Ci sono poche storie nella musica italiana come quella di Mia Martini. Lanciatissima lungo tutti gli anni settanta, devastata dalla storia d’amore con Fossati, sopravvive come artista a due pesanti interventi alle corde vocali che ne modificano la voce, ma non alle dicerie sul fatto che porti sfiga. Per quasi tutti gli anni ottanta rimane in silenzio. Poi si ripresenta a Sanremo, sette anni dopo: è il 1989. Osteggiata, vessata, picchiata, dimenticata da molti, in ritiro da qualche parte in Umbria. Bruno Lauzi ha una canzone nel cassetto da quasi vent’anni, si chiama Almeno tu nell’universo, e vuole che sia lei a cantarla. Nel 1989 ci riesce. Mia Martini la butta addosso al pubblico con tutto il fiato che ha in gola e risorge dalle ceneri. La canzone vince il premio della critica, arriva a metà classifica ma diventa da subito e per sempre una delle canzoni preferite dal pubblico. Un ritorno chiassoso ed esaltante, che tuttavia non è niente rispetto a quello che succederà l’anno successivo.
Il 30 gennaio 2012 sono dentro al solito delirio lavorativo in ufficio. Mia madre è andata a Milano con sua sorella e mio fratello e la moglie di lui, il giorno prima, a farsi operare, ti risparmio i dettagli. Mio fratello ha detto che l’intervento è andato bene ed è sceso a casa il giorno prima, perché dove lavoriamo io e mio fratello a gennaio e febbraio le ferie non possiamo prenderle. Così il patto è che lui la porta su e io la vado a prendere. Quel giorno lì, tre o quattro giorni in anticipo sulla data, mamma mi chiama e mi dice che il giorno successivo la dimettono. Mamma, dice il meteo che stanotte vien giù mezzo metro di neve, le dico al telefono. Mia mamma di solito è comprensiva, ma si è rotta le scatole della clinica e di Milano, e non sente ragioni. Ha avuto un intervento in testa il giorno prima e non è davvero il caso che la faccia mettere su un treno, così decido di partire che tanto ho le termiche. Decido anche che partirò la sera stessa per non dovermi sorbire un dramma il giorno successivo. Chiamo Tommaso ed elemosino una branda, la mia fidanzata ha paura a farmi fare il viaggio da solo e decide che saliremo assieme. La televisione e la radio hanno toni vagamente apocalittici. Io la neve grossa l’ho vista una volta, da bambino, e allora la neve grossa era una bella cosa, slitte e gommoni giù per la discesa nel campo che sta accanto al cimitero. Arrivo a casa di Tommaso intorno a mezzanotte e scambiamo sì e no una stretta di mano con sorriso annesso. Il giorno dopo ci alziamo sulle sette e c’è già neve per strada, niente di eccezionale, qualche centimetro. Tra poco passeranno i mezzi poi boh, vedremo in autostrada. Passo a prendere mia mamma, l’antigelo in auto è a posto, partiamo. A Milano hanno già fermato i camion, alla barriera di Melegnano, anche se a terra c’è ancora poca neve, cinque o sei centimetri, si va piano e si procede. Man mano che si scende le macchine in autostrada spariscono: i camion sono parcheggiati a destra, in mezzo viaggiano solo dei temerari in SUV e una famiglia di sfigati su una Peugeot 307 che almeno ha le termiche. Il più grosso problema non sono le gomme: il più grosso problema è che la neve viene giù a randellate e dopo un po’ il tergicristallo ha accumulato tanto ghiaccio che farlo andare è quasi peggio che tenerlo spento. Allora dovresti fermarti e pulire, ma non puoi farlo in mezzo alla strada e devi aspettare l’area di sosta. Il primo crollo nervoso ce l’ho all’altezza di Campogalliano, qualcuno in macchina mi dice qualcosa di sbagliato e si becca un urlo. Mia madre, la mia morosa e mia zia. Chiedo scusa e proseguo. Sono le 13, o qualcosa del genere: siamo in viaggio da 5 ore circa. Arriviamo alla nostra uscita due ore e mezzo dopo, ma il casello di Cesena Nord è chiuso, così tocca farla dalla città. Non ci metto molto a capire che la parte più dura viene dopo il casello. Ai bordi delle strade la neve è altissima, fa spavento. Usciamo a Cesena centro per miracolo e appena entrati alla rotonda di Villa Chiaviche capisco che butta di merda. Per terra la neve non è poi molta, solo quella che scende dal cielo: gli spartineve sulla Cervese sono passati, almeno credo, e hanno lasciato sulla strada solo uno strato di ghiaccio spessissimo su cui si sono formate delle buche, che la macchina sbarella da una parte all’altra della strada e senti le sospensioni alla base delle gengive. Uscire dalla Cervese chiede una mezzoretta invece che i soliti cinque minuti, e una volta arrivati fuori dalla strada principale iniziano ad affollarsi bambini che fanno a palate di neve in mezzo alla strada con le macchine che passano sbandano e le mamme dietro che si fumano delle paglie. Odio tutti. Il motore si è surriscaldato appena uscito dall’autostrada, inizio a sentire un po’ di puzza e non capisco se va tutto bene perché il rumore delle ruote che saltano sul ghiaccio copre tutto. Lascio mia zia a casa a Cesena e mi ci vuole un’altra oretta per arrivare a casa. Sono le 17, sto guidando da nove