Sabato scorso ho deciso di innamorarmi del disco di Courtney Barnett. È stata una decisione più o meno scientifica, basata sugli ascolti che gli avevo dato i mesi scorsi –da cui era uscita fuori l’idea che fosse un buon disco, di quel buono con cui si ha a che fare su base bimestrale anche in tempi di crisi, e che tutto sommato il suo successo critico così elevato dà la misura della situazione generale del rock d’autore, chiamiamolo così. Insomma, mi sono messo lì e mi sono innamorato. Il suo accento, certi dettagli dei testi, la musica da ascoltare, è un disco assolutamente adorabile che ascolterò tantissimo e non lascerà alcuna traccia. I dischi che preferisco oggi sono tutti così.
Da qualche anno sento sfuggirmi di dosso la passione per la musica, nel senso, quella cosa che ti senti tutto carico quando sta uscendo un disco che aspetti e lo scarti e lo suoni, o che so, quando ascolti un gruppo per la prima volta e rimani a bocca aperta. Qualche anno fa notavo che mi succedeva sempre meno spesso, ora sto notando che non mi succede proprio più. Occasionalmente mi capita di incolpare la musica per questa cosa, nel senso che secondo me molti dei dischi che piacciono a molte persone e stanno nelle playlist delle buone riviste alt-rock, che tutto sommato è la musica che ascolto, in realtà non sono tutto questo granché. Oddio, al trenta per cento è anche una questione legata a come sono cambiati i gusti del pubblico in generale: la musica da qualche anno a questa parte è diventata un po’ più generica di com’era quindici o venti anni fa. Ed è vero che i tempi sono cambiati e oggi la musica è un briciolo più anonima, ma la verità ultima e definitiva è che sono io a non aver più voglia di prendere la macchina e andare a vedere qualche ventenne che non conosco a 25 km da qui. Due giorni fa leggevo un articolo molto interessante di Birsa Alessandri intitolato La musica dance sta uccidendo l’indie rock ma non abbastanza in fretta, e parla del fatto che la musica dance stia in qualche modo uccidendo l’indie rock (utilizzando concetti tipo “hetero-middle-whiteness” e “fallocrazia”, che effettivamente sono sempre stati abbastanza problematici in un certo tipo di musica e di narrativa musicale, anche se continuo a credere lo siano stati meno di quanto si vada dicendo ultimamente in giro) ma non lo stia facendo abbastanza in fretta. Probabilmente un paio d’anni fa sarei stato in feroce disaccordo, ora sono disposto ad ammettere molte delle ragioni del pezzo -e per quello su cui non sono d’accordo, non vedo manco più il punto di star lì a contestare. Quello che mi interessa comunque, nell’articolo e forse nell’idea generale di musica che ha uno come Birsa, è questa concezione della musica come occupazione di spazio, che sia culturale o fisico o quel che è. Voglio dire, io non sono d’accordissimo con alcuni presupposti dialettici di questa concezione, ad esempio l’idea che debba arrivare qualcosa di meglio a spazzare via il peggio o che insomma arrivi qualcosa che a spazzare via qualcos’altro, come a cercare aria per respirare. È una concezione che s’è sempre predicata, anche e soprattutto nelle culture da cui bene o male ho preso tutto: pensare solo a tutta la retorica del primo-secondo-terzo punk, un’altra di quelle cose che mi hanno esaltato per 10 anni e che ora, se mi capita di risentirle, mi fan venir voglia di spaccar vetri. Ma al contempo in queste sottoculture potevi tutto sommato fare la tua cosa senza che qualcuno venisse troppo a rompere il cazzo, e una volta creato un network –per quanto piccolo e sfigato- le cose funzionavano a meraviglia.
La cosa paradossale è che oggi la cosa dei network sarebbe ancor più fattibile, nel senso, non costa quasi niente –si può suonare e scrivere di un genere musicale preciso e di ultra nicchia, diventare essenziali per 45 persone in Italia invece che vagamente piacevoli per 4500. La questione è che non viene fatto. Perché? Non lo so. In parte è per la questione dell’occupazione, occupare questo, occupare quest’altro. l’idea che un argomento più “caldo” possa essere affrontato meglio da me che da quest’altra persona che ne scrive su quest’altro quotidiano in maniera imprecisa o senza trasporto. Un’altra ragione è che basta scrivere di argomenti più emersi per essere notati, e di conseguenza generare un dibattito più dinamico, e il crearsi di un dibattito può dare molta dipendenza. Sia quel che sia, la principale rete di persone che operano qui in giro è composta da persone che si occupano tutte della stessa cosa e suonano tutte la stessa musica e fanno tutte lo stesso cinema e gli stessi libri, guardacaso le stesse cose che tutti ascoltano guardano e leggono, in un bizzarro circolo vizioso dell’inutile ad ogni costo che 1 ha un vago retrogusto onanista e 2 lascia poche speranze di rottura, tra virgolette, futura. Così mi capita di pormi spesso, di questi tempi, un problema che è opposto a quello dell’occupazione, un problema legato al liberare degli spazi, al togliermi dai posti. Gli Uochi Toki a un certo punto dicevano “voglio essere l’unico a pensarla”, ed è tutto sommato una buona approssimazione. La maggior parte dei pezzi che inizio e magari completo non vanno a finire in pagina perché non riesco a trovare un giusto punto d’incontro tra quello che ho voglia di scrivere e quello che abbia un briciolo di senso avere scritto. Il risultato a volte è una settimana di stacco tra un pezzo pubblicato e il successivo. E qualche piccolo occasionale paradosso, ad esempio il fatto che sul mio blog non ho pubblicato articoli o recensioni su nessuno dei dischi che ho amato di più quest’anno.
