Una per Robin Williams, un anno dopo

Da bambino guardavo Mork & Mindy a casa dei nonni. O meglio, la sigla di Mork & Mindy: mi piaceva la canzone e il fatto che il personaggio fosse fatto di plastilina (che si muovesse, poi, un prodigio). Quel che veniva dopo, attori in carne e ossa e risate preregistrate, una noia mortale (peraltro del tutto incomprensibile ai miei occhi di bimbo). Così spegnevo il televisore e passavo alla fase due: allagare la stanza da bagno, cooptato e pienamente incoraggiato dal nonno. Erano dimostrazioni scientifiche, diceva. Delle teorie di Archimede, diceva. Per me Archimede era un personaggio dei fumetti di Topolino e quel che mi importava alla fine era allagare il bagno con Nano, nano, la tua mano apri piano ancora a rimbombarmi nel cervello. Avevo quattro anni.

De L’attimo fuggente mi ha annichilito il finale, come probabilmente per chiunque altro su questo pianeta. Arrivarci in compenso una conquista, un traguardo da meritare: lunghissimi, interminabili minuti a lottare con il sonno, con il buio, per non finire inghiottito dalla poltrona di un cinema di cui ho perso anche il ricordo. Discorsi e dinamiche di cui mi arrivava a esser larghi il 5%. Non riuscivo a entrare nel flusso, a dare un senso alla farsa indecifrabile che si stava dipanando e sembrava non finire mai. Non capivo il motivo di tanto affannarsi, di tanto penare. Un circo urlante, una festa, ma non era divertente, al contrario. Era uno strazio. Gli ultimi cinque minuti però in qualche modo mi sono arrivati; sarà stata la musica, l’enfasi montante, inesorabile, fino a raggiungere picchi wagneriani sul finale, in parallelo a quel che succedeva sullo schermo, azioni che finalmente capivo davvero. Tutto quanto messo insieme mi ha attorcigliato le budella, la gola, un nodo che all’improvviso mi era diventato impossibile sciogliere. La prima volta in cui ricordo di avere pianto guardando un film. Non per paura; era come liberarsi di un fardello. Avevo sei anni, mi ci aveva portato mio padre.

Robin Williams assomigliava a mio padre. Almeno fino a Will Hunting compreso (anche dopo, ma meno) la somiglianza ai miei occhi era impressionante. Prenderne coscienza mi faceva un effetto strano (il legame a ogni film sempre più saldo): come una riproduzione virtuale di situazioni familiari nelle sembianze di un altro, solo leggermente diverse. Il suo volto, certe espressioni più di altre mi squartavano; su tutte, lo sguardo quando il personaggio che interpreta viene ferito volontariamente, di volta in volta da un personaggio diverso, stessa meccanica. La reazione, istantanea, come il dolore si irradia dopo una coltellata inferta a tradimento: infinito stupore, assoluto sgomento, vedere il proprio cuore calpestato con gli anfibi, totalmente vulnerabile, totalmente inerme. Un libro aperto. Delle volte il personaggio che lo feriva volontariamente nella cosa vera ero io. Transfert impegnativi: rivivere attraverso lo schermo una replica moltiplicata alla N di stati mentali pure troppo ricorrenti. Chiodi nella carne cruda. In tutti i casi porte che sarebbe stato meglio non aprire. Eppure, mai smesso di farlo. Fino a qualche anno fa, quando il livello delle produzioni in cui Robin Williams finiva coinvolto, ormai da tempo in picchiata verticale, ha smesso di scendere per assestarsi sul nero stabile; le scelte (artistiche, imprenditoriali), proiezioni di una mente deragliata già da mo’. Roba talmente contorta o amara o respingente o imbarazzante o solamente triste da rendere impossibile proseguire il viaggio. Non ero il solo: la diaspora era cominciata da un pezzo, nessuna inversione di tendenza, e non accennava a fermarsi. Del resto, difficile anche solo immaginare chi potesse essere lo spettatore di un film con Robin Williams in quegli anni, chi scegliesse volontariamente di pagare il prezzo del biglietto o anche solo occupare novanta minuti del proprio tempo con quella roba. A parte, forse, Robin Williams.

Ricordo bene quando ho imparato che era successo, l’istante. Persone che da allora non ho più rivisto, device che per me sono ancora fantascienza; sospesi nell’Interzona che è più o meno ogni luogo dove ci si trovi pochi giorni prima di ferragosto, da qualche parte, non troppo tardi. Qualcuno la butta piano: è morto Robbie Williams. Penso immediatamente all’agghiacciante video di Come undone diretto da Jonas Akerlund, sorta di upgrade di Requiem for a dream film virato deboscio, visto una sola volta in piena notte e mai più dimenticato; un ricordo lontano, comunque a fuoco, ma è un attimo. Qualcun altro aggiusta il tiro, cellulare alla mano: il morto è Robin Williams. I dettagli nei giorni successivi, questioni di secondaria importanza, la meccanica conta poco: prima respirava, ora non respira più, questo è quanto.

Mai pensato a gerarchie di alcun tipo per i miei film preferiti; comunque La leggenda del re pescatore occuperebbe un posto molto in alto. Pochi altri hanno lasciato in me un segno altrettanto profondo, ancora meno hanno determinato il mio percorso umano in maniera altrettanto radicale, definitiva, inderogabile, rendendomi la persona che sono quando sento la terra ben salda sotto i piedi (quando non, altro discorso). Ancora oggi non esiste altro film che mi faccia sentire come mi fa sentire La leggenda del re pescatore, niente che nemmeno gli si avvicini. È come se avesse colto esattamente il punto. Ogni altra parola per tentare di razionalizzare l’orrore del mondo diventa superflua al confronto; giri a vuoto, come topi ballerini condannati a ripetere la stessa danza in eterno. Se mai si può imparare qualcosa da un film, lì è dove in assoluto l’ho imparato meglio. Non avevo mai visto La leggenda del re pescatore al cinema; VHS, televisione, DVD, la qualunque, mai abbastanza spesso, mai troppo volentieri. Ma al cinema ancora no. Ci sono riuscito l’anno scorso nel momento più opportuno, uno di quei giorni memorabili (secondo Flaiano non più di quattro o cinque nella vita, il resto volume) in cui tutto è dove dovrebbe essere, tutto va come dovrebbe andare; per un attimo il tracciato acquista un senso, a un tratto so bene dove sto, vedo chiaro dove sto andando. Non succede spesso. Lì è successo. Robin Williams era morto da un mese. Per me, il suo ultimo regalo.

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