ore per tornare a casa da Milano, ho i nervi a fior di pelle. A Calisese, il paese dove vivo, c’è un metro di neve. Nove ore di guida e devo spalare la neve nel cancello. A questo punto arrivano i vicini che sono tutti in botta con il vin brulè che ha portato fuori la Pina e le pale nuove per la neve e stanno facendo un contest a chi ne spala di più. Dio li abbia in gloria, mi sgombrano la via per il garage in un minuto e mezzo. Qualcuno riesce a portare in casa mia madre, che ha avuto un’operazione al cervello 30 ore prima ed ha già preso in mano un badile per spalare la neve. Mio babbo s’arrabatta alla meno peggio, la salute malferma, la gamba destra che si trascina. Scopro che ha fatto una brutta caduta qualche ora prima ed è pieno di ecchimosi ma non riesce a stare in casa. Chiedo se c’è ancora del brulè ai vicini, ma pare di no. L’auto non parte, ho fuso il bulbo: se ne parlerà quando il ghiaccio è passato. Metto le catene alla Panda di mia mamma e il giorno dopo sono pronto ad andare al lavoro. Seguono tempeste e tragedie: la mia morosa non tornerà a casa per due settimane, rimarrà a guardarmi mangiar polenta spezzatino e vino rosso per due settimane. Poi arriva il blizzard, lo chiamano, e chiudono ancora tutte le scuole e gli uffici del comune e il supermercato non ha la roba fresca per qualche giorno ed è tutto bello e divertente a parte che non si riesce a vedere di là dalla montagna di neve, tipo due metri, che abbiamo spalato. A qualcuno è andata anche peggio. Anche per i vecchi è la nevicata più grossa che abbiano visto.
Anche La nevicata del ’56 è degli anni settanta. Fu scritta da Luigi Lopez, Massimo Cantini e Carla Vistarini per Gabriella Ferri, poi qualcosa andò storto e il singolo non venne mai pubblicato. Alla fine degli anni ottanta Franco Califano la riprese in mano e riscrisse il testo per interpretarla, ma (secondo le parole di Lopez, che trovo qui) il risultato non fu convincente. Qualcuno la propose a Mia Martini, che ne rimase affascinata; il testo venne cambiato ancora una volta, mischiando quello di Califano e quello originale e riadattandolo ai ricordi di bambina dell’interprete. La canzone parla di una nevicata, e dei bei tempi andati. Con Mia Martini Califano aveva scritto anche Minuetto –di base, la sua miglior canzone.
Io sono un po’ un freak di Sanremo, nel senso, l’ho sempre guardato, anche quando pensavo di odiarlo. Mi piace la canzone italiana, mi piace la gara tra teste di serie, mi piace che le canzoni abbiano stili diversi e riconducibili ad ognuno, lo sguaiato e quello che sussurra e il pezzo scritto per provocare e quello con le sonorità un po’ strane ma in realtà no. A me piacciono i crescendo, le canzoni intense, le interpretazioni impossibili pompate a bestia. Non ho ricordi chiarissimi legati alle prime edizioni, se non alcune cose sporadiche qua e là. Tra quelli più intensi c’è Mia Martini, avvolta in un vestito da sera con tremila sottane, le braccia avvolte al petto, il viso già solcato dal tempo e quelle sopracciglia assurde che aveva; la canzone si ferma un attimo, e poi parte il ritornello e lei arriva in altissimo e io davvero mi sento perso ed emozionato nei miei dodici anni. Per la classifica finale non è buona quanto Uomini Soli dei Pooh o Vattene Amore di Minghi e Mietta; vince ancora una volta il premio della critica, rimane uno dei classici della cantante, per me il suo pezzo migliore, quello più intenso. Dice che è un pezzo speciale perché dentro ci sono solo bei ricordi.
Per me dire nevicata è un modo come un altro per riassumere migliaia di bestemmie. La macchina si fonde, i camion sono bloccati, il lavoro è un incubo, uscire di casa è un incubo, la luce non funziona, internet peggio che peggio, tocca accender candele o fare la vita che facevamo nel settecento, e c’è la neve da spalare che altrimenti si alzano il babbo e la mamma e la spalano loro. Si sta chiusi in casa e c’è uno strano calore, quei sentimenti che deve provare la gente vera, quelli che non hanno lavoro di ufficio e smartphone e cose così. Il primo gennaio del 2013 nascerà mia figlia, prematura di un mesetto. Mio padre sostiene pubblicamente, in più occasioni, che è stata evidentemente concepita durante la nevicata del 2012, quelle due settimane che la mia fidanzata era bloccata assieme a me nello scantinato dove vivevo. Mio padre si è sempre considerato un asso della matematica.
Mia Martini vincerà un altro premio della critica a Sanremo, due anni dopo. Gli uomini non cambiano è favoritissima alla vigilia ma arriva seconda, dietro a uno spompatissimo Barbarossa (qualcuno un giorno spiegherà questa cosa). Al festival successivo si presenterà con la sorella, bassa classifica; poi morirà di overdose, da qualche parte nel varesotto, il 12 maggio del ’95. Probabile suicidio, qualcuno non è d’accordo, non mi interessa molto. L’anno successivo, a Sanremo, il premio della critica diventa il Premio Mia Martini. Lo vincono Elio e le Storie Tese: questo paese ti riporta sempre alla realtà.