Stanno cominciando ad uscire le recensioni del mio album. Ho scoperto che non me ne frega niente.

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Stanno cominciando ad uscire le recensioni del mio album. Ho scoperto che non me ne frega niente.

Detto in una sola riga sarebbe questo, il senso di quello che sto per scrivere. Invece probabilmente la cosa andrebbe spiegata un tantino meglio, o comunque bisognerebbe articolare il proprio pensiero su una cosa del genere. Non che agli altri debba fregare qualcosa se escono le recensioni del mio disco, semplicemente mi sembra che in linea di massima questi siano tempi dove davvero le recensioni dei dischi non servono più a niente a meno che non abbiano uno scatto vincente, un qualcosa che ci faccia capire che c’è davvero di più da sapere su quel determinato album. Ma quel qualcosa, purtroppo, non c’è.

Agli albori di internet, parlando con un amico che suona, ci dicevamo entusiasti del fatto che la rete avrebbe garantito a chi scrive di musica di poterlo fare con meno restrizioni. Non eri più obbligato a fare la piccola recensione nella quale non riesci ad articolare una mazza se non utilizzando tre o quattro parole che non vogliono dire nulla, magari copiate dalla cartella stampa. Il mezzo consentiva voli pindarici, seghe mentali, cose così. Di recente, Francesco Farabegoli ha scritto su Bastonate che questi sono tempi straordinari per scrivere di musica. E’ vero, secondo me. Sono tempi straordinari così come sono tempi straordinari per incidere musica. Ognuno di noi può, a costo zero, scrivere di musica nei termini che vuole, facendosi il proprio blog o unendosi con altri, creandosi la sua rete di possibilità. Ognuno di noi che suoniamo può registrare con una qualità che vent’anni fa non avremmo ritenuto possibile a disposizione di uno studio di registrazione, figuriamoci se pensavamo di poterceli fare in casa, i dischi. In effetti oggi tutti fanno musica, in effetti oggi tutti scrivono di musica.

Poi c’è il come. Possibile che ci siano web-zine, che esistono solo sul web, che fanno le recensioni ai dischi e finiscono per farle della stessa lunghezza delle riviste musicali? Abbiamo tutto lo spazio del mondo, possiamo parlare di una canzone che ci ha colpito raccontando per filo e per segno la canzone e magari collegandoci nostri ricordi o esperienze personali. Possiamo fare centomila paragoni a questo o quel gruppo, aprendo link incrociati, facendone di ogni. Invece no, recensione di N battute dove si parla a malapena dell’album, copiando metà della cartella stampa.

E le interviste? Possibile che facciano le interviste ai musicisti con lo stesso metodo stupido delle 5,6,10 domande spedite tutte insieme in un file di word dove poi tu rispondi, gliele rimandi, e questi le pubblicano dopo aver aggiustato un paio di domande dove gli avresti fatto fare la figura degli scemi perché magari alla domanda “Ma questo tuo secondo album” e invece è il sesto. Voglio dire, abbiamo qualsiasi possibilità per chiacchierare. Possiamo incontrarci, possiamo chiamarci via Skype, possiamo andare in una chat e scrivere per due ore migliaia di pagine, divagando, parlando di ogni cosa che ci viene in mente, poi tornando all’argomento principale. Invece no, siamo ancora alle 5,6 domande spedite tutte insieme, una delle quali è sempre “Qual è la differenza tra questo album e i precedenti?” (la cui risposta universale dovrebbe essere quella che Mark Arm diede a Rockerilla ai tempi di Every good boy deserves fudge, vale a dire “Siamo entrati in studio camminando all’indietro”) oppure “Progetti per il futuro?

(Discorso a parte per i voti ai dischi. Gli italiani prendono tutti almeno un 7, perché se non mi dai 7 col cazzo che ti compro il giornale e lo sanno benissimo. Se il disco è proprio brutto prendi un 6. Se il disco prende 3 o 4, vuol dire che sei uno che conta, perché nessuno si prende la briga di stroncare come si deve il disco di un signor nessuno, ma stronca in funzione della visibilità che ottiene, esattamente come un metallaro fa un assolo con 124 note per battuta per far vedere che lui ha studiato chitarra all’accademia. Il risultato di questo sistema è che siamo pieni di dischi che prendono 7 o 8, che sono anche il numero di persone che mediamente puoi vedere ai concerti dei tizi che vengono recensiti, ad avvalorare la tesi che nessuno legge le recensioni, se non le proprie).

A vedere questa replica delle riviste cartacee viene il sospetto che molti di quelli che scrivono su internet in realtà stiano facendo vedere a quelli che scrivono sulla carta stampata come sarebbero bravi se anche loro potessero scrivere sulla carta stampata. Questa tesi è avvalorata dal fatto che poi le fanze sul web muoiono o quasi non appena i tizi che scrivono lì sopra finiscono a scrivere sulla carta stampata. Questo porta a due cose che secondo me non sono grandi cose.

