L’ultimo disco dei Blur con Graham Coxon era 13, un disco con tre-quattro pezzi pop e una serie di inconcludenti seghe mentali. Me l’avessero chiesto ai tempi avrei detto che era “di gran lunga il loro miglior disco”, ovviamente per il lato B di cui ho ancor oggi una vaghissima cognizione; ricordo tuttavia di essere stato conquistato a bestia dal singolo Tender, lo cantavo spessissimo e non era un piacere. In quella magica stagione figurai anche a caso ad un torneo estivo di calcetto nel mio paese; la squadra era bella rimediata, come facilmente intuibile dal fatto che in panchina ero pure io (non so giocare a pallone, non son bravo manco a portare l’acqua). Ricordo solo, di quel torneo, che sono stato cacciato via dal mio spogliatoio prima del penultimo incontro perché avevamo perso tutte le partite fino ad allora con dei sette a zero, e c’era questa atmosfera funebre e io continuavo a cantare “oh my baby, oh my baby”. Più che giusto. I Blur erano nella loro miglior incarnazione un gruppo britpop che sfornava canzoni eccezionali a un ritmo inconcepibile per quasi tutti i loro contemporanei. Poi intuirono che il britpop avrebbe finito per diventare una barzelletta poco divertente e iniziarono a scrivere dischi di pop complesso e stratificato, niente di complicatissimo, quel pop mezzo figo e mezzo no che un sacco di gente pensa essere la chiave per comprendere la nostra epoca tipo gli Stereolab (e comunque gli Stereolab erano gli Stereolab e i Blur sperimentali erano i Blur sperimentali). The Great Escape iniziava a seminare dissenso interno al gruppo, o comunque c’era qualche accento, e simili. Blur e 13 esplosero in mano alla critica, e con tutto quel che c’era nei lati B erano comunque dischi con un paio di singoloni che portarono soldi goduria e fomento in giro per i party. Non si è mai ben capito quale fosse la dinamica interna al gruppo e continuo a non conoscerla tutt’oggi (Coxon prende più o meno potere nel gruppo? Albarn prende in mano la musica o soccombe al suo chitarrista per metà del minutaggio? Come si pongono gli altri due nel merito?). Del resto non è interessantissimo.
(uu-hu)
La storia della musica popolare vive di una sorta di common law scritta da recensioni influenti che nessuno ha motivo di confutare o stracciare in tempo reale, e tornarci tre anni dopo non ha senso per nessuno. Nello stesso periodo in cui i Blur passano dall’essere un gruppo di punta di un movimento rampante a una delle più solide istituzioni della musica di quegli anni, i finto-rivali Oasis iniziano a venire accusati di stasi creativa e cronica crisi d’ispirazione: la seconda è rintracciabile solo in parte, la prima è una sorta di mito ideologico della critica degli anni novanta secondo cui un artista o un gruppo dovrebbe essere sempre in evoluzione. Per evoluzione si intende produttori di grido, accenni kraut rock e altre stronzate da manuale del musicofilo. Poi hanno fatto un altro disco a nome Blur senza il chitarrista, per qualcuno è un disco eccezionale, per me fa schifo, ci sta. Nel frattempo il britpop interessante ha vinto la sua decennale battaglia contro il britpop britpop, dando all’intuizione dei Blur quel tono serioso da gruppo programmatico. I Radiohead hanno pubblicato Kid A, una posa di plasticosità avant-pop influenzata da Warp che se fosse uscita su Warp sarebbe stata apprezzata solo dai fan dei Radiohead. Un discaccio di eccezionale successo critico, spesso citato tra gli uno dischi più importanti degli anni duemila, che ha determinato molta della peggior musica che abbiamo ascoltato in questi anni e la definitiva vittoria di questo atteggiamento inopinatamente omnicomprensivo nel pop contemporaneo: l’idea secondo cui, per fare musica pop, essere coscienti di ciò che è musicalmente importante nella nostra epoca sia meglio che essere estremamente ferrati in una sola materia. Il trionfo della visione televisiva su quella accademica, il tutto soggiogato all’imperativo di essere sempre e costantemente interessanti. È sotto questa cattiva stella culturale che esce l’ultimo disco dei Blur o il primo disco di un gruppo che si chiama ancora Blur ma dentro cui non è più attivo Graham Coxon, cioè Think Tank, cioè il momento in cui si capisce definitivamente che il genio del gruppo è Damon Albarn, o più verosimilmente che può esistere un Damon Albarn anche senza Graham Coxon (ma già il disco dei Gorillaz spingeva in tal senso, a proposito, l’indulgenza che provate per Albarn e i Blur non si estende anche ai Gorillaz, VERO?). Il disco è comunque la cosa più noiosa a cui hanno messo mano i Blur, Leisure compreso, ma la combinazione tra pretese artistiche e periodo storico continuano a rendere i Blur rilevanti. Non che sia importante in sé, visto che al tour di Think Tank non segue niente.
Si è perdonato molto meno a certi gruppi di quanto si sia perdonato ai Blur. Dalla reunion ad oggi il gruppo ha continuato ad annunciare ultimi concerti forever and ever finché nemmeno i fan più accaniti riuscivano più a prenderli seriamente, e un disco nuovo era semplicemente questione di tempo.
