La prima volta che ho messo piede a XM24 non era ancora XM24: il mercato ortofrutticolo stava ancora al suo posto, merce in esposizione e tutto il resto, prima e dopo casermoni ora rasi al suolo da mo’; potrei sbagliarmi ma già allora sembrava un po’ in disarmo, un luna park senza le giostre a un passo dallo smantellamento. Non ne conservo ricordi particolarmente nitidi: quella era la strada che dovevo fare per andare dal dentista, un tragitto che ricollegavo al dolore fisico a cui mi stavo volontariamente consegnando, che mi aspettava, ineluttabile, ogni passo sempre più vicino. Avevo sette anni e un sacco di carie; non importava quanto e quante volte al giorno andassi giù peso di dentifricio e spazzolino, ne uscivano sempre di nuove, buchi neri di lancinante inanità in punti che mai avrei sospettato sapessero fare tanto male. Ero arrivato alla logica conclusione che masticare fosse un’azione intrinsecamente sbagliata, una colpa da espiare, di cui rendere conto a un dio malevolo che regolarmente esige il necessario tributo. Doveva essere così, per forza. Mio padre ha avuto problemi ai denti tutta la vita. Suo padre uguale. Sangue cattivo. E però la soluzione era peggio del problema. Di una cosa ero assolutamente certo: piuttosto che un’altra visita dal dentista avrei preferito tenermelo in eterno quel male. Il trapano, uno strumento di tortura che avrei imparato a detestare molto presto – ‘anestesia‘ una parola di cui nemmeno conoscevo l’esistenza; ero troppo piccolo per poterla chiedere e ottenere senza sbarellare, oppure ero finito nelle mani di un sadico bastardo. Comunque, stesso risultato: ogni cellula del mio corpo colonizzata dalla sofferenza, sentire ogni trivellazione, sentirla tutta.
Fino ai dieci il rituale del dolore si è ripetuto invariato, stessa location, stesso svolgimento, cambiavano solo gli intervalli tra una seduta e l’altra. In sala d’attesa leggevo avidamente Lanciostory (lì ho scoperto che esistevano altri fumetti oltre Topolino: il lascito più significativo di quegli interminabili pomeriggi, altrimenti terrificanti su tutta la linea), sperando con tutte le forze di finire catapultato per osmosi da qualche parte lontano da lì; nel cosmo, magari. Non sapevo esistesse un film intitolato Il maratoneta; senza averlo visto, era come lo conoscessi a memoria. Lo stavo vivendo, a rate, in prima persona. Ero io Dustin Hoffman, il dentista Laurence Olivier più bastardo. Mi torturava senza bisogno che rispondessi in maniera sbagliata alla domanda “È sicuro?”. Nessuna domanda, lo faceva e basta.
Non ho più voluto tornare nei paraggi, nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio. Il Link era un’altra cosa; geograficamente vicino, mentalmente su un altro universo, a galassie di distanza. Fasi della vita, soprattutto niente più dentisti all’orizzonte. Per arrivarci facevo un’altra strada, passavo di fianco alla stazione, alla ferrovia. Il più delle volte non ricordo come né in quali condizioni fossi riuscito a tornare a casa. Succedeva che, in qualche maniera, mi risvegliassi nel mio letto. Non sempre; non era scontato.
Quando XM24 è diventato XM24 ero altrove, con il corpo e con la testa. Dove, altra storia. Diventa complicato assemblare i ricordi, dare una forma coerente ai ricordi, quando la memoria funziona a corrente alternata. Non ho preso coscienza immediatamente del posto, al contrario; il processo è stato lento. C’era l’antiMTVday e pochissimo altro, almeno a mia memoria; per quanto ne sapevo era un posto vuoto che in occasione di un festival che mai mi sono preso la briga di odiare metteva insieme una specie di contraltare dove suonavano gruppi che mi andavano a genio più di molti altri, poi per 364 giorni tornava in immersione. Non era così, naturalmente, ma i canali di informazione erano pochi se non facevi parte del giro; quindi ai fatti per me il risultato era lo stesso. Il flyer di un concerto potevo avvistarlo anche settimane dopo il concerto, nei posti più impensabili; funzionava tutto molto a caso. Funzionavo a caso.
Dal 2004 ci sono finito via via sempre più spesso. Continuavo a sbagliare strada, a finire al centro sociale dei vecchi pochi metri prima, ogni volta con sommo sgomento. Confusione mentale come manco Marv. Ci ho messo anni a memorizzare l’ubicazione, a capire che “24” era il civico. Il collettivo Frigotecniche nasce nel 2005, da qualche parte in rete si trova ancora il manifesto di allora; diverse incarnazioni si sono susseguite, il nome è rimasto. Ne ho visti andare, altri arrivare, giorno dopo giorno, anno dopo anno. A un certo punto sono entrato a fare parte dell’ingranaggio. Qualsiasi cosa, dalle pulizie, alla cassa, a preparare da mangiare ai gruppi, a servire birre ignoranti e torcibudella assortiti al bar, la qualunque: ogni compito non richiedesse qualifiche o competenze specifiche c’ero dentro. Non suono in un gruppo e non organizzo roba, non lo facevo per scambio di date o favori o prebende di altro tipo, lo facevo per continuare a farla girare, per portare avanti qualcosa in cui credevo. Ho visto belle cose, altre meno belle, altre sarebbe stato molto meglio non averle viste mai; ho conosciuto persone che sono finite per diventate i fratelli che non ho mai avuto come anche la peggio feccia in circolazione sotto ogni punto di vista (morale, umano). In mezzo una serie di immagini che mi porto dentro comunque vada. Qualcosa scompare come dicevano i Negazione, e qualcosa rimane come dice Francesco: proprietà transitiva.
Sabato si celebra qualcosa che rimane. Dieci anni di Frigotecniche tra baldorie, balotte e battaglie.