La prima cosa è puramente estetica. Visto che tutti quelli che scrivono di musica su una webzine ci scassano il cazzo dicendoci che siamo “derivativi”, e poi li vedi che scrivono come quelli della carta stampata per diventare come quelli della carta stampata, quando usano una parola come “derivativo” in senso critico o dispregiativo si potrebbero pure pulire il culo con la loro recensione.

La seconda è molto più grave, e ha un parallelo con noi che suoniamo. Noi che suoniamo, quando cominciamo pensiamo che quelli che suonano in determinati posti o che hanno recensioni in determinati giornali poi “svoltino” in base a quelli e quindi ci affanniamo per accodarci a questo sistema, salvo poi scoprire (una volta arrivati a quella che pensavamo essere una svolta) che in realtà non si svolta ma c’è ancora tanta strada che non si vede l’orizzonte.

Ebbene, anche i giornalisti musicali fanno lo stesso percorso. Cominciano a scrivere in una webzine, sognano la carta stampata, poi ci arrivano e scoprono che dovranno comunque continuare a fare i falegnami, i baristi, i camerieri, gli impiegati eccetera, visto che comunque la maggior parte dei collaboratori delle riviste non prende un soldo o quasi.

Non è tanto il fatto che poi tu giri suonando per l’Italia a cachet da fame e poi ti viene chiesto se “hai anche UN ALTRO LAVORO” (E la mia risposta in genere è “Io non ho un altro lavoro. Io ho UN lavoro. Questo è un hobby, io sono un dilettante”).

Il casino è che secondo me questa è una delle cause per le quali la “scena indipendente” invecchia sempre di più e diventa ogni giorno più piccola e insignificante, nonostante incrementi i mezzi per farsi conoscere.

Credo che il motivo base sia questo continuare a fare finta di contare qualcosa, perché non siamo in grado di ammettere che siamo tutti un’accozzaglia di dilettanti, perché continuiamo a cercare di far sembrare importanti cose che non lo sono e lo facciamo soltanto perché ci secca dover ammettere che abbiamo inseguito un modello perdente, nella nostra strategia pianificata in camera tra i 15 e i 18 anni. Insomma, non riusciamo a dire “Abbiamo perso” e non riusciamo a dire a chi comincia ora come fare per non perdere pure lui. Questo avviene in una fase che dura più o meno per tutta l’età nella quale dovremmo in realtà saperci esprimere al nostro massimo, mentre perdiamo questo tempo ad arrampicarci su specchi già belli graffiati da chi ci ha preceduto.

Noi che suoniamo, oggi (da anni a dire il vero) stampiamo dischi in 500 copie o 1000. Giriamo per cifre che ci pagano il viaggio ed è solo per questo che negli ultimi anni vanno i solisti, i cantautori, l’acustico.

Perché suoniamo in spazi più piccoli, che possono pagare di meno, che lo fanno in nero. E’ la naturale evoluzione delle copertine degli inserti dedicati alla musica italiana negli anni novanta, quando finire su Fuori dal Mucchio era il primo obbiettivo di un gruppo, senza renderci conto che in realtà i gruppi della generazione precedente finivano in copertina del giornale o con due pagine in mezzo agli altri, non ogni settimana in un inserto che, per quanto buone potessero essere le intenzioni (e lo erano, c’è da giurarci) finì ben presto per diventare oggetto di quella pietà che riserviamo ai minus habens, con noi che stavamo ai nomi esteri come le paralimpiadi stanno alle olimpiadi.

Questa cosa rischia di durare ancora molto, se non ci diamo un taglio. Perché non possiamo chiederla a chi comincia, questa consapevolezza.

Quando un ragazzo mette su una band o comincia a suonare, inizia a girare il paese suonando e ogni tanto gli va pure bene qualche serata, finisce per la prima volta sul giornale e si eccita come un pazzo. Ve lo ricordate la prima volta che siete stati recensiti su un giornale? Vi ricordate la prima volta che una radio ha passato un vostro pezzo? Vi ricordate la prima volta che dopo un concerto un tizio è arrivato a chiedervi se poteva farvi qualche domanda per (riempite voi lo spazio)? Io me lo ricordo. Me lo ricordo ancora. Sono cose che a vent’anni ti danno una carica incredibile, ti fanno sembrare tutto possibile. Non arrivi a capire che in realtà ti sembra tutto molto importante soltanto perché sta accadendo a te e che non è che tu stia diventando più grande, ma è il mondo che si sta rimpicciolendo.

Mi dicono sempre che sono pessimista. Io credo, francamente, di no. Semplicemente odio l’ottimismo di facciata, odio il nascondersi dietro un dito, anche perché se ti nascondi dietro un dito io ti vedo benissimo e non posso fare finta che non sia così. So benissimo che la pubblicità è l’anima del commercio, che in pubblicità devi per forza far sembrare il prodotto più di quello che é.

