BATTLES – LA DI DO LA DA DI DO DI DE DI LA DO DE LU DI DA

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È ragionevole pensare che i Battles siano stati fondati durante una bevuta colossale, nel senso, quelle idee geniali che ti vengono a mente spenta, tipo “Ian senti questa, rifacciamo gli Storm&Stress uguali con le tastierine dei videogame al posto della chitarra e John Stainer[1] al posto di Kevin Shea, poi magari facciamo due pezzi tipo cassa evoluta e ci ricicliamo alle feste indie-cassa che vanno adesso, capace che vengono a vederci venti persone in più”. E la cosa insomma ha funzionato. Difficile dire come mai, probabilmente ha inciso in modo determinante il fatto che i Battles siano un gruppo della madonna, ma possiamo dire che sono effettivamente migliori di Don Cab e Storm&Stress? Probabilmente no. Possiamo dire, però, che siano peggio dei Don Cab senza Ian Williams[2]  e della media dei dischi dei Talibam![3]? Siamo onesti e ammettiamolo, almeno questo. Quando uscirono gli EP non volevamo altro nella vita. Al di là della musica, che aveva comunque un senso e (sconvolgente) ce l’ha persino ora a riascoltarla, avevano il pedigree e queste copertine pazzesche che mischiavano hi-tech, videogiocosità e NATURALISMO in un modo molto pikkiomaniaco –vi ricordate quando sembrava che il segreto per il futuro della musica popolare fosse nascosto nei rimasugli del noise americano? I Battles erano un ex-Don Caballero e un ex-Helmet, la gente puntava un mare di soldi su gruppi tipo VAZ, cioè gli ex Hammerhead, e per un certo periodo perfino i cafonissimi Todd di un altro ex-Hammerhead s’erano beccati un mare di stampa. Poi boh, niente. I Battles firmarono un contratto con Warp e infilarono il singolo di una vita intera all’altezza del primo disco lungo, una cosa a cassa dritta di nome Atlas che –grazie anche al video più stiloso di sempre- finì per fiondarsi fuori dal circolo indiesnob ed entrare a far parte del retaggio pop obbligatorio di quegli anni[4]. I problemi iniziarono in questa fase: per prima cosa Mirrored, il disco, per la maggior parte del minutaggio non era né buono né stupido quanto lo era il singolo, e questa cosa fu fatale quando scoprimmo a malincuore che anche il singolo tutto sommato non è che fosse tutta ‘sta meraviglia. Seconda cosa, il disco che uscì in seguito (si chiamava Gloss Drop) faceva ancora più schifo di quello prima[5]. Non era ovviamente una questione di perizia strumentale[6], era che sembrava tutto vecchio e stantio e già sentito e per niente teso al raggiungimento di qualche obiettivo. Per la maggior parte della gente non è un problema, ma in qualche modo i Battles se ne vanno in giro come se avessero una missione.

Il nuovo disco dei Battles, sorpresa, è il loro miglior disco lungo. Per prima cosa ha un’idea di base, che è probabilmente la più stupida che hanno messo sul tavolo, e quindi in qualche modo la migliore –rendere l’ideale vintagevideogamehd l’unico vero obiettivo del suono- e questo rende possibile interpretare La Di Da Di come una plausibile colonna sonora per notti passate a giocare a stronzate esperienziali tipo Fez, e in questo senso un disco che è al contempo molto 2015 e molto Ian Williams[7]. Ed è un disco senz’altro stiloso e complesso ma anche molto strutturato e facile da assimilare, un po’ un disco maranza se vogliamo –tipo EDM solo che invece dei dropponi ci sono i suoni stupidi di Super Mario. E c’è John Stainer, perché io tutto sommato quello che voglio dalla musica è ascoltare la batteria e fingere di saperla suonare mentre guido. Voglio dire, che figata sarebbe sentirsi questi pezzi dal vivo? Basterebbe abbassare un pochino l’hype sui Battles, togliere i posti tipo Milano dall’orbita dei loro tour e piazzarli a smazzare in un club di provincia. Awww.

 

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NOTE AL TESTO

[1] (non ho assolutamente idea del perché, ma l’ho sempre chiamato John Stainer, probabilmente un qualche errore di battitura in un articolo di Metal Hammer ai tempi di Betty o cose così, ma mettermi qui a chiamarlo Jon Stanier[1] MI FA FATICA anche se è il suo nome, ed essendo Bastonate un perenne tributo alla mia adolescenza, il lettore sarà costretto a succhiarsi anche questa paturnia

[2] una terribile sega mentale di Damon Che, un’eminenza grigia del postrock intellettuale che non prova alcuna vergogna, dopo quasi vent’anni di attività, a fare uscire un disco intitolato Punkgasm.

[3] Per i quali comunque va detto che nutro un rispetto sterminato, il quale si manifesta piuttosto evidentemente in tre cose: avere provato ad ascoltare altri progetti di Kevin Shea sull’onda dei Talibam!, tipo quelli che si chiamavano forse Get the People; dare il permesso a Marco Caizzi, in onore di un paio di passioni comuni, di scrivere articoli su Bastonate che sfottono la mia ammirazione per Tiziano Ferro; avere fatto una trasferta Cesena/Urbino, tipo di mercoledì sera, per quello che sospetto essere stato il primo tour italiano dei Talibam!, ritrovandomi assieme a una fazione di scappati di casa in uno di quei bar di lusso per giovani palestrati/abbronzati che si era messo in testa di fare qualche concerto, forse per sgravare il fisco. Comunque i Talibam! Suonarono sul pavimento accanto alla vetrina con un pubblico di circa 15 persone, 7 delle quali cesenati in trasferta. Non avevano le magliette: avevano portato gli stencil per farti la maglietta a vernice sul momento.

[4] Diventando banale e naufragando nel giro di pochissimo, voglio dire, era una revisione HD-cassa della canzone che stava nella pubblicità di cicciobello

[5http://www.bastonate.com/2011/06/13/fumetti-battles-gloss-drop-e-grazie-per-i-si/

[6] Anzi, siamo onesti, uno dei principali motivi per cui ascoltiamo gruppi come i Battles è che appagano pienamente il nostro bisogno bisogno di ascoltare musica per  riccardoni senza necessariamente farci sentire come i fan dei Dream Theater.

[7] Parlo così a caso, nel senso, se guardi la foto di Ian Williams secondo me ha l’aria di uno che si sfonda di videogiochi ecco

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