerti: inizia sempre con lo stesso pezzo (Canzone per un’amica), canta una decina di pezzi e la gente non sembra essere troppo smossa.

Non posso dire che il concerto sia la cosa più coinvolgente a cui abbia mai partecipato, un po’ perché nella mia vita ho visto concerti piuttosto tirati con gente che si stava per ammazzare, un po’ perché in fondo anche a me sta sul cazzo quell’immaginario da fricchettoni col barbone, il maglione coi buchi e la fiaschetta di vino; però sul finale sono in botta persa e in piedi come tutti, e davanti, e sto anche urlando un bel po’. Le canzoni le conosco bene, il gruppo è tosto, lui è in parte. Guccini è un vecchietto che malsopporta la vita del musicista, e tutti i suoi monologhi parlano di questo, di una carriera lunga cinquant’anni e della gente che ti chiede di suonare sempre gli stessi cinque pezzi. No, L’avvelenata non ve la faccio, sono vent’anni che non faccio più L’avvelenata, e sì, che palle, ecco, adesso facciamo Il vecchio e il bambino, ma sì che ve la faccio Auschwitz, ecco, adesso indovinate un po’ con che pezzo chiudo. Sorride. La gente sotto sorride un po’. Poi a quella chitarrina non si resiste. La canzone ha uno strano potere curativo, dimentichi tutte le volte che hai votato PD, ti abbracci con quei ragazzoni che puzzano di sudore vecchio, alzi il pugno, urli e piangi un po’. La canzone finisce, la gente applaude, Guccini chiede una commissione d’inchiesta su Genova, la gente applaude più forte, ognuno riporta a casa le proprie ipocrisie e i propri anacronismi. Dovendo tirarci fuori una morale, per otto minuti mi sono sentito una persona a posto. La locomotiva è deragliata lo stesso. Guccini dopo quel concerto lì ha fatto un altro disco, e c’è stato anche un tour. Solo che lui non c’è andato, a cantare. L’ha fatto fare a qualcun altro e se n’è rimasto al suo paese, da qualche parte sulla Porrettana. Secondo le leggende fa la vita del pensionato, gioca a carte in osteria e tutto il resto. Dice un mio amico che se ti presenti a casa sua e porti una fiaschetta di vino ti fa entrare, si beve un paio di bicchieri con te e parla di politica. Che come lieto fine non è male, in fondo.

4 thoughts on “100 canzoni italiane #5: LA LOCOMOTIVA”

  1. Ci sono passato anch’io, mi ero persino trascritto un bel po’ di pezzi suoi a penna, su di un quaderno, inizi del ’90, il mio periodo politicizzato a Milano, con insieme a Guccini naturalmente anche Gaber e Jannaci, ma era una situazione tristissima, sarà che lo è Milano, e la locomotiva la sentivo per qualche motivo giusta, insomma, il sacrificio del disperato, il kamikaze che se crepo io allora crepiamo tutti, però era davvero troppo triste, molto raramente la ascoltavo, in giro per Milano da operaio pendolare, dentro il metrò, poi, e che fai, lo dirotti? Ecco, triste è il sostantivo che da allora appioppo a Guccini, compagno triste, gli anni ’70 sono finiti da un pezzo.

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