Magari è stupido a pensarci, ma cosa scrivi di un disco che ti piace? Dipende dal perché ti piacciono. È una fase in cui per me hanno molto senso le raccolte di canzoni, la scrittura dei musicisti, magari due linee di testo che mi si aprono in testa. E questo a livello di scrittura può essere un vicolo cieco perché l’unico modo di portarci a casa un articolo decente è cercare di entrare in sintonia con la scrittura delle canzoni stando lontani dalla critica musicale, una cosa che praticare mi fa sempre più schifo. Un modo ragionevole per farlo, un modo che non mi stanca nel brevissimo, è trovare un punto di incontro tra le canzoni che mi piacciono e i pezzi in cui scrivo. Ad esempio adottare un certo linguaggio o una linea di testo e raccontare una storia e andare avanti finchè il coso non è pronto da mettere in pagina, e molto spesso finisco a guardare il pezzo e pensare che sto facendo schifo. La ragione fondamentale è che a un certo punto mi viene in mente questo tizio che conoscevo nei primi tempi di internet: scriveva le recensioni di discacci tipo Sadness Will Prevail su certe riviste metal, cercando di “descrivere le sensazioni che provavo al momento”. Venivano fuori citazioni della bibbia e scene mutuate da certi horror, e una volta avrei provato a scrivere cose divertenti per intrattenere il lettore ma in questa fase odio anche scrivere in maniera divertente. Così la cosa più ragionevole diventa smettere di incaponirsi e buttare il file nel cestino. Sento sempre più spesso, questo sì, di occupare uno spazio che qualcun altro potrebbe occupare con qualcosa di più importante e quindi boh, lasciamo che qualcuno dia un parere più appassionato su qualcosa che potrebbe interessarci di più. A chi frega davvero di quello che pensiamo della musica? Qual è il punto, dato che nessuno di noialtri ci tira fuori un vero stipendio?
Dal punto di vista critico, sento che essere preso bene dalle canzoni piuttosto che dai suoni e dai linguaggi squalifica almeno in parte le cose che scrivo, nel senso che tende a sfuggirmi il polso del presente (figurarsi quello del futuro) e fa planare molte delle cose di cui mi occupo su discorsi stupidi. Ad esempio: cosa di quello che esce oggi avrebbe avuto senso se fosse uscito vent’anni fa? Fino a che punto si può continuare ad ascoltare lo stesso disco prima di sentire di essere alla messa domenicale? I testi di questo disco sono abbastanza buoni da farmi dimenticare che sto ascoltando la stessa merda da trent’anni? sono problemi stupidi, dicevo. Più senso avrebbe capire a grandi linee qual è il mio posto nel mondo, in questa cosa, e sapere chi sono le persone a cui sto parlando, e magari parlare a loro in un modo più quieto. A questo proposito, il disco di Courtney Barnett non mi serve mica così tanto. Lei sta lì a cantare con questo atteggiamento stralunato e indolente e parla di starsene sveglia a fissare il soffitto alle tre di notte con l’odore di olio usato che viene dalla cucina e fa necrochic, e certi piatti su cui è disegnato un levriero irlandese con una baguette al collo e nel complesso le viene da pensare che ha fame e le viene anche da pensare alla persona a cui sta pensando. E questa cosa che fa è bellissima e forse un giorno lontano mi avrebbe salvato la vita, ma la mia vita di allora era più semplice o più difficile o avevo comunque più immaginazione. Oggi sì, innamorarmi scientemente di Courtney Barnett e del suo disco inutilmente adorabile è il palliativo intellettuale di qualcosa che una volta sarebbe stato emotivo e magari avrebbe prodotto un articoletto più bello di questo. Non è necessariamente una cosa meno sincera, anzi magari lo è di più, ma cosa ce ne facciamo?
Oh dear. I think I know what this is. You see Francesco, as you get older, things that you used to like start looking and sounding like shit. And things that seemed shitty as a child don’t seem as shitty. With you, somehow, the wires have gotten crossed and everything looks and sounds like shit to you. It’s a condition called “being a cynical asshole.”
Poi tanto esce sempre il disco che ti tira su il morale, non preoccuparti.