The Magic Whip è un disco orribile. Non vale nemmeno la tristezza e l’imbarazzo di certi reunion album incisi come fuori fosse ancora il ’96, quei palesi riempitivi di un curriculum necessario per tornare in tour (che so, i Get Up Kids); è più concepito come una revisione sadcore casuale della carriera dei Blur, in cui i pochi momenti interessanti lo sono più in quota so bad it’s good, tipo quando in Go Out Albarn canta uo-o-o-o-o come se li avessero costretti forzatamente a riregistrare Charmless Man dopo una cura di litio. Niente singoli, ovviamente, a rivendicare la gloriosa presa di posizione della seconda parte della carriera o a sottolineare quanto sia assurdo aspettarsi un disco dei Blur con anche solo una bella canzone pop (è anche difficile immaginare Blur senza Song2 e Beetlebum in programma, ma magari qualcuno le skippa). Le uniche due cose stupefacenti di The Magic Whip sono la spocchia a fondo perduto di cui è intriso (che al confronto il disco solista di Albarn dello scorso anno volava basso) e l’entusiasmo senza riserve con cui è stato accolto. Come se il pubblico del pop fosse invecchiato peggio dei Blur, che almeno un po’ di dignità nel mostrare le rughe nelle foto promozionali ce l’hanno; noialtri siamo lì ad aspettare con frenesia il vinile pesante di una roba che passeremo una trentina di volte sull’impianto del soggiorno giusto per il fatto che non dà fastidio neanche a cantarlo una quindicina di volte al portiere della Jagermeister FC al torneo di calcetto della parrocchia.
In un vecchio articolo Bertoncelli esprimeva tutto il suo astio per David Bowie, responsabile della morte del rock’n’roll, arma del delitto: la decadenza, la stratificazione dei significati, la scoperta/rivelazione delle rughe che crescevano all’ombra delle frange ingellate.
Ai sostenitori della più diffusa tesi difensiva – la fine era inevitabile, le rughe c’erano già, non ce le ha messe Bowie, lui ha soltanto deciso di guardarsi allo specchio – Bertoncelli ribatteva che il rock’n’roll, prima di Bowie, non aveva avuto il tempo e la voglia di guardarsi allo specchio. Il rock’n roll era energia, non vanità.
Il Britpop “interessante” ha fatto al Britpop delle origini quello che Bowie ha fatto al rock’n’roll, ed è la ragione per cui lo detesto. Però non so se ha davvero vinto. Se il parametro sono le vendite e i giudizi della critica sicuramente sì. Ma alcune band hanno continuato a sfornare dischi come se nulla fosse cambiato, spesso dischi ottimi, relegati ai margini (ma comunque con numeri dignitosi): penso ai Supergrass, ai Kula Shaker, al secondo album dei Mansun, agli Oasis. Se questo è perdere, ci metto la firma.
Non condivido il disprezzo totale per i Blur “interessanti”. Perché anche a posteriori mi sembra abbiano seguito un percorso molto naturale e per nulla artefatto(i Blur sono sempre stati sofisticati e stratificati, da bravi figli degli XTC). Perché mi piace Albarn quando canta fatalista, e continua a piacermi il lato B di 13 (che è dopo Parklife il loro album che preferisco, ed è dopo Parklife quello che mi capita più spesso di riascoltare). Mi piacciono alcune cose di Albarn solista (The good the bad etc), e mi piace perfino the Sky is too high, un adorabile Frusciante vorreimanonposso.
Magic Whip è mediocre. Mediocre ma dignitoso . Tremendi i pezzi Britpop Britpop (a partire dall’insostenibile lonesome street, che tutti elogiano: non sarebbe entrata neanche tra le b-side di the great escape). Meglio quelli di Britpop interessante. Non so dire se è il loro disco peggiore. Però non lo trovo orribile.
hai scritto centinaia di parole ma alla fine non hai spiegato cosa non ti piace… I suoni, le melodie, gli arrangiamenti… I testi?! Tutto quanto?
non mi piace la musica
Non ho capito la critica, che di fatto non c’è, non ho neanche capito se è una cosa seria, o si fa per scherzare, del genere, diciamo qualcosa di brutto su quel disco, saremo molto fighi, fuori dal coro, e useremo poche virgole, porcatroia, non sappiamo cosa abbiamo detto, ma sì che l’abbiamo detto bene..
Vabè, per me è un gran disco, è qualcosa che dopo tanti anni non mi sarei aspettata. Tanto basta. Tanto Mi basta.
i fanatici del britpop generalmente sono ascoltatori che se la tirano molto, pensando di avere gusto raffinato da intenditori. Magari il fan medio dei blur schifa i Queen (che bene inteso a me non sono mai piaciuti molto) definendoli volgarotta band per le masse ignoranti, e poi si masturbano sulle canzoncine sceme dei Blur. Fermo restando che a me i Blur degli anni 90 non dispiacciono, li ho sempre considerati pop-rock facile per le masse. Da qui non si capisce questa puzza sotto il naso dei loro fans. Comunque i fans di Bowie sono pure peggio.