Però credo che sia giunto il momento, per la mia generazione, di ammettere la propria sconfitta, di insegnare ai ragazzi più giovani cosa conta e cosa no, di mettersi in gioco onestamente per farli crescere davvero, se non in termini di vendite almeno in termini di consapevolezza. In fondo anche la generazione dell’indie rock americano ha avuto un campo di battaglia dove si contavano innumerevoli caduti. Ma furono anche quegli stessi caduti, con la loro onestà intellettuale e con la loro diretta testimonianza, a far sì che la generazione successiva potesse scalare le classifiche di vendita per cambiare le cose, o quantomeno provarci.

Per noi è troppo tardi. Per qualcun altro, magari no.

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Il nuovo disco di Giancarlo Frigieri si chiama Troppo tardi ed è uscito un mesetto fa, settimana più settimana meno. Occasionalmente gli capita di scrivere cose sul suo sito, e di solito sono cose molto belle e che mi fanno pensare molto. Nel suo nuovo disco c’è una canzone di cui ha girato un video (il protagonista è Vincenzo Maenza) che è molto bello e quindi lo mettiamo qui sotto. Questa è la prima volta che scrive su Bastonate. (FF)

 

 

8 thoughts on “Stanno cominciando ad uscire le recensioni del mio album. Ho scoperto che non me ne frega niente.”

  1. Porco Giuda, uno degli articoli più onesti che abbia mai letto. Mi trovi perfettamente e a malincuore d’accordo su tutto. Grazie!

  2. Stai cominciando, FF, a crosspostare (e a farti aiutare in questo) fra varie webriviste degli argomenti che vuoi far passare. Ho scoperto che mi fa girare molto i coglioni.

    Quanto ci avete messo, per curiosità, a scoprire che da soli è meglio una prebenda di un’ideale per cui combattere fino a sessant’anni, e che il tempo degli eroi che combattono le major a tutto spiano è bello che finito, visto che dall’altra parte c’è un’armata di silos digitali altrettanto grossa, per non parlare del fatto che anche a quei tempi molti di questi eroi dell’indie erano spinti da warner o universal?

  3. Io non sono molto in sintonia col pezzo (#equandomai).
    Nel senso, tutto molto bello e poetico e quel che vuoi, però io non credo, davvero, che se non si trovino molti posti in cui uno butta 15k parole per parlare di un disco sia perchè c’è corsa ed emulazione alla carta stampata. Io credo piuttosto che non ci siano materialmente le persone che quelle cose le leggano.

    Le interviste. Io non è che abbia sta carriera di giornalista musicale alle spalle (manco un po’ in effetti), ma qualche intervista mi è capitato di farla. L’ipotesi di sentirsi via mail con la formula io ti scrivo e tu rispondi e io ti rispondo a mia volta è ovviamente una cosa fighissima, ma quanti pezzi finirebbero nel cesso perchè chi dovrebbe rispondere non ha tempo, si secca, si dimentica e via dicendo? Mi è capitato di perdere delle ore a pensare domande che trovavo interessanti e magari meno banali del comune (per i miei standard) e inviarle a gente che poi fa passare tre mesi per risponderti a monosillabi (Jonah Matranga, se leggi, vaffanculo). E allora è ovvio che il tuo “collega” che invia le solite 15 domande standard a tappeto sia uno che non ci mette manco un po’ di quella cosa lì, però a quel punto se l’alternativa è sbattere il cranio su domande a cui dio sa chi risponderà e in che modo, vien facile dire: “Oh, io mi cerco un altro hobby e andate a cagare”.

    Quindi mi sembra che il punto del discorso non sia sbagliato, anzi lo sento vicino in molti punti, però è proprio raccontarci quanto è bella casa nostra senza prendersi la briga di aprire le tende e vedere se fuori è uguale.

  4. Mi e’ piaciuto molto l’articolo. anche se che tristezza che nella musica la maggior parte del denaro che gira e’ a nero. le tasse vanno pagate (scusate la pesantezza). poi se “svoltare” significa per qualcuno, campare di musica, allora forse le aspettative sono sbagliate. ho conosciuto una ragazza che non ha dovuto mai lavorare un giorno della sua vita, perche’ una sua canzone va fortissimo da 20 anni in giappone e campa decentemente con i diritti di quella. mentre mark arm (che e’ stato nominato qui) fa il magazziniere….. pero’ secondo me marc arm ha “svoltato” molto di piu’ della tipa delle shampoo. anche se economicamente non ha “svoltato”. ps scusate il mio italiano. il mio maestro a scuola era il mago gabriel della giallappa

  5. @manq – ma guarda francamente anche io non sarei d’accordo con FRIG stando alla roba che leggo quotidianamente, ma se vai a cercarti le fece di un disco qualsiasi, tipo “pinco pallino the easy years recensione” su google, lo scenario è esattamente quello. e secondo me è ancora la maggioranza assoluta, e di base la roba diciamo italiana di basso profilo si riferisce soprattutto a questo scenario qui. volente o nolente. e quindi boh, penso che tra riferirsi a questo scenario e niente, spesso sia meglio niente.

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