DISCHI STUPIDI: Giorgio Moroder – Déjà Vu

Untitled-1C’è stato un periodo in cui Moroder stava lì e non lo toccava nessuno, perché era evidente quanto fosse stato profetico e determinante per la musica che avremmo ascoltato di lì a poi, ma soprattutto perché di toccarlo non fregava un cazzo a nessuno, una specie di monade del disinteresse, non so spiegarlo bene, il tipico concetto internet funzionante: una cosa che conosciamo superficialmente, che ci migliora la vita e di cui non è necessaria una vera e propria esegesi; tipo il parmigiano. Poi le cose sono cambiate.

La commozione in pompa magna per il ritorno di Giorgio Moroder sulla cresta dell’onda copre un periodo che va dal momento in cui spiegò in cosa consisteva la sua collaborazione con i Daft Punk al momento in cui Giorgio By Moroder ci venne a noia per i troppi ascolti. Fine. I due anni successivi, in cui lo stesso Moroder si ritrova uno stuolo di adepti che lo implorano in ginocchio di tornare a battere cassa, li abbiamo vissuti con quella leggerezza sgarzolina che amiamo riservare ai cantanti rock che di lì a poco moriranno consumati dalla vita di eccessi. Di lui, invece che la morte, sospettavamo l’arrivo di nuovo materiale. Era il nostro ennesimo piegarci all’ineluttabilità dei canovacci del pop: non sarebbe stato il suo testamento artistico, non sarebbe stato un’opera titanica, l’avremmo semplicemente ascoltato. Del resto il disco non ci abbia messo molto a venire annunciato e iniziare a segnare nel calendario i giorni di anticipazioni estemporanee, rivelazioni e quant’altro. Non ci siamo scomposti, e anzi ci siam fatti salire la fotta a duemila, come se in qualche modo il nuovo disco di Moroder fosse annunciato per chiudere il ciclo dei movimenti che tengono il pop in mano. Era soprattutto una questione di parentela, e di misletture. Tutto quel filone epico anni settanta sviluppatosi sull’onda di Random Access Memories ha azzerato il conto dei globuli bianchi nei confronti dei collaboratori del disco. Criticamente RAM fu una mosca bianca: chi lo smerdava ne denunciava soprattutto l’eccessivo calligrafismo, spinto oltre i limiti del molesto fino a quel punto che tanto bastava andare a recuperare i dischi delle fonti e dei collaboratori; chi lo osannava è stato straconvinto per lungo tempo (col senno di poi c’è da cacarsi sotto dal ridere) che in qualche modo la riuscita di Random Access Memories fosse dovuta ad un insospettabile stato di salute delle mummie a cui era stato subaffittato per mezzo secondo a testa (e se la parabola dei Moroder e dei Rodgers tutto sommato è facilmente associabile a bisogni retromaniaci, quanti morti ha fatto il rilancio di Pharrell?). Moroder in ogni caso era un caso a sé, uomo internet definitivo: parte del retaggio culturale, conosciuto da chiunque, mestissimo intercalare di una storiografia pop che l’aveva incastrato nel ruolo di cerniera tra accademia e scorregge trent’anni prima che questo tipo di intellettuali diventassero i nuovi intellettuali di riferimento. Intendiamoci: il grado di penetrazione degli ideali (più che delle idee) di Moroder è così alto che semplicemente non è possibile mancargli di rispetto, proprio dal punto di vista grammaticale; ci si fa la figura di qualcuno che scrive un saggio contro la parola scritta, in qualche modo; dall’altra parte sono il lassismo e il sostegno bonario a portarci a paradossi come i djset-evento milanesi con trentamila persone sotto al palco, praticamente l’unico rituale del rock da stadio che è possibile celebrare nei salotti buoni del 2015 stando lontani dal trash.

E poi insomma, il disco è arrivato davvero. Una prevedibilissima ciofeca, frutto delle idee di un tizio che è stato decine di anni in panciolle a far fruttare il capitale economico/artistico e da cui ci si aspetta sì e no un singolo estivo. Per l’occasione è stata organizzata una parata di star del pop che hanno prontamente RSVPpato, più per non perdere il giro dei dischi giusti che per attaccamento alla causa in sé, ammesso che di causa ce ne sia una. Lo si sente soprattutto nei contributi al minimo sindacale di gente di solito presa meglio come Sia, o nel miscasting che sembra quasi doloso di una Britney che nella cover di Tom’s Diner ci fa una figura stile la cantante dei Jalisse a The Voice; ma anche il tono generale è un po’ quello da discone stile italo-disco anni novanta ma senza alone epico da Festivalbar né tantomeno ritornelli killer. La volontà sembra comunque quella di buttare sul mercato una playlist  ad anello più che un album fisico, una raccolta che ascoltata puntando casualmente l’ipod stupisce soprattutto per la scarsa incidenza, l’assenza di un concetto qualsiasi che giustifichi l’esistenza del disco, gli sbalzi emotivi casuali e quell’effetto da sborrata pop-cibernetica in bocca a chi ascolta, a cui richiama anche la copertina. Questa non-tattilità del disco lo rende quantomeno un non-oggetto curioso, la cui valutazione critica diventa quasi superflua e perlopiù limitabile al conto dei click (quindi un disco nobilitabile dalla sua capacità di invadere militarmente le playlist, uno spot pubblicitario o qualche disgraziata heavy rotation nelle radio trucide). L’unica posta in gioco è quella legata al pensionamento dell’uomo: trovarselo ovunque ne ritarderebbe ulteriormente il pensionamento e potrebbe perfino rimetterlo dentro al giro dei dischi pop importanti a fare da deus ex-machina. Dovesse succedere, immaginatevi cosa pensereste di Déjà Vu se non sapeste essere un disco di Moroder.

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