La supplente, una signorona di un quintale e mezzo che tutti quanti prendevano per il culo da sotto i baffi per via della stazza, ci fece fare un disegno a tema libero nella seconda parte della giornata. Io mi esaltai con una cosa di robottoni e mostri fatta con i colori a matita. Lo finii in tempi abbastanza brevi e glielo portai a far vedere. Lei guardò il foglio e lo buttò via dopo due secondo. Mi disse “fai un bel disegno dell’autunno e delle foglie che cadono.” Avevo sette o otto anni e non so dire come mai mi sia rimasto impresso nella memoria fino ad oggi. Non ero bravo a disegnare, ero una schiappa in effetti, uno dei peggio della mia classe: le migliori erano tutte femmine, e anche tra i maschi stavo piuttosto indietro -forse un paio di personaggi erano ancora più scarsi di me. Mia madre lavorava e approfittò con entusiasmo dell’avvio del tempo prolungato intorno alla terza elementare. Noi lo chiamavamo il doposcuola, anche se Giacomo aveva capito il doppioscuola e aveva convinto quasi tutti i più piccoli, a forza di angherie e scappellotti, che si chiamava effettivamente così. Al doppioscuola le classi erano miste, di diversi anni: si disegnava, e basta. La maestra forse si chiamava Rita e ci faceva disegnare con i lampostil, che è il modo in cui chiamavamo i pennarelli in quegli anni. Io facevo pastrocchi sconclusionati senza senso della proporzione e della prospettiva, non avevo idea di come si uniformasse il colore sul foglio, palla persa. Serena stava in classe con me la mattina e in classe mista con me al pomeriggio. Era la più carina e la più brava a disegnare, a un certo punto mi sarei dichiarato a lei pubblicamente -in prima media, o qualcosa del genere. Un suicidio. Adoravo i suoi capelli biondi e lisci e lunghi e le sue bamboline copiate un po’ da Candy Candy, poi passarono gli anni l’infatuazione e la vergogna per averglielo detto. La mia arte non piaceva a nessuno, la maestra Rita sfotteva il mio foglio quando arrivava in fila agli altri, qualcuno dei compagni rideva -non Serena, almeno quello. I professori di educazione artistica alle medie furono diversi ma convenivano informalmente sull’idea che non si può educare all’arte ogni bambino su questo pianeta, e che nel caso io sarei stato fatto fuori alla prima scrematura di casi gravi. La prof di arte al liceo scientifico aveva uno strano modo di accanirsi sugli incapaci: non lo faceva apposta, ma in qualche modo era infastidita dal mio approccio approssimativo e scazzato al disegno tecnico e artistico come se stessi insozzando la purezza della cosa a cui aveva scelto di dedicare la vita. Non tutti possono diventare pittori o architetti, suppongo. Furono tutti quei fumetti a prolungare l’agonia, uniti alla sensazione che se avessi continuato a disegnare sarei potuto arrivare almeno al livello di quei gregari del cazzo che illustravano un numero degli X-Men quando il disegnatore principale era in ritardo con le consegne. Riempivo quadernoni interi con le pose plastiche di uomini e donne ultramuscolosi in improbabili calzamaglie, poi iniziai a copiare a man bassa dagli italiani e dagli europei e mi sembrava di essere arrivato a una specie di segno mio. La prof di arte se ne batteva il cazzo, ovviamente -una volta ebbi perfino il coraggio di mostrarle una tavola, col risultato di farla scoppiare a ridere davanti ai miei compagni di classe. A non farsi notare s’impara col tempo.
Disegnare è una delle poche cose che ho sempre fatto. Non sono mai stato particolarmente bravo, ma ci ho passato così tante ore sopra da riuscire ad arrivare, occasionalmente, a fare qualcosa che mi piace. Ho messo insieme una specie di stile, come quelli che disegnano i fumetti, ma tutti i fumetti che ho provato a scrivere facevano tutti cagare. Il fatto che quasi tutti i docenti che avevano il compito di insegnarmi a disegnare mi abbiano trattato come un incapace è una coincidenza, o un possibile sottotesto inconscio di rivalsa personale. O forse ho continuato a disegnare perchè mi permetteva di starmene chiuso in casa per conto mio, la cosa che preferisco, o magari è stato perchè a calcio sono sempre stato una schiappa.
Adesso ho quasi trentott’anni e se voglio disegnare devo farlo la notte, invece di dormire. Alcune delle cose che faccio le metto ad illustrare il mio sito perchè non mi piace l’idea di rubare le foto altrui da internet. Altre cose finiscono in qualche poster, una cartolina, una rivista, qualche libro, un CD. È carino, ma non quanto la sensazione che provo a volte, a notte fonda, quando mi muovo verso il letto e con gli occhi gonfi di sonno butto un occhio a un tavolo su cui ho steso ad asciugare una dozzina di fogli che quando ho iniziato erano bianchi. I miei maestri e professori sono morti o in pensione; Serena è sposata, ha due figli e ha aperto una cartoleria nel mio paese, ogni tanto in pausa pranzo capito di lì e compro dei fogli o qualche pennarello. La roba per disegnare la tengo nella tasca interna di una borsa a tracolla. Se vuoi conoscermi davvero, devi andare a rovistare lì e guardare qual è la matita più corta.
________
Il prossimo disco di Caso si chiama Cervino ed è il suo primo disco elettrico. Uscirà il 21 ottobre per To Lose La Track (CD) e Sonatine/Corpoc (vinile). Ho il piacere di poter ospitare un pezzo in anteprima, che si chiama Denti di ferro ed è meno elettrico degli altri. Parla di primi amori e pastelli corti. La copertina del disco è di Davide Reviati, uno che a disegnare non ha rivali. Il disegno in alto è di mia figlia e si chiama “Il mare mare“.
Pensavo che sono Architetto e a disegnare sono un sega. La svolta è stata l’avvento dopo appena un anno di corsi alla UNI dello standard CAD per i progetti. Sia lodato il disegno automatico. Se non era per lui stavo ancora a tentare di superare Progettazione 2