Continuo ad essere abituato a un altro tipo di metal, quello degli anni in cui lo ascoltavo -diciamo così. Musicisti vestiti come barboni che violentavano gli strumenti tirandoci fuori suoni mai ascoltati a memoria d’uomo, una continua battaglia a chi concepiva la forma sonora più estrema e radicale, quella più dissociata. Ascoltare il metal con quel briciolo di fierezza snob da adolescenti che si sbracciano da mattina a sera per fare la figura degli incompresi. Le trasmissioni in TV parlavano della musica e della sua capacità di unire, i nostri gruppi preferiti si facevano fotografare con un coltello in mano e un vaffanculo scritto sulla fronte con l’inchiostro simpatico: era roba che aiutava a sopravvivere e credo mi sia rimasta un po’ addosso.
In tutta onestà, però, non so dire se oggi mi piacerebbe ancora averci a che fare. Rimpiangere i bei tempi andati in cui il metal era rabbioso e violento significa rimpiangere la persona che ero, molto più che la musica che ascoltavo. E d’altra parte sarebbe molto più conveniente andare a cercare musica violenta in posti che non siano il metal -noise, techno e via di questo passo. Io semplicemente preferisco la musica accomodante, quella che ho già ascoltato da qualche altra parte, quella di cui in due minuti so dire vita morte e miracoli, padri putativi, inconsapevoli richiami, legami di parentela dichiarati o taciuti o ignorati; suppongo sia una cosa legata alla mia età, alla persona che sono, al lavoro che faccio e alla vita che ho scelto. Per semplificare il mio gruppo metal preferito del 2015 sono gli High on Fire: una storia vecchia di quindici anni che quando è iniziata era già il seguito di un’altra storia, la quale a sua volta era originale come sto cazzo. Gli HOF sono un gruppo il cui principale pregio è di essere sopravvissuto come una blatta alla crisi creativa dentro il metal, una band che s’è presa la briga di delimitare il proprio campo d’azione in tempi non sospetti, giocarsela su una concezione sonora non necessariamente in voga, e poi ricalibrarla fino a creare un suono basilare e violento di quelli che si ha sempre voglia di ascoltare ma che tutto sommato se non escono dischi nuovi, insomma, non è che ne fai una malattia. Matt Pike ha molto questa caratteristica di svanire lontano dai dischi e dai tour, di essere un personaggio impossibile da scacciare dall’immaginario quanto inequivocabilmente periferico e/o buono per due risate la sera che ci esci assieme e magari la promessa di ribeccarsi la settimana successiva sapendo che tutto sommato sticazzi. Come ogni volta, anche per Luminiferous il primo istinto è di metter mano alla tastiera e parlare di barbe e capelli e scintille lungo la spina dorsale, ricordare quando è stata l’ultima volta che è successo, tirare un bilancio sul metal e concludere che siano gruppi come gli High On Fire, sempre meno e sempre meno presentabili, a tenere alta la bandiera di un genere. Ma tutto sommato non serve nemmeno arrivare al secondo ascolto per smettere di farsi il viaggio e rendersi conto che l’unica boccata d’aria fresca che ci è concessa da Luminiferous è di poter ascoltare un disco fatto per piacere a dei trentacinquenni, in un genere musicale in cui tutti, non si sa per quale motivo, s’ostinano a suonare per piacere ai cinquantenni.